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Autore: Loda    22/03/2013    3 recensioni
Se non ti guardi allo specchio, non lo vedi che stai piangendo. Ma le lacrime ne hanno anche un altro di riflesso, che è tutto interiore, ed è più crudele di esse stesse, infinitamente.
Si tratta del sangue.
"Non si tratta di essere buoni o cattivi, non si è mai trattato di questo. Ci sono solo epoche da attraversare, scelte da compiere e personalità che crescono. Nessuno vive così poco da non cambiare volto nemmeno una volta"
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 23
CAPITOLO XXIII
LUNA
 
 
 
“Lydia… Lydia, aprimi, per favore!”.
Jacque picchiava con insistenza sul vetro del finestrino della macchina della ragazza, illuminata dalla luce di pochi lampioni e da una luna grigia.
“Lydia, sono io… Sono Jacque!”.
Al di là del vetro rigato di gocce di pioggia, vedeva la ragazza guardarlo con espressione spaventata, con occhi spalancati e lacrimosi. Dopo qualche secondo l’umana si decise ad aprire la portiera.
“Cosa sei venuto a fare qua?” esclamò, con voce strozzata “Pensavo venisse Emily per aiutarmi!”.
“Vieni fuori” ribatté il vampiro “Dobbiamo andarcene da qui”.
“No!” gridò la ragazza, affrettandosi a richiudere la portiera ma lui fu ovviamente più veloce e con un braccio la tenne ferma. Lydia non aveva speranze contro la sua forza e se ne rese subito conto, perché estrasse la pistola e gliela puntò addosso, di nuovo.
“Lasciami in pace o ti sparo, giuro che ti sparo!” urlò, esasperata.
Jacque trasse un sospiro profondo.
“Sono qui per aiutarti, mettila giù… È pericoloso per te stare qui” disse, lentamente, con gli occhi come ipnotizzati dalla pistola. Bastava un colpo, premere un solo grilletto e tutto sarebbe finito…
Aveva promesso ad Emily che avrebbe riportato a casa Lydia, sana e salva.
“Ti prego, fidati di me”.
“Perché dovrei fidarmi di te?” sbottò la ragazza, agitando il braccio e la pistola “Solo perché Emily si fida? Emily è impazzita… oppure l’avrai incantata! Ecco cos’hai fatto! L’hai…”.
“Smettila!” esclamò Jacque “Perché non vuoi capire che io sono dalla vostra parte?!”.
“Non mi interessa!” urlò l’altra “Io devo cercare Sam!”. Solo nominandolo, la rabbia abbandonò il suo volto e lei proruppe in un pianto, abbassando l’arma.
Lui strinse le labbra e la guardò, cosparsa di lacrime, pioggia e disperazione. Lentamente alzò un braccio e avvicinò la mano alla pistola. Gliela prese e Lydia non oppose resistenza, continuando a piangere.
“Non urlare, è pericoloso” le disse.
Non aveva idea di come dirle che il suo ragazzo era morto.
Le tese la mano. “Vieni con me”.
Lei smise di singhiozzare, ma aveva abbassato lo sguardo sulle proprie cosce, gli occhi puntati sui jeans bagnati.
“Lydia, vieni con me” insistette lui.
Dovevano muoversi, non sapeva se sarebbe stato in grado di proteggerla se fosse arrivato qualcuno.
“Per favore!”.
Lei aveva preso a tremare, e ancora non lo guardava.
Jacque si decise a prenderla per un braccio e a tirarla fuori dall’auto con la forza. Lei lanciò un gridò e si dimenò ma si trovò presto intrappolata tra le braccia di lui. Gli assestò una gomitata nello stomaco e subito dopo gridò di nuovo, dolorante.
“Calmati, o ti farai solo del male” sibilò Jacque, invocando la pazienza.
“Non torno a casa” stava dicendo la ragazza, furiosa “Devo trovare Sam! Lo devo trovare!”.
Jaque si sentì mosso da pietà, ma, per quanto avesse vissuto a lungo, il tatto non era una cosa su cui Acilia aveva particolarmente insistito, educandolo.
“Non lo troverai” disse solo.
Si aspettava che Lydia continuasse a dimenarsi e che urlasse che invece lo avrebbe trovato, invece si placò.
Lui la teneva tra le braccia. Era calda, proprio come Emily.
“Se ti lascio andare” disse il ragazzo “mi prometti che non tenterai la fuga? Sarebbe inutile, e pericoloso”.
Passò qualche attimo, poi lei annuì.
Lui mollò la presa e la guardò in faccia. Il volto era cereo, i capelli biondi appiattiti e zuppi, il respiro affannoso, che le usciva dalla bocca, semiaperta, come se fosse pronta ad urlare ancora.
“Ora pensa a te stessa e vieni con me” insistette Jacque “Sam vorrebbe che tu ti salvassi”.
Inaspettatamente Lydia crollò a terra e le sue ginocchia sprofondarono in una pozza d’acqua. Appoggiò i palmi delle mani sul cemento e diede in un rantolo, come se stesse per soffocare.
Jacque si chinò subito su di lei, senza sapere cosa fare. Guardò la sua nuca, senza osare immaginare l’espressione che poteva avere ora il suo volto.
“Vieni con me” ripeté “Poi tutto andrà bene. Vieni…”.
“Con te” biascicò Lydia, innaturalmente immobile “Con te… La tua razza… È la tua razza che lo ha…”. Respirò forte, poi tossì. Il suo corpo tremava vistosamente, sotto lo zampillare dell’acqua.
“La mia razza è umana!” esclamò Jacque, lo sguardo fisso sui capelli di lei “So com’è perdere qualcuno… So com’è perché io ho perso me stesso. Ero io il morto mentre tutti gli altri erano vivi. E allora perdi tutti, tutti!”.
Lydia alzò il viso e lui non capì se l’acqua che le rigava il volto era pioggia oppure erano le sue lacrime. Sperò che fossero lacrime, perché se piangi fai uscire la tua afflizione, la espelli, e dentro puoi tornare a sperare. Proprio quello che lui non poteva fare.
“Alzati” disse, tendendole la mano che aveva libera “Alzati… Tu hai ancora un cuore che batte”.
Lei continuava a guardarlo, con un’espressione che Jacque non riusciva a decifrare. Forse anche gli occhi di lei ora erano diventati gli occhi della morte, come i suoi. Perché non c’entra niente se sei vivo o morto, c’entra solo quello che provi.
Ad un tratto si levarono delle urla e Jacque si mise prontamente davanti a Lydia, guardandosi intorno. Sentì dietro di sé la ragazza che lentamente si alzava da terra e aguzzò la vista. In lontananza c’erano dei corpi a terra e un’ombra si stava avvicinando…
Lanciò un’esclamazione quando si accorse che un vampiro era davanti a lui, con le labbra e i vestiti grondanti sangue. Quello fece un sorriso ebete, mostrando denti lunghi e rossi. Sporse la testa, con gli occhi che guardavano proprio dietro di Jacque, mentre le narici si allargavano, estasiate.
“Lascia perdere” disse subito Jacque, cercando di apparire minaccioso “Questa è mia”.
“Oh, andiamo” fece quell’altro “Ha un profumo delizioso, ce la possiamo spartire”.
Jacque notò che pure i suoi pantaloni erano imbrattati di sangue. Di certo aveva già mangiato abbastanza, e in maniera orribile. Non sarebbe stato facile liberarsi di lui. D’istinto, gli puntò la pistola di Lydia addosso.
“Ti ho detto che è mia. Ora vattene!”.
L’altro vampiro alzò le braccia, sinceramente sorpreso. “Un’arma?”. Riprese in fretta il controllo e cercò di essere persuasivo. “Non c’è più bisogno di quella roba, ora che c’è Kaeso al governo possiamo finalmente essere tutti fratelli tra noi! Non dobbiamo inimicarci l’un con l’altro!”.
Ma che belle parole, pensò Jacque con sarcasmo, sono davvero commosso.
Non abbassava l’arma e l’altro si scurì in volto. Si stava arrabbiando.
Fece per lanciarsi su di lui e Jacque sparò. Quello cadde a terra, gridando di dolore. Il proiettile di legno gli si era incastrato nell’addome.
Jacque gli si avvicinò, sentendo una rabbia furente dentro di sé che non aveva mai trovato sfogo da nessuna parte.
Ora il suo nemico era inerme, sdraiato a terra, Jacque avrebbe dovuto provare pietà, invece gli puntò la pistola al cuore.
“No!” urlò il disgraziato “Perché?! A quale scopo?! Io sono come te, sono come te!”.
Jacque guardò il sangue che aveva sui vestiti e sul volto. Erano quelli come lui che avevano ucciso Sam. E ora Lydia ed Emily piangevano…
Quella non era la sua battaglia, non lo era mai stata e neanche gli era mai importato, ma improvvisamente capì che se Acilia e gli altri fossero riusciti davvero a trasmettere il loro modo di vivere a tutti i vampiri, nel mondo ci sarebbe stato meno orrore.
Io sono come te!
Non aveva mai ucciso un vampiro ma aveva ucciso tanti uomini, quando ancora era uomo.
Non dobbiamo inimicarci l’un con l’altro!
Era sempre la stessa storia, che apparteneva ad umani e a vampiri.
Si era così odiato quando aveva ucciso tutti quei ragazzi, solo in nome della patria. Ma ora non si odiava più, forse perché era diventato freddo, forse perché sentiva che stavolta doveva davvero farlo.
“Tu non sei come me, figlio di puttana” disse. E sparò.
Chiuse gli occhi per ripararsi dalla pioggia di sangue ma il boato, insieme con un terribile grido, gli penetravano le orecchie.
Riaprì gli occhi e del vampiro non era rimasto altro che una poltiglia rossa, sporca, viscida su cui schizzava l’acqua, e si scioglieva, e si spandeva, abbandonata nel buio. Il debole spicchio di luna offuscato dal mal tempo le era sopra ma non riusciva ad illuminarla.
Jacque non riusciva a staccare gli occhi da tutto quel sangue, mentre un’amara soddisfazione gli riempiva la bocca. Poi, ad un tratto, si ricordò di Lydia e si voltò subito. Stava andando verso la ragazza, che era di nuovo a terra, con lo sguardo pietrificato, quando delle voci li raggiunsero.
“Ehi! Ragazzi! State bene?”.
Jacque aiutò Lydia ad alzarsi ed entrambi si voltarono, lei avvinghiata a lui, tremante, come se non fosse più in grado di camminare.
Un paio di uomini in armatura li stavano raggiungendo di corsa con delle torce in mano. Erano cacciatori. Jacque inspirò a fondo e, inavvertitamente, strinse più forte a sé l’umana.
Uno dei due cacciatori puntò il fascio di luce nella loro direzione e si tolse il copricapo per farsi guardare. Aveva due folti baffi e uno sguardo rassicurante.
“Siete feriti?”.
“Ne hanno steso uno” osservò il suo compagno, fissando la poltiglia di sangue alla loro destra.
Il cacciatore baffuto notò la pistola di Jacque. “Sei stato bravo” disse.  Lo stava osservando attentamente, con quella dannata torcia puntata su di lui. “Sei riuscito a centrargli il cuore prima che lui ti azzannasse”. Era sorpreso.
Jacque non disse niente, terribilmente a disagio.
“Sì sì, molto bravo” fece il secondo cacciatore, con tono scocciato. Si rivolse a Jacque. “Non giocate a fare i cacciatori, non sarete sempre così fortunati. E ora andate a casa”.
Jacque sapeva che doveva stare zitto e obbedire all’istante, ma qualcosa in quello che l’uomo aveva detto gli aveva dato fastidio. “Non stiamo giocando” disse quasi in un bisbiglio. Non aveva mai giocato in vita sua, mai.
L’uomo gli si avvicinò. “Stiamo cercando un vampiro donna molto pericoloso” disse, rude “Ha fatto fuori uno dei nostri”. Cercava di spaventarli, forse. “Andatevene, sul serio”.
“Jacque” biascicò la voce di Lydia, notevolmente scossa. Era la prima volta che lei pronunciava il suo nome e lui ne fu sorpreso. “Ha ragione, andiamo a casa…”.
Dovevano tornare da Emily, ma quel cacciatore aveva detto che stavano cercando un vampiro donna…
“Com’è fatto?” domandò Jacque ai cacciatori. Quelli lo guardarono straniti e lui aggiuse: “Il vampiro donna, com’è fatto?”.
“Non hai sentito quello che ti ho detto?” replicò il secondo cacciatore “Va a casa, questo non è un gioco!”.
“Magari l’avevamo visto passare” insistette Jacque “Volevo solo dare una mano”.
La pioggia picchiava meno insistentemente di prima, forse il temporale stava cessando.
“Ha l’aspetto di una ragazza molto giovane” rispose l’uomo coi baffi, con l’aria di uno che stava ragionando troppo in fretta “Ha una statura di poco sopra la media e lunghi capelli neri”.
Jacque deglutì. Le probabilità che si trattasse di Acilia erano alte.
Ha fatto fuori uno dei nostri.
In che guaio si era cacciata?!
“No, mi spiace, non l’abbiamo vista” si affrettò a dire “Arrivederci”. Voltò loro le spalle e camminò, sorreggendo Lydia, che silenziosa gli stava accanto nel fascio di luce che ancora li inondava. Poco dopo finalmente la luce si fece più lontana e Jacque portò Lydia dietro un edificio.
“Non… Non torniamo alla macchina?” domandò la ragazza, confusa.
“La macchina va troppo piano” rispose Jacque. Le mise le mani sulle spalle e continuò: “Ora ti devi davvero fidare di me”.
“Cosa vuoi fare?”. Lydia non aveva affatto lo sguardo convinto.
“Ti prenderò in braccio, e correrò” spiegò lui “Ti devi aggrappare forte perché andrò molto veloce”.
Lydia scosse energicamente la testa e Jacque le afferrò il mento, piano, per farla stare ferma, e per farsi guardare.
“Dobbiamo muoverci. Non costringermi ad incantarti”.
Lydia gli stava fissando gli occhi, con un’espressione strana.
“Come fai ad essere morto?” fece con un filo di voce “Come fai a provare dei sentimenti se il cuore non ti batte più?”.
Jacque era sorpreso. Provare dei sentimenti. Non pensava che Lydia l’avesse capito.
“Non lo so” rispose “Non so niente”.
Passò qualche attimo poi Lydia gli passò le braccia intorno al collo, respirando affannosamente, ancora spaventata. Lui le sollevò le gambe e la strinse, preparandosi a correre.
Dove corri? Non pensi ad Acilia?
Doveva portare a casa Lydia, l’aveva promesso ad Emily, doveva proteggerle...
Perché le devi proteggere?
Acilia era in pericolo. In pericolo…
Porta a casa Lydia. Poi ci penserai.
A cosa avrebbe dovuto pensare? Cos’avrebbe potuto fare?!
Si strinse a Lydia più forte di quanto avesse dovuto, come se credesse che fosse Acilia o una qualunque soluzione, come se volesse un patetico conforto.
Si mise a correre, sotto il cielo che poco a poco si stava riaprendo. Sotto quell’esile luna che cercava di farsi spazio tra le nuvole.
Era la stessa luna che c’era in cielo, quando lui era morto.
 
 
 
La sede di Arcangelo era presa e Dubris non sapeva se valesse la pena di attaccare per riprendersela.
“Almeno sappiamo dove sono” osservò Victoire, col suo solito tono di voce fermo “Possiamo attaccarli quando vogliamo”. Fece un passo in avanti, a braccia conserte. “Anche adesso”.
Dubris si guardò intorno. Erano soltanto una decina di vampiri e, come se non fosse abbastanza, Acilia mancava.
“Vuoi farci morire tutti?” sbottò, piuttosto rude, guardando Victoire.
Quella alzò le sopracciglia sottili e severe, alzando un pelo il volto spigoloso. Il collo era candido e invitante, ma l’espressione presuntuosa che aveva dipinta sul volto la rendeva davvero poco desiderabile.
“Là sotto non c’è Kaeso” disse, come se fosse una cosa ovvia, accennando al grosso, vecchio, palazzo grigio che era a poche decine di metri da loro.
“Di certo non si farà trovare in un posto che conosciamo bene” puntualizzò Luca “Del resto, se prendiamo lui, prendiamo tutti”.
Dubris tentò di mantenere la calma ed evitò accuratamente di guardare l’italiano, pensando al suo stupido accento che rendeva ridicola ogni parola che diceva.
“Se fosse solo lui il problema saremmo già un bel passo avanti!” esclamò “Ne ha tantissimi dalla sua parte, come pensate di sconfiggerli?”.
“Sono solo un branco di stupidi ragazzini” disse Victoire, cercando altro consenso in giro “Potremmo farcela”.
Dubris inspirò a fondo. Era vero, non tutti quelli che ora erano nella Sede erano della Rappresentanza, ce n’erano di più giovani, giovani e sbandati, ma erano tanti. Tanti e non tutti ragazzini!
“Per prendere decisioni del genere penso dovremmo aspettare Acilia” disse, consapevole di toccare un tasto dolente.
Victoire infatti emise una risata incredula e spazientita, insieme a qualcun altro. “Acilia? Acilia?”.
Sì, Acilia. Dove cazzo è finita?!
“È la più vecchia del gruppo” si limitò a rispondere Dubris.
“Tu davvero ti fidi di lei?” sbottò qualcuno alla sinistra di Victoire.
Dubris lo guardò e riconobbe Homer, un omone calvo e dall’aria minacciosa, ma buono. Per quanto poteva esserlo un vampiro, come tutti loro.
“Certo che mi fido di lei” ribatté il rosso, arrabbiato. Fece scivolare il suo sguardo su tutti i presenti, sentendo la frustrazione che cresceva, angosciante, all’interno del suo morto cuore, che, se avesse potuto, avrebbe martellato furiosamente. Nessuno di loro c’era, nessuno di loro l’aveva sentita parlare in quel lontano giorno del quattordicesimo secolo, quando aveva dato una possibilità di vita, per tutti i vampiri! Nessuno di loro l’aveva vista mentre lottava per tutto quello che ora avevano, o avevano avuto. Aprì la bocca e parlò liberamente. Si sentiva libero perché neanche Ramona era presente, e non l’avrebbe sentito.
 “Vorrei ricordarvi che senza di lei tutto questo non sarebbe stato possibile!”.
“Certo” bofonchiò Homer “Senza di lei, non ci sarebbe Kaeso”.
Gli altri risero e Dubris sgranò gli occhi, incredulo. Non c’era proprio niente di cui ridere.
“Non tutti sono creatori esemplari” sbottò “E non è questo il problema!”. La sua voce si era alzata e le risate si erano spente. “È lei che ha fatto tutto questo! È per merito suo se ora siamo qui a proteggere qualcosa! E ora mi dite che, solo perché ha sbagliato una volta, solo perché ha vacillato una volta… È direttamente, personalmente coinvolta nella faccenda di Kaeso, è ovvio che abbia vacillato! E ora non vi fidate più di lei?!”.
Il suo grido si spense nella notte e i volti pallidi dei suoi compagni erano ammutoliti, anche se a lui sembrava di non aver detto ancora abbastanza.
“Tu sei innamorato di lei da sempre, Dubris” fece la voce di Victoire, pacata ma tagliente “E non ti rendi neanche conto di quello che dici”.
Dubris la fissò con odio. Perché doveva tirare in ballo questo ora? Non era amore il suo, era rispetto, perché lei gli aveva dato qualcosa di grande… Solo che a lui non era mai bastato.
Stava per ribattere ma l’altra lo precedette, e quello che disse lo lasciò interdetto. “Acilia è un vampiro straordinario” stava dicendo “E non è perché ha creato un mostro che non mi fido più di lei, e non è neanche perché non ce ne ha messi subito al corrente”. Avanzò di un passo, mentre guardava Dubris con i suoi occhi piccoli e pungenti. “Ma l’hai detto tu stesso, Dubris, possibile che tu non lo capisca?”. Improvvisamente il suo sguardo si sciolse, sembrò che gli alti zigomi cadessero, a terra, prorompendo in un lamento, e la voce di Victoire era questo che era, un lamento. “È personalmente coinvolta! È la creatrice di Kaeso! Non lo vorrà mai uccidere!”.
Dubris sbatté le palpebre, cercando di ragionare. Aveva un senso, però Kaeso e Acilia erano come il giorno e la notte, e poi lui aveva ucciso Lyuben…
“Ma lui è…”.
“Dov’è ora Acilia?” esclamò Victoire, allargando le braccia e guardandosi intorno “Dov’è? Se ti fidi tanto di lei, dimmi dov’è! Dimmi dov’è!”. La sua voce era quasi disperata e ciò che era peggio era che Dubris non ce l’aveva, una risposta.
Per qualche secondo ci fu solo silenzio, in quel vicolo buio di Arcangelo. Forse sarebbero dovuti tornare a casa, e lasciar perdere, per quel giorno.
“Devi accettare il fatto che lei non sarà con noi in quest’operazione” continuò Victoire “Non sarà contro di noi, ma neanche con noi”.
Ancora nessuno disse niente. Dubris non sapeva come ribattere ma, da qualche parte, dentro di lui, sapeva che Acilia sarebbe stata con loro. Lui la conosceva meglio di chiunque altro, ne era certo
“Allora, cosa facciamo?” fece qualcuno.
Ma Acilia lì non c’era, e loro non potevano perdere altro tempo.
“Dovremmo rapire qualcuno dalla Sede” disse Dubris, riflettendo “E farlo parlare, farci dirci dove si nasconde Kaeso”.
“Cominciamo a ragionare” fece Victoire, con un sospiro di sollievo.
“Ma non oggi” si affrettò ad aggiungere il rosso, deciso. Su questo non aveva ripensamenti, lei non l’avrebbe avuta vinta su tutto. “Dobbiamo prepararci bene e pianificare la sortita”.
Nessuno ebbe da ribattere, neppure Victoire.
“Uscite dal vicolo a gruppetti, e raggiungete l’elicottero” disse Dubris, facendo cenno a un paio di vampiri di avviarsi. Quelli obbedirono e mentre li guardava allontanarsi, lui sentì una strana sensazione. Era abituato a comandare nella Corporazione ma quello era diverso. Quella era una cosa molto più grossa, e se non c’erano né Lyuben né Acilia… Come avrebbero fatto?
Altri si allontanarono finché non rimasero solo lui, Victoire, Luca e altri due vampiri. Erano gli unici che sapevano volare.
“Ci vediamo a casa mia” disse loro, poi fece un salto e si abbandonò al vento. Il suo campo visuale divenne vastissimo, ma sfuocato. La luna, compagna di tutte le notti, troneggiava silenziosa su di lui.
Passò qualche minuto, in cui Dubris liberò la mente il più possibile, finché non rimase solo qualche opaca immagine di Acilia a invadergli la testa, insieme alla pioggia che cominciò a scivolargli addosso, e lui poggiò i piedi per terra, di nuovo in Inghilterra, in un vasto prato deserto e umido.
Era tutto bagnato, ma non ci fece caso e cominciò ad avanzare tra la pioggia. 
Qualcosa prese a vibrargli contro la gamba e lui estrasse subito il cellulare, ricordandosi di quante volte avesse provato a chiamare Acilia, senza successo.
Il suo cellulare continuava a vibrare, senza sosta e Dubris si affrettò a guardare il display. Erano solo dei messaggi. 
Ti ho cercato alle 01.44 del 4 agosto 2012.
Acilia! L’aveva cercato per tre volte, e infine, dato che il telefono non prendeva, gli aveva lasciato un lungo messaggio scritto.
Dubris asciugò il display e lesse il messaggio, avido, frettoloso, forse qualche frase neanche l’aveva capita bene ma il panico lo invase terribilmente.
“No…” mormorò flebilmente “No… Aci, no!”.
D’istinto cercò il numero di lei in rubrica per chiamarla ma poi ricordò l’ultima frase del messaggio che aveva appena letto.
Non provare a chiamarmi. Dopo che avrai letto questo messaggio, non ti potrò più rispondere.
 
*
 
 
Acilia sedeva alla destra di un cumulo di resti, di un bianco sporco, una colonna fatta a pezzi e caduta a terra chissà quanto tempo prima.
Davanti a lei si ergeva la statua di Diana, che guardava verso l’alto, ammaccata e senza naso. Sotto i delicati panneggi di marmo, una lunga e bianca gamba terminava con un piede sottile e affusolato, che poggiava delicatamente sul terreno, mentre l’altra gamba si interrompeva appena sopra al ginocchio, lasciando solo irregolarità e pesantezza.
“Cosa fai? Preghi?” domandò una voce alla sue spalle.
Lei non si voltò neanche, e scosse la testa.
Diana era la dea delle selve, della luna, protettrice degli animali e delle donne. Acilia un tempo le chiedeva perché le fosse stato fatto questo. Le chiedeva perché l’avesse imprigionata nella notte, lei donna ma ormai anche animale, costretta a stare nei boschi, a rivolgersi solo alla luna, non più meritando di vedere il dio Apollo. Ma aveva smesso ben presto di farlo. Del resto, a cosa serviva?
“Allora cosa fai qui?” chiese ancora Kaeso.
Acilia fissò il volto marmoreo della dea. Una volta era perfetto.
“Guardo i cocci dell’esistenza umana” rispose.
“I Cristiani non l’hanno ancora completamente distrutta, questa statua” osservò Kaeso.
La distruzione, pensò Acilia, non è giusta, stanno distruggendo la civiltà.
“Mi chiedo che senso abbia” continuò l’altro, dietro di lei, con voce pacata “fare tutto questo caos in nome di qualcuno che forse neanche esiste”.
“Forse?” fece Acilia.
“Nulla è certo”.
La ragazza si voltò, senza alzarsi da terra. Alzò lo sguardo e vide il volto di Kaeso, più perfetto di quello di Diana, cereo e compatto, freddo, senza alcuna emozione viva. Aveva ucciso tutto, ce l’aveva fatta, finalmente.
“Non credi più negli dei?” chiese.
“Neanche tu, mi pare”.
Aveva ucciso proprio tutto.
Acilia non disse nulla e Kaeso con un balzo fu coi sandali sopra i cocci della colonna. Le macerie scricchiolavano, lui ridacchiava.
“Almeno noi abbiamo un motivo per cui distruggere tutto” disse.
Lei lo scrutò. “Un motivo?”.
“La sete” affermò l’altro “non è immaginaria, come il loro dio”.
Distruggere. I Cristiani distruggevano in un nome di un loro dio, e loro distruggevano per la loro sete. Acilia a volte aveva la sensazione che le due cose non fossero così diverse, per una qualche ragione, che non riusciva a ricordare…
Abbassò di nuovo la testa, in preda ad uno strano capogiro.
“Allora perché dici forse? Se credi che il loro dio e anche i nostri dei siano immaginari… Perché dici forse?”.
Kaeso non rispose, ma smise di ridacchiare. Le dava le spalle.
“Perché?” insistette lei.
Finalmente lui si voltò a guardarla, per nulla turbato, con un lieve sorriso che gli increspava le labbra.
Le si avvicinò, tendendole le mani per aiutarla ad alzarsi.
“Ho una sorpresa per te”.
 
Perché, cara Aci, di cosa posso essere sicuro? Tu non mi hai insegnato tutto.
 
Acilia gli prese le mani e si alzò, lasciandosi andare in un sorriso. Baciò Kaeso e lo abbracciò. Si strinse a lui e tutto quel freddo la rasserenava, si sentiva una sciocca ma le piaceva pensare che non era sola.
 
Mi hai insegnato ad essere me stesso. Mi hai reso inerme e nudo davanti alla vita. Mi hai dato alla luce, una luce dolce, delicata e suadente – quella della luna.  Mi hai dato un’arma e mi hai detto di combattere, aggrappato a un brandello di esistenza.
“Vieni” le disse Kaeso. La teneva per mano, con un sorriso compiaciuto, e la trascinò con sé via da quelle macerie. Camminavano sempre più veloci, i sandali scalpitavano nella ghiaia, alzando una polvere che però non le impediva di vedere ciò che aveva intorno. Paesaggi sempre diversi, disparate costruzioni, varietà di idiomi, di pelli, di costume, ormai loro due avevano girato tutto l’Impero e Acilia amava quella vita.
 
Ma non mi hai insegnato tutto.
 
La condusse in un boschetto. Gli alberi erano piuttosto fitti, i rami secchi e cumuli di foglie gialle ai loro piedi coloravano la lieve foschia che stava scendendo. Lo scrociare di un fiume lì vicino era la musica perfetta per quel quadretto.
L’autunno aveva un buon odore ma c’era qualcos’altro nell’aria. Un odore ancora più buono che stimolò ogni senso in Acilia che si sentì improvvisamente eccitata, da morire. Si voltò verso Kaeso e con uno scatto si incollò alle sue labbra. Lo spinse contro un albero, con forza, e lo toccò dappertutto, sentendo il suo corpo bruciare. Kaeso la baciava e ricambiava il suo tocco. Lei si avvinghiava a lui, premendosi contro il suo corpo, ansimando contro la sua bocca, felice, piena di un amore strano, un amore nero, dannato, ma libero da ogni preoccupazione…
 
Libero da ogni preoccupazione, il mio amore, in cui riuscivo a percepire di nuovo il calore, quello del sangue, quello del piacere, il godere e il dolore. Non sapevo se fosse vero o falso, ma era vivo, era l’unica cosa viva in me.
E non c’era altro a cui pensare, perché ero morto, ma con qualcosa di vivo, che disperatamente afferravo, per non lasciarlo andare via. Kaeso e nient’altro, chi altro dovrei essere? Chi altro, Aci? Chi?!
 
Acilia si separò da Kaeso e gli accarezzò il viso con entrambe le mani. Quel tocco freddo la scioglieva, come fosse fatta di ghiaccio – forse lo era davvero – e in quegli occhi blu ritrovava la morte che era anche sua, loro eterna compagna.
“Cos’è questo profumo, Kaeso?” chiese, con un largo sorriso. L’odore era così intenso, le sue zanne già spingevano.
“Ti avevo detto di avere una sorpresa” rispose lui, cingendole la vita.
Acilia rise. “Non mi avrai mica preso una schiera di umani!”. Era profumo di un sangue delizioso, non un semplice sangue…
Distruzione.
“Il sangue dei bambini, Aci, è quello più buono in assoluto” spiegò Kaeso, inspirando l’aria “È ancora puro e incontaminato, è così squisitamente dolce…”.
Acilia si lasciò inebriare. Rideva. “E dove li avresti nascosti?”.
“Li ho raccolti un po’ qua e un po’ là” disse l’altro con voce lenta e suadente “Sono tutti in questo bosco. Ho detto loro che avremmo giocato a nascondino”.
Acilia si fece passare la lingua sulle labbra. “Un gioco”.
“Un gioco” ripeté Kaeso “Vince chi trova più bambini”.
“Mi piacciono i giochi”. Acilia gli morse il labbro, glielo morse forte, fino a farlo sanguinare. Lui ansimò e la strinse più forte.
“Ti piace vedere il sangue che scorre…”.
“Hai avvertito i bambini che è un gioco serio, vero?” ribatté lei, assumendo un tono severo, fintamente preoccupato.
“Certo” rispose l’altro, passandosi una mano sulla bocca per pulirsi “Ho detto loro che devono fare attenzione, perché, giocando, ci si può far male”.
Acilia fece un balzo indietro, ilare, lasciando Kaeso appoggiato all’albero.
“Giochiamo allora!”.
Distruzione?
Si mise a correre nel bosco, saltellando di tanto in tanto, chiamando a gran voce i bambini e ridendo.
La sensazione di distruggere qualcosa…
Vide un esile braccio che tentava di nascondersi dietro un grosso arbusto.
Subito lo toccò gridando: “Presa!”. Tirò via dal suo nascondiglio quella che era, si rese conto, una bambina che non dimostrava più di quattro anni. Era sporca in viso e aveva una piccola tunica stropicciata. Gli occhi spalancati la guardavano con un misto di paura, ammirazione e divertimento. “Chi sei?” le chiese, con una bassa vocetta.
“Gioco anch’io con voi” spiegò Acilia, chinandosi su di lei e accarezzandole la guancia. L’odore era fortissimo, si insinuava nelle narici e le arrivava alla testa, la faceva impazzire. Quella guancia era così morbida…
“Ti ho trovata” disse “Ho vinto, e tu hai perso, mi dispiace”. Estrasse i denti e la bambina urlò, atterrita. Acilia la trasse verso di sé e le conficcò le zanne nel collo. Kaeso aveva ragione, quanto era buono e dolce quel sangue! Le sembrava di galleggiare nella vastità e nella perfezione del mondo, mentre quel liquido mielato e delizioso le scivolava giù per la gola, accendendo il suo corpo in un tremore entusiasta, quasi di infantile felicità.
L’urlo della bambina non disturbava quel momento, le grida di terrore, di dolore, erano divertenti…
Cosa stai distruggendo?
Ma quell’urlo e quella voce la fecero d’improvviso stare male e Acilia buttò a terra la bimba, crollando sulle ginocchia. Un altro fastidiso capogiro.
Aci!
Era una voce nota.
Chi sei?
Chi sono?
Alzò lo sguardo e vide la bambina a terra, uno squarcio sul collo, la testa piegata in una posizione innaturale, un piccolo lago di sangue intorno a un debole corpicino.
Strisciò verso di lei carponi, assetata, e, come un cane, leccò la pozza di sangue sul terreno, senza riuscire a farne a meno. Socchiuse gli occhi, estasiata, ma quando li riaprì era così vicina all’occhio spalancato, privo di vita e pieno di terrore, della bambina, che fece un salto indietro.
L’ultima espressione che Damiano aveva avuto sul volto – quella che aveva tuttora – era di terrore, ed era stata colpa sua.
Acilia cercò di nuovo il controllo di sé, mentre qualcosa simile al vomito, ma che non poteva esserlo, spingeva per tornare in superficie, e alla fine sputò sangue.
Chi sei? le aveva chiesto la bambina.
Chi sono?
Tu non sei Aci! urlava lui, in un altro mondo, lontano e passato…
 
Allora, chi altro dovrei essere? Chi sono io? Chi ero? Cosa mi hai fatto dimenticare? Del resto, anche tu avevi dimenticato qualcosa, non è vero? Sei riuscita a recuperarlo, Aci, hai recuperato te stessa o quello che credevi di essere. Perché tu eri come me, e questo non potrai mai cancellarlo.
È questo ciò che non potrai mai dimenticare.
 
Acilia afferrò il corpo della bambina esangue e lo trascinò fino al fiume. L’acqua era torbida e l’azzurro e il verde si mescolavano al rosso.
Buttò il cadavere in mezzo all’acqua, già sporca, già contaminata. Il corpo della bambina si unì ad altri fanciulleschi corpi, che galleggiavano sporcando il corso d’acqua, fatto di sangue, sotto la pacata luce della luna, sotto lo sguardo imperfetto di Diana, distrutto, impietrito forse, da tale distruzione.
I corpi dei bambini erano tanti, Acilia non li contò ma rimase ipnotizzata a guardarli. Kaeso aveva decisamente vinto, era davvero bravo in quel gioco.
Il giorno in cui l’aveva conosciuto stava facendo proprio quel gioco. Insieme a sua figlia.
Kaeso era diventato irrefrenabile, Acilia sentiva la risata di lui, che si mescolava ad altre urla.
L’acqua e il sangue continuavano a scorrere, i cadaveri dai bambini emergevano da quel flusso magico e orrendo, la luna piangeva lacrime di luce su di loro.
 
*
 
 
Emily aveva tentato di abbracciare Lydia, entrata in casa sorretta da Jacque, ma quella si era scostata e, lasciando il braccio del vampiro, aveva salito le scale senza proferire parola.
Emily allora era scoppiata in lacrime e aveva cercato un appoggio che casualmente era Jacque stesso. Le due ragazze si erano letteralmente dato il cambio ed Eike si divertì a vedere la tipica espressione del non-so-proprio-che-fare che si era dipinta sul viso di Jacque.
Il piccolo vampiro non aveva abbandonato la sua postazione sul divano, a poca distanza da Michael che, con lo sguardo abbassato e le lacrime agli occhi, poteva sembrare addirittura una persona seria, se non fosse stato per il pigiama di Spider-Man che aveva addosso. I signori Dixon invece erano a ridosso della poltrona, accuratamente lontani da qualunque vampiro fosse nel salotto. Lei si stava rumorosamente soffiando il naso, tra un singhiozzo e l’altro, mentre lui stava mescolando della camomilla in una tazza arancione, che cercava di sbolognare alla moglie per tranquillizzarla. Tra l’altro, si sarebbe abbinata perfettamente alle sue pantofole. Per non ascoltare i vari mugolii e pianti, Eike cercò di concentrarsi sul tintinnio del cucchiaino ma, dopo un po’, divenne fastidioso anche quello.
Jacque si era finalmente deciso ad abbracciare Emily e l’atmosfera nel salotto stava diventando sempre più seccante.
Eike provava compassione per Lydia, e anche per Emily, ma, si sa, quando dimostri dodici anni non puoi sfruttare certe occasioni.
Dopo qualche minuto Jacque si staccò da Emily, in maniera po’ goffa e imbarazzata, e si diresse proprio verso di Eike.
“L’eroe romantico vuole conferire con me?” fece quest’ultimo, sorpreso.
Michael si lasciò sfuggire un piccolo risolino, che sfumò in qualcosa di simile ad un rantolo. 
“Ehi” disse Emily, mentre Jacque si sedeva tra i due ragazzi “Perché non andate a letto? Sono le due passate”. Aveva un tono quasi incoraggiante.
Per tutta risposta la signora Dixon si soffiò il naso più forte. Emerse un attimo dal fazzoletto e ululò: “Quel povero ragazzo… Quella povera gente…”.
Il signor Dixon ne approfittò subito per metterle davanti alla faccia la tazza, che lei prese come in automatico. Lui si alzò e disse, con voce lenta e stanca: “Chiamo di nuovo mio fratello. Per sapere come va”.
“Chiama anche le mie sorelle” fece la signora Dixon “E mia madre”.
“Tua madre l’abbiamo sentita cinque minuti fa!”.
La signora pianse e, con un tremore del braccio, fece rovesciare un goccio di camomilla sul pavimento. “Bastano cinque minuti per…”. Non finì la frase e continuò a singhiozzare, finché Emily non andò a sedersi sul bracciolo della poltrona, per darle conforto.
Eike ripuntò il suo sguardo su Jacque. Aveva un’aria davvero preoccupata e di certo non era preoccupazione per la nonna di Emily.
“Cos’hai?” bisbigliò.
“Abbiamo incontrato dei cacciatori” rispose Jacque in un sussurro.
Eike non ne fu sorpreso. “Beh, qualcuno che fa il proprio lavoro di sti tempi ci vuole”.
“Cercavano Acilia, ne sono sicuro”.
La faccia di Jacque emanava sicurezza e terrore ed Eike si sentì suggestionato. “A-acilia?” farfugliò, incredulo “Com’è possibile?”.
“Non lo so” sospirò Jacque “Ma sono sicuro che parlassero di lei!”.
Eike notò che Emily li stava guardando. La ignorò e guardò severamente il proprio creatore, consapevole che sarebbe stato capace di tutto. “Jacque, Aci sa badare a se stessa. Non fare stronzate”.
L’altro non disse niente ed estrasse il cellulare dalla tasca dei jeans. “Non so se provare a chiamarla” disse, pensieroso “Magari si è nascosta da qualche parte e se faccio suonare il cellulare…”.
“Ma quale vampiro tiene la suoneria attiva!” esclamò Eike.
“Ehm…”. Jacque apparve ancora più confuso.
Eike alzò gli occhi al cielo, poi disse: “Se non vuoi chiamare lei, chiama la persona che le è più vicina”. Usò quei termini apposta, per vedere quale reazione suscitassero in Jacque. Perché non era lui stesso la persona che era più vicino ad Acilia.
Come era prevedibile, Jacque si irrigidì. “Intendi Dubris?”.
“Se non ti va, lo posso chiamare io” disse Eike, con un piccolo ghigno.
Il suo creatore scosse la testa e si alzò in piedi, con lo sguardo fisso sul cellulare, stretto nella sua mano destra. “No. Lo devo fare io”.
“Chi devi chiamare?” si levò la voce di Emily “Perché? Cos’è successo?”.
Eike sbuffò. “Non mettergli ansia!”.
La ragazza stava guardando intensamente Jacque e pareva non averlo neanche sentito.
“Chiamo Dubris, c’è… un problema… con Acilia” rispose quello, un po’ controvoglia, mentre pigiava i tasti del telefono.
“Che problema?” insistette l’umana.
“Chi è Acilia?” s’intromise Michael.
Eike sbuffò di nuovo, sperando che Jacque non si mettesse a spiegare la situazione e che si muovesse a telefonare. Fortunatamente il vampiro fece proprio così; fece segno di tacere e appoggiò il cellulare all’orecchio.
Passò qualche lungo secondo e finalmente parlò, con voce piuttosto distaccata: “Dubris… Sono Jacque”. Silenzio e poi di nuovo: “Sai qualcosa di Acilia?”. La sua espressione mutò completamente e il ragazzo spalancò la bocca, sbigottito. “Cosa?”.
Anche Eike si alzò in piedi, sentendo l’ansia che galoppava in corpo. “Cosa? Jacque, cosa?”.
“Ma perché?!” stava sbottando l’altro, frustrato. Poi si premette una mano sul cuore e disse, abbassando il tono di voce: “Non è ancora morta”. Eike sentiva la voce di Dubris ma pure il suo udito non riusciva a distinguere bene le parole che, agitate, incespicavano le une sulle altre. Ma Jacque non faceva altro che ripetere “Non è ancora morta” e dopo poco chiuse la telefonata.
Con aria decisa si diresse verso la porta ma Eike, preparato, corse più veloce e si parò davanti a lui. “Jacque” fece, arrabbiato “Ti ho detto di non fare stronzate! Dimmi cosa ti ha detto Dubris”.
“Devo andare prima che sia troppo tardi!” gridò l’altro, accingendosi a spostare il proprio creato.
Ma Eike, inaspettatamente, gli sferrò un pugno nello stomaco.
Jacque si piegò e guardò attonito il ragazzino. “Ma che fai?” sibilò.
“Che sta succedendo?” stava urlando Emily, raggiungendoli nell’ingresso.
“Dimmi cosa ti ha detto Dubris!” insistette Eike, alzando la voce.
Non avrebbe permesso che Jacque giocasse di nuovo a fare l’eroe, prima o poi si sarebbe fatto ammazzare. Che senso aveva voler salvare Acilia? Se non riusciva a salvarsi da sola, lui cos’avrebbe potuto fare? Era un vampiro limitato, di neanche cent’anni, ed era ora che se ne rendesse conto!
Jacque sospirò, scocciato, e si raddrizzò. Finalmente parlò: “Acilia gli ha detto che si sarebbe consegnata ai cacciatori”.
Il silenzio piombò in tutta la casa. Addirittura la signora Dixon aveva smesso di fiatare.
“Che cosa significa?” chiese Eike, con un filo di voce. Acilia non faceva mai niente per caso, non era quel tipo di persona.
“Una volta lei mi ha spiegato che se fossi morto, lei l’avrebbe saputo” replicò Jacque “E io avrei saputo se lei fosse morta. E la stessa cosa vale per me e te”.
Eike scosse la testa. Quello non aveva importanza.
“Lei non è ancora morta e io devo andare a fermarla!” concluse Jacque.
“Jacque, calmati…” azzardò Emily.
Lui le lanciò uno sguardo obliquo, senza dire niente.
“Smettila” disse Eike “Davvero credi che Aci abbia intenzione di farsi ammazzare?”.
“Cos’altro potrà mai accadere se va dai cacciatori?” sbottò Jacque, che stava visibilmente perdendo la pazienza. Quando si trattava di Acilia, gli si annebbiava il cervello, era chiaro.
“Acilia non vuole morire!” esclamò Emily.
Jacque la guardò torvo. Era uno sguardo brutto, dal labbro superiore spuntarono le zanne ed Emily tremò. Chissà, forse più che paura era dolore, quello di essere respinta, di non sentirsi amata.
“Tu non la conosci” ringhiò Jacque.
“Neanche tu” disse subito Eike “Nessuno di noi la conosce del tutto”. Accennò alle sue zanne. “Ora datti una calmata e dì cos’altro ti ha detto Dubris”.
Jacque non ritirò le zanne ma sembrò placarsi. Sospirò forte e disse: “Acilia ha in mente di parlare ai cacciatori. Non ha senso, la faranno fuori e lo sa anche lei!”. La sua voce vibrava e si alzava, irregolarmente, intramezzata da angosciosi respiri. Si teneva una mano sul cuore. Certo, aveva paura di sentirlo urlare di dolore, sentire come se esplodesse, quando sarebbe esploso quello della sua creatrice.
Né Eike né Emily ebbero il tempo di dire niente perché Jacque continuò, abbassando la voce, che si fece sempre più lamentosa: “Lo sa che il rischio è grosso… Ma l’ha detto solo a Dubris. Non mi vedrà mai più e l’ha detto solo a Dubris!”.
Eike incrociò le braccia al petto. Accecato dalla gelosia, Jacque non si era mai reso conto che con Dubris Acilia aveva condiviso secoli di lavoro e di costruzione. Non si era mai reso conto che Acilia e Dubris facevano parte di un progetto immenso, che prescindeva dall’amore, e se lei ne aveva parlato solo con lui, voleva dire che aveva un piano e che sperava che funzionasse.
Emily d’altro canto si rendeva perfettamente conto di tutto quello che stava accadendo. E guardava il suo amato con gli occhi dell’amore ferito.
“Scusate” fece una voce timorosa.
Eike si voltò e vide che nell’ingresso era arrivato anche Michael. Si stava stritolando un lembo della maglia del pigiama.
“Se davvero un vostro… beh, un vampiro è andato a parlare coi cacciatori… sarà su tutti i notiziari”.
Eike alzò un sopracciglio. Ecco, ci mancava pure un po’ di pubblicità.
“Vuoi dire che Acilia potrebbe apparire in televisione?”.
Michael scrollò le spalle. “Non è una roba che capita tutti i giorni”.
“Ma sono le due e mezza di notte!” osservò Emily.
Il fratello fece un gesto noncurante con la mano. “A chi vuoi che importi! Da quando sono venuti fuori i vampiri, non solo i cacciatori lavorano di notte ma anche giornalisti e reporter! Non credo proprio che si lasceranno sfuggire un’occasione del genere!”.
Eike rifletté, cercando di stare calmo. “Del resto” disse “anche se non la facessero parlare, annuncerebbero comunque di averla uccisa. Lo dicono sempre quando riescono ad uccidere un vampiro, per far vedere che si danno da fare e per tenere alta la speranza”.
Jacque si accigliò. “Molto confortante” borbottò.
“Avremmo comunque notizie” ribatté l’altro.
“Quale speranza” fece Emily a testa china “Se uccidono Acilia non ci sarà più davvero nessuna speranza”.
Quanto siamo positivi, pensò Eike, avanzando verso il salotto. Raggiunse la televisione spenta e l’accese. Ci fu un mugolio da parte della signora Dixon, che evidentemente non ne voleva sapere di sentire altre carrellate di morti, ma Eike frugò in ogni canale, in ogni telegiornale, finché finalmente non trovò quello che cercava. Dietro di lui sentiva Jacque che quasi tratteneva il respiro.
La telegiornalista era una donna truccata, vestita di tutto punto e con i capelli acconciati alla perfezione nonostante l’ora tarda. Stava annunciando che sarebbe andato in onda un servizio speciale. Per la prima volta un vampiro si era consegnato ai cacciatori chiedendo di poter, prima di una qualunque esecuzione, parlare pubblicamente di una cosa da cui sarebbe dipesa l’incolumità dell’intera razza umana.
“La fanno parlare!” esclamò Emily, sollevata.
Allora non sono così scemi gli umani, pensò Eike, tirando un sospiro di sollievo. Se alla frase “vi devo dire una cosa da cui dipende la salvaguardia della razza umana” l’avessero uccisa, avrebbero vinto il primo premio per stupidità.
“Non è detto che dopo averla sentita parlare non la uccidano” sbottò Jacque, scrutando la televisione.
Apparve l’immagine di una stanza spoglia. Una figura nera si intagliava nella parete resa gialla da un’illuminazione vivace. Era Acilia, legata ad una sedia con delle catene d’argento, sporche di sangue come lo erano i vestiti. Il volto era sofferente, gli occhi semichiusi, del sangue colava dalle narici e dalla bocca. Intorno a lei degli umani le puntavano addosso delle armi, pronti a sparare a qualunque mossa falsa.
Jacque cadde piano sulle ginocchia, con un gemito. Era chiaro che soffriva nel vedere la sua creatrice ridotta così. La sua creatrice, o la donna che amava…
“Dov’è?” fece “Dov’è quel posto? Dove si trova?”.
Eike non disse niente. Non avrebbe lasciato andare Jacque: sarebbe piombato lì, avrebbe mandato all’aria il piano di Acilia e i cacciatori li avrebbero ammazzati entrambi.
Notò che anche i signori Dixon si erano alzati, incantati dalla televisione.
“Perché nessuno l’aveva mai fatto?” domandò Emily “Perché nessuno aveva mai tentato un dialogo con gli umani?”.
“Gli umani avrebbero accettato un dialogo solo in una situazione disperata” spiegò Eike, osservando gli occhi di Acilia. Avevano perso il loro bagliore verde, erano due rubini e lei, ora, davvero incuteva timore. “E questa è una situazione disperata”.
Acilia aprì la bocca e tutti si zittirono. Ma dalla sua bocca uscì solo un grumo di sangue.
“Come fa a parlare in quelle condizioni!” esclamò Jacque, da per terra “Come fa…”.
“Mi chiamo Acilia” cominciò finalmente lei, con voce sofferente e trascinata “sono morta a diciotto anni, da più di millenovecento”. Si sforzava di tenere alta la testa per guardare dritto nella telecamera. “Vi… ringrazio per avermi permesso di parlare” continuò.
Eike si chiedeva cosa Acilia avesse in mente. Cosa voleva dire agli umani? Voleva parlare della Rappresentanza? Dei partiti? No, non poteva essere così stupida.
“Ho ucciso uno dei cacciatori di Horfield, si chiamava Curtis”. La voce le tremò. “Ma l’ho fatto solo perché altrimenti mi avrebbe uccisa lui. Non avevo scelta”. Sembrava triste sul serio e lo sguardo si era quasi inavvertitamente ripiegato su se stesso.
“Di solito non uccido” proseguì, a voce un po’ più alta “Mi nutro degli umani di una quantità di sangue che mi è sufficiente per tenermi in forza. E poi li lascio andare, sempre”.
Nessuno fiatava né a casa Dixon, né all’interno del luogo in cui si trovava Acilia e lei, parendo lievemente più serena, rialzò il capo.
“E non solo io agisco in questo modo, ma tantissimi altri vampiri. Non vogliamo che la razza umana sia oppressa dai vampiri, perché noi stessi vampiri, per primi, siamo stati oppressi da loro”. Tossì e sputò ancora del sangue. Le sue cosce ormai erano completamente imbrattate. I suoi occhi parevano folli e cruenti, chi non la conosceva come avrebbe potuto crederle? Ma la sua voce… La sua voce era così disperata. “Ci hanno ucciso, strappato ai nostri cari, ci hanno trasformato in dei mostri” disse ancora lei “Ma, una volta trasformati, siamo ancora in grado di soffrire, ed è questa la cosa peggiore”. Emise un gemito, le braccia scoperte, legate dietro lo schienale della sedia, colavano sangue copioso.
“È per questo”. Acilia quasi urlò, digrignando i denti, per resistere al dolore. “È per questo che io vi chiedo di ascoltarmi… Perché ho a cuore la razza umana… La situazione è così degenerata per colpa di un solo individuo, un vampiro, che ha trascinato dalla sua parte chissà quanti altri! E finché c’è lui non potrete mai più stare tranquilli! È il più crudele di tutti i vampiri, io lo so, io lo conosco…”. La sua voce emanava una tale sofferenza ed Eike ebbe l’impressione che non era solo l’argento a procurarle quell’afflizione.
“Perché sono stata io” continuò lei, con un forte sospiro “Millesettecentocinquant’anni fa, l’ho creato io”.
Il silenzio si ruppe con un’esclamazione di sgomento di               Emily. Jacque aveva gli occhi sgranati e la bocca spalancata accerchiati da una vitrea espressione.
Eike aggrottò la fronte mentre la testa gli si riempiva di domande. Acilia aveva creato Kaeso? Perché non gliel’aveva mai detto? E come era possibile che Kaeso fosse diventato un tale mostro?!
Guardò di nuovo Jacque. Lui non ricambiava lo sguardo, gli occhi immobili puntati sul televisore.
Neanche tu. Nessuno di noi la conosce del tutto.
Eike rivolse lo sguardo ad Acilia. Non l’avevi detto a nessuno, non è vero? pensò.
Sai quanti segreti può avere una persona che ha duemila anni?
Era così ovvio, che nessuno di loro la conoscesse davvero. Neppure Jacque.
“Solo io lo posso fermare” stava dicendo Acilia “L’ho creato io, sono io che devo distruggerlo!”. Lo sguardo traboccante di sangue e furore implorava ed Eike non aveva mai visto Acilia implorare.
“Se voi me lo permetterete, se mi lasciate andare… Io lo ucciderò. Poi, ve lo giuro, mi avrete. E farete di me quel che vorrete”.









Sta durando un pochino questa nottaccia, eh? Ben tre capitoli XD

Dunque, ci sto riuscendo a creare un climax ascendente d'ansia con questi ultimi capitoli? Dai, manca poco, ancora tre capitoli e un epilogo e tutto finirà, in qualche modo.. :DD
Ringrazio tantissimo Nene e Norine che hanno lasciato una recensione allo scorso capitolo e do appuntamento a tutti alla prossima puntata, spero di riuscire ad aggiornare presto! :) 
   
 
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