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Autore: Lady Vibeke    08/10/2007    4 recensioni
Bill e Tom Kaulitz, i gemelli più amati ed uniti dell'universo, celeberrime rockstar e nuovi sex symbol del panorama musicale internazionale. I Tokio Hotel, la fama, i fans, i viaggi, i soldi, il successo, e poi... E poi lei. Leni.
Tom la odiava, Bill non sapeva cosa pensare di lei, ma per entrambi la sua presenza aveva portato non poco scompiglio. Nessuna ragazza era mai riuscita a dividerli, e di certo non ci sarebbe riuscita una semplice stylist neoassunta senza un briciolo di attrattiva.
Questo, almeno, era quello che tutti avevano creduto.
Genere: Romantico, Commedia, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bill Kaulitz, Georg Listing, Gustav Schäfer, Nuovo personaggio, Tom Kaulitz
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tom doveva ammettere che forse aveva esagerato con la colazione e che dopotutto il suo fisico non aveva veramente bisongo di tre croissant alla Nutella, una pila di waffles con panna, una cioccolata calda e un piatto stracolmo di bacon, uova e salsiccia con formaggio.

Cercò Gerog e Gustav con lo sguardo tutt’intorno alla sala privata del gruppo e dei vari addetti, ma ancora non c’era traccia di loro.

Pare che io sia il solo vero uomo, nella band, rifletté sornione, andandosi ad appartare ad un tavolo in un angolo della stanza luminosa, accanto ad un’ampia finestra. L’ambiente, doveva ammettere, era molto raffinato. Un po’ troppo, forse.

Era già pronto a rimpinzarsi, quando si accorse che nella foga del momento aveva dimenticato di fornirsi di un dettaglio non del tutto indifferente: le posate.

Grugnì infastidito, si tolse il tovagliolo che già si era infilato nel colletto della maglietta e si trascinò di nuovo fino al buffet, alla ricerca delle stoviglie. Quando finalmente le individuò, notò che era rimasta una sola forchetta.

Allungò in fretta la mano per afferrarla, ma qualcuno lo precedette di un infinitesimale di secondo.
Profondamente irritato, Tom si voltò verso il misterioso incriminato e per poco non si lasciò sfuggire un rantolo ben poco educato.

Era la ragazza delle scale.

Se ragazza si può chiamare uno stecchino sgraziato che porta gli anfibi.

“Quella è la mia forchetta.” Le disse con tutto il garbo che riuscì a riesumare da sotto i vari strati di impazienza. La ragazza scrollò le spalle con noncuranza assoluta.

“Non mi pare siano nominali, queste posate,” osservò con altrettanto garbo. “Puoi trovarne altre nel salone pubblico.”

Tom aggrottò la fronte, pronto per protestare, ma lei lo precedette:

“Vuoi che ti accompagni io?”

Sembrava seria. Non suonava affatto come una battuta, ed dal modo in cui lo stava guardando sembrava davvero convinta che lui avesse bisogno di essere scortato come un bambino smarrito.

Ma chi diavolo è questa?

Lo sguardo di Tom cadde sul badge che la ragazza portava appuntato al petto, che prima gli era sfuggito, e rimase interdetto per un paio di secondi. Fu solo quando guardò nuovamente verso il volto di Alhena (Alhena Regan, da quel che si riusciva a leggere sul badge, quasi del tutto coperto dai suoi lunghissimi capelli) che si accorse che il suo momentaneo stato di trance contemplativa poteva essere frainteso in modo veramente sconveniente.

“I – io…” tentò di scusarsi, ben sapendo di non essere credibile, pur essendo – per una volta –innocente. “Io non stavo guardando –”

Col cavolo, Kaultiz, sei un playboy di fama continentale, ti aspetti anche che ti creda?

Alhena incrociò le braccia e lo scrutò da dietro le lenti scure degli occhiali da sole. Perché diavolo li portava all’interno di un edificio, poi?

“Come ti pare,” La ragazza sembrava tutto fuorché convinta della sua onestà. “Ci vediamo...”

Lo fissò un istante, inclinando lievemente il capo di lato, come ponendogli una muta domanda.

“Tom.” Disse lui, prima ancora di rendersene conto, stupito della necessità di presentazioni. Lei annuì.

“Alhena.” Si presentò.

Tom si trattenne dal rispondere ‘Grazie, so leggere’ e le strinse la mano fredda.

“Ma tutti mi chiamano Leni.” Precisò poi la ragazza.

“E hai sempre l’educatissima abitudine di non permettere alle persone a cui ti presenti di guardarti negli occhi, Leni?” fece lui beffardo. Lei, però, non si scompose.

“A tuo rischio e pericolo,” Sollevò la mano libera e si sfilò gli occhiali, e Tom comprese immediatamente perché li portasse: il suo viso era così stanco e sciupato che avrebbe potuto far concorrenza a Bill.
Nonostante tutto, però, l’occhio esperto di Tom capì che con qualche ora di decente riposo alle spalle e magari un po’ di colore in faccia doveva essere vagamente guardabile. I suoi occhi a mandorla erano di un luminoso azzurro cielo, la bocca piena e rosea, particolarmente colorita rispetto all’incarnato candido, come se la sua pelle non avesse mai conosciuto il sole. Portava un anellino d’argento al naso, cosa che a Tom prima era sfuggita, e una fila di sette piercing le ornava l’orecchio destro, compensata da solo due al sinistro.

Tom, comunque, restava dell’idea che ci fosse qualcosa di insopportabile nei suoi modi distaccati e un bel po’ sopra le righe.

“Sei la figlia di qualche produttore o PR, per caso?” le chiese d’istinto, curioso di scoprire cosa ci facesse mai una ragazza così giovane e bizzarra tra i membri del loro staff.

Le labbra di Leni si incurvarono all’insù.

“No, dolcezza, sono la nuova stylist di un gruppo che alloggia qui, e faresti meglio a levare le tende, se sei un fan, perché passerai guai seri, se ti beccano.”

Tom si costrinse ad assumere un’espressione di compromesso, che potesse sia celare il sogghigno divertito che lottava per deformagli la bocca, sia mascherare quella punta di sdegno che sentiva scintillare nei propri occhi.

“Correrò il rischio,” la rimbeccò, deciso a stare al gioco. “Vediamo se e quando mi scoprono.”

La nostra nuova stylist non sa nemmeno chi siamo, si disse sconcertato, andiamo bene. Veramente bene.

“Sei un mocciosetto sfacciato e petulante, lo sai?” gli disse lei.

“Ah sì?”

“Sì,” insistette lei. “E dovresti dire a mammina che è presto perché tu ti lavi da solo, perché evidentemente hai difficoltà a togliere un certo tipo di macchie.”

Tom non aveva la più pallida idea di cosa quella piccola presuntuosa stesse parlando. La conosceva da poco più di trenta secondi e già aveva la sensazione che la pace nel mondo sarebbe stata di un passo più vicina alla realizzabilità se mademoiselle Alhena si fosse volatilizzata all’istante dalla faccia della terra.

Dettaglio fondamentale, per quanto minuscolo: apparentemente Sua Grazia era la nuova assunta come consulente d’immagine del gruppo, e dio solo sapeva quanto c’era voluto per trovarne una.

Tom si domandò perché Leni gli stesse fissando il collo con tanta acida significatività dipinta in volto, poi, come un fulmine a ciel sereno, ricordò.

La rossa. Quella stramaledetta rossa che si era fatto la sera prima, con quel suo orrendo rossetto scarlatto che sembrava gridare al mondo ‘Sono una meretrice’.

A Tom sovvenne che in effetti aveva preso appunto mentale di darsi una ripulita da tutto quel rossetto appena si fosse svegliato, ma poi nel trambusto della partenza se n’era completamente dimenticato.

Dannazione.

Nemmeno gli piacevano le rosse, poi.

“Hey, tu!”

Lui e Leni furono interrotti dalla voce possente di Samuel, uno dei tanti addetti al benestare del gruppo, che fece cenno ad Alhena di avvicinarsi.

“Be’, buon primo giorno di lavoro, allora.” Tom sollevò appena la visiera del proprio berretto in un ironico segno di saluto, le sfilò sfacciatamente la forchetta di mano e si affrettò ad allontanarsi, mentre lei gli imprecava dietro qualche colorito insulto inglese che lui si rallegrò di non comprendere e Samuel la chiamava di nuovo.

Tom si augurò di tutto cuore che stesse per assegnarle qualche compito o molto sgradevole o molto gravoso. O, possibilmente, entrambe le cose.

---

Leni stava fumando dalla rabbia. Da quanto diceva il suo contratto, era stata assunta per consigliare ad una manciata di concentrati di testosterone con le gambe ed un sacco di ferraglia addosso come sfruttare al meglio i loro gusti in fatto di vestiti e simili, ma non le risultava che l’incarico comprendesse fare la cameriera personale quando uno di loro era troppo regalmente pigro per prendersi la briga di abbandonare la propria torre d’avorio e degnare il resto della vile umanità della propria divina presenza e amenità simili.

Non che non fosse abituata ai capricci delle star, anzi. Lavorando in una prestigiosa boutique si era fatta una vaga idea dei livelli di idiozia che potevano raggiungere certi vip, ma che ora le si chiedesse di fare la sguattera di quattro mocciosi imberbi proprio non le andava giù.

Uscì dall’ascensore soffiando come una gatta inferocita e cominciò a passere in rassegna i numeri sulle porte del piano: 312, 313, 314…

Quando finalmente trovò la suite di Bill Kaulitz, trasse un profondo respiro e si impose di darsi una calmata, poi bussò tre volte. Volente o nolente, stava per incontrare per la prima volta uno dei suoi ‘clienti’, quindi avrebbe dovuto mostrare rispetto, anche se ad aprire la porta sarebbe stato un brufoloso bamboccetto alto un metro e mezzo con qualche stupida maglietta dallo slogan osceno, disgustosamente pieno di sé.

Ma Bill Kaulitz non era nulla di tutto ciò.

Quando la porta si aprì lentamente, non c’era nessun moccioso pomposo, dietro di essa. Il ragazzo che le stava di fronte era alto, dal fisico deliziosamente asciutto, con lunghi capelli neri cosparsi di meches bianche che sparavano in tutte le direzioni, diversamente da quelli di Leni stessa. E poi aveva quegli occhi di un indescrivibile color nocciola, incredibilmente dolci ed amichevoli.

Una morsa letale le afferrò lo stomaco, mentre uno strano campanello le trillava in qualche remoto angolo della testa.

“Mi hanno detto di portarti la colazione.” Sussurrò, mentre i suoi occhi saettavano su di lui avidi, la sua mente di esteta in preda ad una specie di estasi onirica davanti a tutto quel materiale di prima qualità.
Se quello era uno dei ragazzi che doveva vestire, allora poteva anche chiederle di lucidargli le borchie.

Si sentiva un po’ come una bambina che stringeva in mano la Barbie più bella del mondo: non vedeva l’ora di fargli provare un sacco di modelli che già aveva in mente.

Bill lanciò uno sguardo di apprezzamento alla sua maglietta e la invitò ad entrare. Sembrava assonnato, ma decisamente in forma.

“Tu devi essere la nuova stylist, giusto?” indagò, facendole strada attraverso la stanza immensa, che Leni ammirò con tanto d’occhi. La sua doveva essere grande più o meno come l’ingresso.

“Sì, mi chiamo Leni.”

“Io sono Bill,” Le sorrise. “Non badare al disordine,” aggiunse poi, grattandosi la nuca imbarazzato. “E’ passato l’uragano Tom.”

Lei batté le ciglia confusa, non del tutto certa di quel che aveva capito.

“Come, scusa?”

Bill emise una brave risata che probabilmente avrebbe messo fine all’Era Glaciale nel giro di uno schiocco di dita, le prese con delicatezza il vassoio dalle mani e lo andò a posare sul tavolino nell’ampia sala.
“Mio fratello,” spiegò lui, lievemente accigliato, come se fosse una cosa scontata che lei dovesse saperlo. “Non gli basta essere uno stronzo misogino e ninfomane, deve anche avere il difetto di portare il caos ovunque metta piede.”

“Tom, hai detto?” domandò Leni, colta da un improvviso senso di vertigine.

“Sì,” Bill tolse il coperchio argentato al vassoio e scoprì la smisurata quantità di vivande che costituivano la sua sobria colazione. “Cazzo, ma con questa roba ci sfamo il terzo mondo!”

Leni, però, non ascoltava.

Ecco chi mi ricordava, piagnucolò tra sé e sé, è la fotocopia dark di quell’idiota rastafariano di prima.

Eppure questo Bill, per quanto fisicamente somigliante al gemello Tom, sembrava essere completamente diverso.

“Credo di aver avuto un incontro ravvicinato con lui, poco fa,” disse. “Ha per caso partecipato a qualche programma tipo Pimp My Ego, di recente?”

Bill rise di nuovo, seduto sul divano bianco, prendendo un biscotto dal vassoio.

“Suppongo sarebbe il colpo di grazia per quel poco che resta del suo senso di umiltà,” rispose, poi le fece cenno di sedere. “Hai fame? Io non finirò mai questa montagna di roba.”

Leni si ritrovò ad accettare ancor prima che il suo cervello potesse effettivamente elaborare l’informazione.
Prese posto accanto a lui e si lasciò offrire una fetta di torta di mele. Dopotutto ancora non era riuscita a mangiare.

Con la coda dell'occhio, studiò Bill di soppiatto.

Quel ragazzo per lei era come una miniera, un succoso oggetto di studio più allettante di un forziere di diamanti: la affascinava il suo stile, il suo modo di porsi, ma soprattutto era stata completamente rapita dalla sua incommensurabile bellezza androgina. Poche cose la mandavano in estasi come un ragazzo dai lineamenti efebici e delicati, e Bill sembrava l’incarnazione dei suoi sogni più selvaggi.
Il suo interesse era puramente professionale, quasi scientifico, come accadeva quando un pittore trovava il soggetto perfetto, e quello che lei aveva davanti andava oltre ogni sua più delirante fantasia.

Lo osservò mentre si serviva di un’abbondante porzione di macedonia di frutta e si compiacque del suo salutismo.
Il suo fisico era magro per natura, era evidente, ma le piaceva il fatto che nonostante potesse permettersi di mangiare interi panetti di burro, lui preferisse cibi ben più sani. A giudicare dalla pelle pulita e luminosa, era anche piuttosto evidente.

Quando si accorse di essere osservato, Bill le rivolse un’occhiata interrogativa, senza però abbandonare il suo sorriso appena accennato.

“Scusami,” disse Leni senza arrossire. “Stavo meditando se su una scala da uno a dieci, undici sarebbe sufficientemente appropriato per valutare il tuo impatto visivo.”

Bill guardò timidamente verso il basso.

“So che è maleducato da chiedere a una donna, ma quanti anni hai, per curiosità?” le chiese senza guardarla.

“Giusto un gradino sotto la legalità per l’assunzione di alcolici negli States,” rispose lei, incuriosita. “Perché?”

Gli angoli delle labbra di Bill si arricciarono in un sorriso sornione.

“Perché alla tua età dovresti sapere che le lusinghe gratuite irritano le rockstar più degli insulti diretti.”

Leni lo guardò stupefatta.

Lusinghe? Ma quali lusinghe, bimbo, io ti sto sbavando addosso come se tu fossi il primo uomo che vedo in vita mia e tu hai finito ieri di poppare, cosa ne vuoi sapere delle lusinghe?

“Mi credi davvero il tipo che dispensa stronzate melense per puro spirito di leccaculismo?”

“Lecca-che?”

Bill, che stava versando del caffè in un paio di tazzine, aveva assunto un’adorabile espressione interrogativa, che ridusse in briciole i già esigui resti della professionalità di Leni.

Lei rise.

“Scusa, mi manca il termine tedesco ufficiale per esprimere il concetto.” Si schermì con tranquillità. “Comunque ti assicuro che il giorno che mi vedrai snocciolare moine davanti a qualcuno, sarò sotto l’effetto di qualche stupefacente.”

“Buono a sapersi.” Ironizzò Bill, e urtò la tazza contro quella di lei in un insolito cin cin mattutino.

Sorseggiarono il caffè in tutta tranquillità, e Leni non poté fare a meno di pensare che forse Kyla non aveva preso un granchio poi così grosso nel mandarla a fare la costumista di questi ragazzi. Chissà, magari anche gli altri erano persone piacevoli come Bill.
Sicuramente lei si augurava che non fossero degli sgradevoli palloni gonfiati come il principe Tomi.

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A/N: Grazie a coloro che hanno commentato, come avrete sicuramente notato, d'ora in poi i capitoli saranno decisamente più lunghi dell'Intro, quindi più godibili (spero ^^).
come sempre, i commenti non solo fanno piacere, ma servono anche per farsi un'idea delle proprie capacità e perfino migliorarsi, in caso, quindi fatemi sapere cosa ne pensate. :)
   
 
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