Mh...
Salve a tutti. Mi vergogno un po' a postare dopo tutto questo tempo, ho
iniziato a Natale e ora siamo quasi a Pasqua... Ma sono stata spesso
senza pc e
se devo dirla tutta ultimamente di scrivere non mi andava proprio
ç_ç scusate
davvero, non so che mi prende questo periodo. Comunque per ora sono
qui, è
questo l'importante.
Per
chi non si ricorda di me o della storia... Faccio un breve riassuntino
del
precedente capitolo lol: Edward torna a Forks per festeggiare il
Natale, a casa
sua incontra Bella, la quale lo evita. I due si incontrano per caso,
parlano e
chiariscono che sono stati impegnati, ma, in maniera un po' implicita,
che non
lo sono più perchè non trovano nessuno che possa
sostituire il loro amore. Avete
visto dal POV Edward che lui nonostante tutto non è riuscito
a dimenticare del
tutto Bella, nonostante sia passato tanto tempo. Ora invece ci
sarà il POV
Bella, dove vedrete il suo punto di vista e nuovi sviluppi, anche se
può
sembrare il contrario :D
Buona
lettura <3
Dare
to believe
Mistakes
Edward,
Edward, Edward.
Quel
pensiero annullava ogni cosa, mentre correvo in camera di Alice,
scappando da
lui ancora una volta.
Lasciai
che gli occhi mi si inumidissero mentre mi sdraiavo accanto a lei, nel
suo
letto. Troppo insonnolita per rendersi davvero conto di quanto stesse
accadendo, mi strinse a sé come aveva fatto già
tante altre volte e tornò
semplicemente a dormire.
Come
la invidiavo. Sarebbe stata capace di dormire in qualunque circostanza,
mentre
sapevo che quel tarlo che mi logorava da dentro non mi avrebbe fatto
chiudere
occhio.
Nel
silenzio più assoluto ascoltavo i nostri respiri, l'unica
cosa che spezzava la
quiete di quella notte. E dei passi. Una porta che si chiudeva piano,
la zip di
un borsone che si apriva. Il fatto che fosse Edward a fare quei lievi
rumori
proprio nella stanza accanto alla mia rendeva il tutto più
assordante di quel
che era in realtà.
Avevo
paura e non sapevo neanche di cosa. Non sarebbe entrato in camera di
sua
sorella a quell'ora della notte solo per parlare con me, giusto? E poi,
perché
avrebbe dovuto voler parlare con me? Era finita, non avevamo nulla di
così
importante da dirci da non poter aspettare l'indomani. E in ogni caso
non c'era
nulla.
Eppure...
Eppure una parte di me avrebbe voluto parlargli. E soprattutto, voleva
che
fosse lui a volermi parlare. Ma sapevo che non era così. Lui
aveva Annie.
Pensare
a quel nome era ogni volta una pugnalata. Quando Alice me ne aveva
parlato
aveva fatto male da morire. Ormai stanno insieme da... Quanto? Due, tre
anni?
Erano tanti anni, comunque. Da quel momento non le avevo più
chiesto niente di
lui.
"Non
voglio più saperne niente", le avevo detto un paio di giorni
dopo quella
rivelazione.
Non
credevo questo implicava anche il fatto che non mi avrebbe detto nulla,
se
fosse tornato a Forks.
Ero
così arrabbiata con lei. Era tutto organizzato? Per questo
aveva insistito così
tanto perché tornassi a casa con lei? Qualcosa mi diceva che
sì, era tutto
organizzato.
Improvvisamente
mi comparvero di fronte tutti i suoi tentativi di aprire il discorso
"Edward" degli ultimi mesi. Ognuno era stato un fallimento,
perché io
mi ero sempre rifiutata di parlarne e di fronte il mio pianto isterico
non
sapeva davvero cosa fare. Che credeva, che sarebbe venuto qui, avremmo
parlato
e tutto sarebbe stato risolto? Non avremmo risolto un bel niente. Alice
non
poteva farmi questo. Di certo io non potevo fare questo a Edward, non
dopo
tutto quel tempo.
L'ultima
volta che l'avevo avuto così vicino... Non ricordavo nemmeno
quand'era stata.
Però qualche mese fa l'avevo rivisto da lontano. Era stato
allora che avevo
capito che mi ero presa in giro tutto quel tempo, eppure avevo
continuato a
farlo, dicendomi che per me era ormai acqua passata. Era stato allora
che non
avevo più potuto tenere per me il segreto che mi mangiava lo
stomaco e che mi
aveva reso l'ombra di me stessa.
**********
"Vuoi dirmi per
favore cosa è
successo?", chiese Alice per l'ennesima volta.
Io affondai
nuovamente il cucchiaio
nella vaschetta del gelato, senza degnarla di una risposta.
"Bella, ti
prego. Come posso
aiutarti se nemmeno mi parli?"
Ma non poteva
aiutarmi. Nessuno
poteva.
Credevo che
fosse tutto finito, che
il capitolo "attacchi di panico barra crisi
isteriche" fosse ormai concluso da un pezzo. E invece mi sbagliavo.
Mi trovavo in
giro per il centro di
Seattle per fare degli acquisti, quando lo vidi.
Era di spalle, a
una decina di metri
da me, e non poteva vedermi. Ma io vedevo benissimo lui.
Il suo profilo
era inconfondibile, e
avrei riconosciuto ovunque il colore ramato dei suoi capelli. Non li
portava
più sparati come un tempo, erano più corti e
ordinati, ma non potevo
sbagliarmi. Il mio cuore non poteva sbagliarsi. E fu proprio il mio
cuore a
perdere diversi battiti per poi ricominciare la sua corsa ad un ritmo
sfrenato.
In un attimo lo sentii su per la gola, impedendomi di respirare
regolarmente.
Quasi attratto
da quel rumore
frenetico, che alle mie orecchie era totalmente assordante, si
voltò
lentamente.
I nostri occhi
si incrociarono per un
istante, il tempo che mi servì per risvegliarmi da quella
specie d trance in
cui mi trovavo e cambiare direzione il più velocemente
possibile, lontana da
lui e da tutto quello che la sua vista aveva riportato a galla. Tutti
quegli
anni passati a cercare di andare avanti, in modo evidentemente vano,
visto che
mi era bastato guardarlo negli occhi per ritrovarmi inghiottita
nell'incubo che
credevo essermi lasciata alle spalle.
Tornai in fretta
al mio appartamento,
dove sfogai tutto il mio dolore tra le braccia di Alice.
Ora che i
singhiozzi erano terminati,
mi rimanevano solo lacrime silenziose e solitarie che non riuscivo a
fermare e
che non facevano che far preoccupare la mia amica.
"Bella..."
"L'ho rivisto",
dissi a un
certo punto.
"Come?"
"Ho rivisto...
L'ho visto,
Alice. A Seattle. Sapevi che era qui?"
"Io...
Sì. Ma non ti ho detto
nulla perché... Non credevo ti avrebbe fatto piacere e
così... Avete
parlato?"
"No", scossi la
testa.
"Non sono sicura che mi abbia riconosciuta... Me ne sono andata
subito."
"Stai
così male solo per averlo
rivisto?"
Le lanciai uno
sguardo eloquente.
"Pensavo fosse
passata."
"Sì...
Lo pensavo anche
io."
"Sei ancora..."
"Non
è solo questo, Alice",
dissi ricominciando a singhiozzare. "Non è mai stato solo
questo."
"Ehi, ehi",
sussurrò
avvolgendomi in un abbraccio. "Tesoro, non piangere ti prego. Puoi
dirmi
tutto, lo sai. Parlami, ti prego. Che cosa c'è?"
Mi aggrappai a
lei e alle sue parole
e sentii che non potevo più farcela da sola. Non potevo
più tenermi dentro quel
peso senza che mi schiacciasse con la sua forza immane e
così lo sputai
semplicemente fuori.
"Aspettavo un
bambino."
Alice rimase
paralizzata.
"Co... Come?
"Io... Aspettavo
un
bambino."
"Bella...
Cosa...? Che stai
dicendo?"
"Mi dispiace,
Alice. Io non ero
abbastanza forte... Gli volevo così bene... Così
tanto bene... Ma un giorno era
dentro di me e il giorno dopo non c'era più... Mi dispiace
così tanto. Scusa,
scusami."
Continuai a
scusarmi per un tempo
infinito. Chiesi scusa a lei, a Edward, a quel bambino che non aveva
respirato
nemmeno una volta e si era portato con sé anche la mia vita.
"Bella", disse
Alice dopo
che mi fui calmata un po'.
"Bella...
È per questo che vi
siete lasciati?", chiese inorridita. "Edward... Lui ti ha lasciata
perché..."
"No!", mi
affrettai a dire.
Non volevo che pensasse male di suo fratello. Ero io ad aver sbagliato,
ero
l'unica da biasimare. "Edward... Lui non sa niente del bambino. Non gli
ho
mai detto niente."
"Cosa?!"
"Avrei tanto
voluto... Avevo
così bisogno di lui ma non ce l'ho fatta... Non riuscivo
nemmeno a guardarlo
negli occhi senza... Senza vedere quello che gli avevo fatto e che
avevo fatto
al nostro... Al nostro bambino."
"Bella, lui...
Tu devi
dirglielo... Come hai potuto non farlo?"
"Mi dispiace."
"Lui deve
sapere..."
"No!", esclamai
ancora.
"Non... Non gli dirò niente. Non deve sapere niente", dissi
senza
riuscire a frenare le lacrime. "E nemmeno tu. Ti prego, Alice, per
favore...
Promettimi che non gli dirai niente. Per favore."
"Bella...",
tentò di farmi
ragionare.
"Prometti!",
insistetti.
"Te lo
prometto", disse in
fine con un sospiro.
Di fronte alle
mie suppliche
disperate non poté fare altro che arrendersi.
**********
Quando
l'orologio segnò le otto passate fu un sollievo. Forse era
ancora presto per
essere un giorno di festa, ma non potevo sopportare di logorarmi oltre
la mente
con certi pensieri.
Mi
misi seduta e il movimento svegliò Alice. Mi
fissò per un momento con gli occhi
assonnati ma dopo un'occhiata più approfondita parve d'un
tratto sveglissima.
"Hai
pianto."
La
sua non era una domanda, e la tristezza nel suo sguardo mi
confermò che la sua
non era solo una supposizione, che sapeva non solo che avevo pianto in
silenzio
tutta la notte, ma che sapeva anche il motivo.
"Non
ho pianto."
"Bella,
per piacere. Che è successo?"
"Nulla",
continuai a negare.
"Piantala!",
disse a bassa voce ma in tono autoritario. "Smettila di negare ogni
volta
quando stai male, sai che non serve a niente."
"Che
altro dovrei fare?"
"Non
lo so, dirmi magari il motivo per cui hai pianto?"
"Sai
perfettamente qual è il motivo, Alice. O vorresti dirmi che
non sapevi nulla
del fatto che tuo fratello è tornato a Forks, stanotte?"
Cercai
di modulare il tono della voce, ricordando che da Edward ci separava
solo una
parete, ma avevo voglia di gridare e di sfogare contro Alice la rabbia
che
provavo per me stessa e per la mia incapacità di andare
avanti e di sopportare
un po' di dolore.
Lei
sospirò, mettendosi seduta accanto a me e sfiorandomi il
braccio per calmarmi.
"Non
ero sicura che sarebbe venuto. Ma tu come fai a saperlo? Ci ha parlato?"
"Non
riuscivo a dormire e sono scesa di sotto, e dopo un po' lui
è entrato e l'ho
visto e... No, non ci ho parlato. Sono tornata di sopra."
"Dovresti
farlo, Bella. Parlargli, intendo."
"Per
dirgli che cosa?"
"Bella,"
disse incredula, "hai da dirgli così tante cose che non
basterebbe una
settimana e mi chiedi di cosa dovresti parlargli?"
Feci
spallucce.
"Guarda
che tra noi è finita quattro anni fa, Alice. Non
è che ora lui torna, gli dico
chissà che cosa e alla fine ci rimettiamo insieme. Non
funziona così."
"Nemmeno
mi riferivo a quello."
Oh, lo so che
non ti riferivi a
quello. Ma per quanto doloroso possa essere, non sarà mai
paragonabile al
pensiero di dover affrontare nuovamente quel discorso, ammetterlo
ancora ad
alta voce, renderlo più reale di quanto già non
fosse.
Sapevo
dove voleva andare a parare ma feci finta di nulla.
"Comunque",
continuò per coprire il mio silenzio, "dirgli chissà
che cosa potrebbe essere un buon inizio."
"Piantala,
dico sul serio."
"Tu
piantala. Continui a dire che per te
è finita e appena te lo ritrovi davanti scappi come al
solito. Se fosse davvero
finita non avresti avuto problemi a dirgli almeno un ciao."
"Per
te non si tratta di un semplice ciao, però, vero? Tu
vorresti che gli dicessi
tutto", la accuso.
"Non
farmi quella faccia. Tu devi dirgli
tutto."
"Mi
dispiace ma non penso che lo farò. Che cambia ormai? Sono
passati quattro
anni."
"Cambia
che lui ha il diritto di saperlo!"
"E
io non ho il diritto di dirlo a chi mi pare?"
"Cioè
a nessuno, in pratica?"
"Sono
cazzi miei, Alice. Perché diavolo dovrei farlo soffrire per
qualcosa che è
successa una vita fa?"
"Tu
non sai nemmeno di quello che stai parlando. Non puoi..."
Non
la lasciai continuare. Mi alzai dal letto e mi cambiai con i vestiti
che avevo
ieri.
"Che
fai adesso?"
"Me
ne vado a casa mia prima che si svegli Edward. Non mi va di vederlo,
non avrebbe
senso."
"Scappi
ancora? Ma certo, sai fare solo questo. Soltanto scappare. Beh, sappi
che mi
sono scocciata di correre dietro alle tue stronzate."
"Non
te l'ho chiesto."
Con
le lacrime agli occhi andai via da Alice, da Edward, senza guardarmi
alle spalle.
Avevamo
avuto quella discussione un milione di volte, ed era finita sempre allo
stesso
modo.
Sapevo
che Alice aveva ragione. Sapevo che Edward aveva il diritto di sapere.
Ma non
ce la facevo, davvero non ce la facevo a guardarlo negli occhi e a
parlargli,
dopo tutto questo tempo, a riaffrontare ancora tutto, a dirlo ad alta
voce e a
renderlo più vero di quanto già non fosse nel mio
cuore, nella mia testa, nei
miei ricordi.
**********
La prima mattina
che mi svegliai a
casa, nel mio letto, dopo che ero tornata dall'ospedale, sapeva quasi
di
normalità.
Quasi,
però.
La sveglia
suonò alla solita ora,
come al solito la spensi e torna sotto le coperte per godere di qualche
istante
di sonno in più. Sentivo mio padre che si destreggiava in
cucina per tentare di
cucinare una colazione commestibile.
Una mattina
normale, insomma.
Come fossi un
automa la mia mano si
spostò ad accarezzare il mio ventre. Da lì, dove
fino a poco prima batteva il
cuore del mio bambino, ora sentivo invece solo un grande vuoto. E
allora lo
sapevo, che non avrei più vissuto una mattina normale.
Il telefono
vibrò per l'ennesima
volta. Sapevo fosse Edward, e sapevo anche che avrei dovuto rispondere
prima di
mandarlo al manicomio.
"Bella!"
"Ehi... Ciao"
"Perché
rispondi solo ora? Ero preoccupato.
Come stai?"
"Io... Sto bene.
Stavo dormendo,
qui è appena mattina. Scusa."
"Bella..."
"Cosa?
"Come stai?
Sinceramente."
"Sto bene,
sinceramente."
Riusciva a
sentire dal mio tono che
stavo mentendo? Percepiva la vita che mi era scivolata via lasciandomi
morta
dentro? In poche settimane mi ero abituata al pensiero di vivere per
due.
Quanto tempo ci avrei messo ad abituarmi a non vivere più
nemmeno per me?
Provai ad essere
più convincente,
quando gli spiegavo che ormai stavo bene, che mi ero ripresa, che non
c'era
bisogno che anticipasse la partenza per venire qui, ma lui non ne
voleva
sapere.
Evidentemente
come attrice dovevo
fare davvero schifo, perché poche ore dopo bussò
alla porta di casa. A
giudicare dal suo sorriso Charlie non gli aveva ancora detto nulla,
come mi
aveva promesso.
"Devo
dirglielo io", l'avevo implorato,
senza essere del tutto convinta che ne sarei mai stata capace. Come
avrei
potuto spegnere il suo sorriso in quel modo?
Non appena mi
vide si precipitò ad
abbracciarmi.
"Bella... Amore
mio,
scusami."
"Non... Ora sei
qui. Va tutto
bene."
Nonostante
ciò che gli avevo detto
per telefono quella stessa mattina, stringerlo tra le mie braccia era
stato
come tornare a respirare di nuovo, anche solo per un momento.
"Io... Vado a
lavorare",
disse Charlie. "Vi lascio soli. Mi raccomando."
Mi
lanciò un'occhiata significativa e
se ne andò.
L'attenzione di
Edward era tutta su
di me.
"Sicura di stare
bene? Sei stata
ricoverata in ospedale due giorni per... Non ho ancora capito cosa. Hai
sbattuto
la testa quando sei caduta?"
Io non riuscivo
a dire niente. Non
riuscivo nemmeno a guardarlo negli occhi. Mi lasciavo stringere e
basta, finché
non iniziai a singhiozzare silenziosamente e allora iniziò a
preoccuparsi
davvero. Ma continuavo a non dire niente.
Cosa avrei
potuto dirgli?
Le parole del
mio medico mi tornarono
alla mente e le scacciai subito. Era una cosa così...
Fredda, da dire.
Perdere
un bambino.
Un telefono si
perde. Le chiavi di
casa si perdono. Un bracciale, una penna, un portafortuna. Quelle erano
le cose
che si perdevano. Un bambino non era una cosa. Era mio
figlio. Era nostro figlio. E non c'era più.
Guardai gli
occhi di Edward, e vidi i
suoi. Non li avrebbe mai aperti, perché io lo
avevo ucciso.
Distolsi subito
lo sguardo. Come potevo
guardarlo negli occhi dopo ciò che avevo fatto? E lui come
avrebbe potuto
continuare a guardare nei miei? Mi avrebbe odiata, e non potevo, non potevo permettere che mi odiasse.
Così
tacqui. La parte più nobile di
me - una piccola, piccolissima parte di me -, promise che domani glielo
avrei
detto.
Domani non
arrivò mai.
**********
"Ehi."
Sobbalzai,
per poco non lasciai cadere il pacco di pasta che avevo in mano.
Conoscevo
bene quella voce, e nonostante l'avessi sentita appena la sera prima,
mi fece
sentire una specie di palla di gelatina.
"Che...
Che ci fai qui?", dissi voltandomi verso di lui.
"La
stessa cosa che ci fai tu, immagino."
"Sì...
Cioè, intendevo..."
"Che
ci faccio a Forks?"
Annuii,
incapace di parlare.
"Sono
tornato per le vacanze di Natale. Era da un po' che non festeggio a
casa."
"Sì...
Anche io."
Aveva
sentito anche lui il tono malinconico nella mia voce?
Ci
fissammo in silenzio per qualche secondo imbarazzante, e poi
parlò ancora.
"Alice
mi ha detto di tuo padre. Mi dispiace. Come sta ora?"
Sospirai
di sollievo: mio padre era un argomento neutro da affrontare, e
nonostante non
mi facesse piacere parlarne visto il suo malanno, lo preferivo cento
volte all'altro.
"Ora
meglio. Deve solo stare a riposo... Più tardi vado a
portargli vestiti, qualche
rivista da leggere... Cose così."
"Sì...
Uhm, salutamelo. Magari faccio un salto a trovarlo... Se non
è un
problema."
"Non
sei tu il problema. Gli farebbe piacere."
Fece
per rispondere la proprio in quel momento il cellulare
iniziò a squillare.
Ringraziai mentalmente chiunque avesse deciso di togliermi da
quell'imbarazzo,
e mi misi in fila per la cassa per lasciargli la sua privacy.
"Annie...
Ciao."
Mi
fermai di colpo al suono di quel nome. Privacy un corno. Non avrei
dovuto
allungare il collo per sentire la conversazione, non mi ero fatta
già
abbastanza male? Ma il tono era così freddo che non potei
non pentirmi della
mia piccola furbata, né di gioirne. Forse ero masochista.
Pagai
la mia roba e mi voltai verso di lui, sorridendogli imbarazzata.
Infondo non
avevo alcun diritto di essere felice, specie se questo implicava la sua
infelicità
"Allora...
Uhm... Ci vediamo", dissi scuotendo la testa per allontanarmi da lui e
dai
miei pensieri, ma lui sembrava non volermi lasciar andare.
"Aspetta!
Pago questo e arrivo."
Mi
bloccai ancora.
Lui
sembrava speranzoso del mio tentennamento, che non riuscii a
giustificare.
Credevo di agognare l'uscita, la mia auto, il mio rifugio lontana da
lui. Ne
ero davvero convinta. Ma la verità era chiara,
perché se non me n'ero ancora
andata era perché non volevo farlo. Volevo restare,
ascoltare ancora la sua
voce, respirare il suo odore, sorridere al suo sorriso. Mi nascosi
dietro le
parole di Alice, che non avevano fatto altro che rimbombarmi nella
mente fino a
quel momento: non volevo scappare, non più. Volevo crescere,
affrontare le mie
responsabilità, dimostrarle che si sbagliava. Per questo
annuii, per poter dire
ad Alice e a me stessa che non sono la codarda che tutti ricordavano.
E
per drogarmi ancora solo per qualche minuto della presenza di Edward,
certo.
Sì, ero decisamente masochista.
Quando
uscimmo dal piccolo supermercato l'uno di fianco all'altra, eravamo in
imbarazzo.
O meglio, sentivo che l'aria era nuovamente tesa fra noi. Stavolta fui
io a
rompere il ghiaccio, e fui fiera di me per questo. Stavolta non sarei
scappata.
"Così...
Passerai le feste qui."
"Sì.
Tu?"
"Beh,
dipende. Probabilmente dimetteranno mio padre prima di Natale... Non
è che ho
gran voglia di festeggiare, comunque."
Sembrò
dispiaciuto della sua piccola gaffe, ma sorrisi per tranquillizzarlo.
Mi
guardai intorno. Non ero venuta in auto, mentre lui aveva ovviamente la
sua
Volvo a pochi metri da noi.
"Io
devo andare."
"Dov'è
la tua auto?"
"E'
a casa di mio padre. Sono venuta a piedi... Avevo bisogno di camminare
un po',
di stare per conto mio."
"Tornerai
a piedi?"
Alzò
un sopracciglio scettico, al che non potei fare a meno di sorridere: ne
aveva
tute le ragioni.
"Lo
so, non sono una grande amante delle attività che
contemplino un qualunque
sforzo fisico..."
"Magari
ti do un passaggio fino a casa?"
Mi
morsi un labbro, perché era proprio quello che speravo.
"Magari",
sussurrai.
Entrai
nella sua macchina e la prima cosa che mi colpì fu il suo
odore intenso. Mi
stordì come non succedeva da tanto, ne ero piena.
Cercai
di non farmi accorgere mentre mi riempivo i polmoni, come se fosse una
cosa
normale. Se ci aveva fatto caso, non lo lasciava comunque a vedere.
Partimmo
con quello che doveva essere un argomento neutro, la sua laurea, per
poi
ritrovarci a parlare dei suoi sogni che si realizzavano e dei miei che
si
infrangevano.
Gli
chiesi di Annie, e lui mi chiese di Jacob, il quale aveva rappresentato
una
parentesi minuscola della mia vita.
Come
poteva durare con lui, con chiunque altro, se negli occhi di tutti cercavo i suoi
occhi? Quegli occhi da cui ero fuggita anni addietro, quegli stessi
occhi di
cui avevo avuto paura, perché rappresentavano per me
l'inferno e il paradiso
insieme.
Dirglielo
non era stata la cosa più intelligente che potessi fare, ma
a quanto pare ero
nata per fare solo cose stupide.
Ormai
eravamo fermi nel vialetto di casa mia da un bel po', e gli dissi che
dovevo
andare.
Uscii
dall'auto di Edward e l'aria fresca invece di liberarmi mi
soffocò. Finché
c'ero dentro non me n'ero accorta, ma ora che non respiravo
più il suo odore
capii quant'ero stata sciocca ad aver pensato che allontanandomi da lui
sarei
stata meglio. Era lui il mio rifugio sicuro.
Tornai
indietro, non potendone fare a meno, e mi scusai per tutto. Lui
capì a cosa mi
riferivo, a tutto quello che era successo tra noi, disse che non
importava ma
invece importava eccome.
Feci
retrofront, entrai in casa cercando di sfuggire a quella sensazione che
avevo
da quando lo avevo rivisto, quella sensazione che mi diceva che avevo
sbagliato
tutto e che dovevo rimediare, e cercai di auto convincermi che ormai
era tardi
per porre alcun rimedio.
Era
davvero troppo tardi.
Come
vi dicevo prima, sembra che sia troppo tardi, ma... Ma in
realtà non è così.
LOL
Non
disperate, perchè nel prossimo capitolo (che
cercherò di postare il prima
possibile), succederà... ehm... qualcosa.
Eh, ma va?
ahaha seriamente, spero
di postare presto ç_ç anche perché con
le vacanze di Pasqua avrò sicuramente
molto più tempo.
Spero
che il capitolo vi sia piaciuto, sicuramente ha chiarito qualche dubbio
che
avete espresso nelle recensioni, se non è così
chiedete pure :) e fatemi sapere
cosa ne pensate, se avete voglia ovviamente :3
Vi
ricordo come sempre:
Il
gruppo facebook (per spoiler e quant'altro :3)
Il
mio profilo facebook (che ho cambiato per l'ennesima volta
lol)
Grazie
mille a tutte, per tutto.