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Autore: sleepingwithghosts    22/03/2013    0 recensioni
Raccolta di missing moment della mia long "In ruins".
Dal primo capitolo: "Tutto in me urlava "Seth, hai bisogno di Seth". E il punto era proprio che avevo bisogno di lui per sopravvivere. Per sopravvivere quando avevo le mani, i piedi, il corpo e l'anima freddi. Quando ero triste, quando ero euforica, quando cadevo e non riuscivo ad alzarmi. Lui era affianco a me, sempre, nonostante tutte le liti e gli insulti."
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Hurt me and tell me you’re mine.

(In ruins – missing moment #1)

 

 

Mi svegliai, combattendo con tutte le forze contro la luce che entrava dalle finestre e che mi si sparava dritta in faccia. Mi mossi lentamente, abbracciando il busto di Seth. Ero in uno di quei momenti post sbornia in cui sapevo a mala pena come mi chiamavo, ma lui, sapevo che lui era affianco a me, anche se probabilmente dormiva ancora, sfinito quanto me. Non lo sentii muoversi di un millimetro, il respiro regolare, il torace che si alzava ed abbassava lentamente. Era caldo da impazzire, e io, come al solito, ghiacciata. Tutto in me urlava “Seth, hai bisogno di Seth”. E il punto era proprio che io avevo bisogno di lui per sopravvivere. Per sopravvivere quando avevo le mani, i piedi, il corpo e l’anima freddi. Quando ero triste, quando ero euforica, quando cadevo e non riuscivo ad alzarmi. Lui era affianco a me, sempre, nonostante tutte le liti e gli insulti.

Alzai la testa e con la punta dell’indice presi a sfiorargli il viso, con delicatezza. Partii dalle sopracciglia, distese e beate come quelle di qualcuno che stava facendo un bel sogno, gli accarezzai le palpebre chiuse, non toccandole veramente e scesi verso il naso, dritto e liscio. Quando gli toccai le labbra, le dischiuse appena, scaldandomi la pelle con il suo alito. Ora sapevo che era sveglio, ma lui non aprì gli occhi, lasciandomi continuare l’esplorazione di quel volto che conoscevo bene, qualsiasi espressione assumesse. Mi avvicinai a lui e gli lasciai un bacio sul mento, pungendomi un po’ con la barba che si era fatto crescere – non avevo fatto obiezioni, perché, a quanto pareva, i miei ormoni la trovavano estremamente sexy. Fu in quel momento, comunque, che aprì gli occhi: verdi, verdissimi, come ogni mattina. (“Come ogni mattina in cui mi sveglio affianco a te”, aveva detto una volta)

«Ciao», dissi con un sorriso. Lui si avvicinò e mi baciò le labbra, nel suo modo dolce, carino e leggero. Mi strinsi un po’ a lui, giusto perché non avevo nessuna voglia di alzarmi dal letto, e lui mi cinse la vita con un braccio, avvicinandomi ancora di più.

Rimanemmo in silenzio per un tempo che mi parve infinito, ma io non mi stancavo mai di stare in silenzio insieme a Seth, perché sembrava che i nostri respiri suonassero insieme. Componevano una melodia confusa ma che in qualche strano modo aveva un’armonia, come se non fosse sbagliata. Come se noi non fossimo sbagliati.

Alzai lo sguardo e lo osservai, mentre lui osservava me. «Cosa?», chiese indagatore.

«Ho bevuto. Quanto ho bevuto?». In quei cinque mesi in cui non ci eravamo visti, avevo smesso di bere e di drogarmi, avevo davvero voglia di sparire e anche facendo quelle cose temevo di attirare l’attenzione, di espormi troppo. Quando invece ero tornata insieme a lui – non che stessimo insieme, come una coppia, ma non-esplicitamente lo eravamo, dato che avevamo solo noi stessi, pochi amici e nessuna famiglia – tutto era tornato come prima, alcol compreso. Mi faceva sentire bene, quello continuavo a ripetermi, ma sapevamo bene entrambi quando ci facesse male fisicamente (e psicologicamente). Era anche vero, che in quei momenti in cui galleggiavamo negli effetti dell’alcol, ci amavamo come non mai. In quei momenti eravamo attratti l’una dall’altra come normalmente non lo eravamo mai, e non perché non ci amassimo, non perché non ci desiderassimo, solo perché eravamo troppo concentrati nel distruggerci da soli, ognuno per contro proprio. Ed era proprio in quei momenti di massima distruzione, fatti di droga e ubriachi fradici che ci rendevamo conto di quel bisogno, del bisogno di avere quell’altra persona affianco, quell’ancora di salvezza.

Mi carezzò la guancia e chiusi gli occhi, godendomi quel contatto rovente contro lo zigomo scarno. «Mi dispiace», disse solo, e io annuii, perché lo sapevo che gli dispiaceva tanto quando dispiaceva a me. Sapevo anche quanto non gli dispiacesse, perché mi amava, mi amava così tanto da volermi sua in qualsiasi momento possibile. Anche perché io non avevo smesso di fare quello che avevo fatto in quegli anni: la troia. Sebbene fosse nata quella cosa con Seth e passassi con lui la maggior parte del mio tempo, avevo ancora una famiglia, una madre picchiata a sangue dal marito, un padre reso marcio dall’alcol e dalla sua stessa natura di bestia, che gli faceva fare quello che faceva. Portavo ancora io a casa i soldi per mangiare, con la sola differenza che poi me ne andavo, che poi tornavo a casa mia, ovvero fra le braccia e le carezze di Seth. Era casa ormai, era porto sicuro, era luce.

Era anche buio. Lo era quando mi picchiava perché troppo fatto, e io me ne rendevo conto e tacevo, come aveva fatto in tutti quegli anni mia madre, maledicendomi perché c’era la consapevolezza in me di dover scappare, non fare la sua stessa fine, ma anche quella che lo amavo, e senza di lui non avrei saputo dove andare, cosa fare. C’era la consapevolezza anche che lui, senza di me, non sarebbe stato più niente, e lo vedevo nei suoi occhi dopo avermi sbattuto addosso al muro con forza, quando abbassava il volto e mi chiedeva scusa sussurrandomelo sul petto.

Appoggiai il naso sul suo petto. «Non importa».

«Esci oggi?».

Annuii. «Ho da fare». Ero solita non ricordargli tutte le volte in cui andavo a fare i pompini agli altri ragazzi, e sapevo che apprezzava il fatto, lo capivo da come mi guardava e poi sbuffava. Gli baciai l’ombelico e lo sentii irrigidirsi. Chiusi gli occhi e presi un respiro. «Dobbiamo di nuovo tornare sull’argomento?».

«Lo sai quanto mi faccia schifo».

Avrei voluto ribattere che non sapeva quanto schifo facesse a me, ma mi morsi il labbro per tacere. «Ti prego», soffiai.

«Fai come vuoi». Dicendolo si alzò dal letto e andò in bagno, lasciandomi con la faccia premuta sulle lenzuola calde. Lo odiavo quando faceva così. L’avrei preso a schiaffi. Gli avrei urlato dietro le peggiori cose, pentendomene cinque minuti dopo.

Ritornò, io ancora nella stessa posizione, e mi mise una mano su una coscia. «Mi spiace».

«Lo so».

«Mi fa davvero schifo».

«Lo so, ma se non lo faccio non mangiamo e non mangiano i miei, dato che mamma al lavoro non ci va proprio più». Mi guardò, e si coprì lo sguardo triste con le mani, nascondendosi il volto in esse, nascondendolo da me. «Seth, guardami», dissi avvicinandolo a me. «So quanto ti stai impegnando a cercare un lavoro, so che lo troverai perché sei intelligente e bello e qualcuno ti vorrà assumere, prima o poi. Forse dovresti cercare in uno di quei club dove fanno gli spogliarelli», scherzai. Mi guardò incuriosito, con un sorriso sulle labbra. Io tornai seria. «Sto scherzando, ovviamente». Scoppiò a ridere e ne fui felice, mi aggrappai su di lui e gli stampai un bacio. «Che c’è da mangiare in casa? Muoio di fame», mugugnai sulle sue labbra.

«Mio fratello deve aver fatto la spesa, andiamo a vedere in cucina». Mi prese per mano, e cominciammo un’altra giornata nello stesso modo di tutte le altre giornate: insieme ma tristi, insieme ma stanchi. Insieme. Stanchi. Vuoti. In attesa.

 

Non avevo chiesto a Seth di venirmi a prendere a scuola per ovvi motivi, ma quello stronzo che mi ero scopata nel bagno mi aveva fatto davvero male e io avevo solo voglia di arrivare il prima possibile a casa e buttarmi fra le lenzuola del suo letto. Camminavo a stento, quindi decisi di prendere la metro, invece di farmi tutta la strada fino a casa del fratello di Seth a piedi. Avrei speso un po’ dei soldi appena guadagnati per il biglietto, ma andava bene così. Quando scesi le scale mobili, però, mi bloccai, perché in lontananza vidi Seth. E sapevo che era lui, perché quella era la sua felpa, quelle le sue braccia, quelle le sue spalle.  Lentamente mi avvicinai, cercando di non farmi vedere perché stava discutendo animatamente con un tizio che non aveva un’aria familiare. Almeno per me, dato che Seth continuava a chiamarlo “amico”, anche se non sembrava per niente in amicizia. Il ragazzo, piuttosto, aveva un’aria incazzata.

«Lo so che ti devo dei soldi, ma ne ho davvero bisogno».

«Niente grana, niente roba, mi dispiace».

«Ti pagherò presto, ho trovato un lavoro», disse Seth sbattendo le ciglia.

«Davvero?», chiese il ragazzo, che non sapeva se credergli o no.

«Davvero». Dopo qualche istante il tizio estrasse una cartina dalla tasca e la consegnò a Seth, che gli diede un abbraccio per nulla affettuoso con un sorriso, prima che l’altro se ne andasse. Senza droga e senza soldi.

Mi avvicinai ancora, fermandomi a qualche passo di distanza da lui, aspettando che si accorgesse di me. Vidi invece che prendeva la pasticca dal piccolo sacchetto di plastica e se la metteva sulla lingua.

«Hei», dissi spingendo le mani tremanti in tasca, per evitare che le vedesse.

«Evie? Che ci fai qui?», domandò subito, avvicinandomi a sé e cingendomi la vita con le braccia.

«Torno a casa».

«In metro?». Scrollai le spalle, incapace di guardarlo negli occhi. Stavo soffrendo troppo e se mi avesse guardato negli occhi se ne sarebbe reso contro. O forse no, con quell’acido in corpo. Lo sentii sospirare. «Hai visto, vero?».

Annuii. Avevo visto eccome. Mi alzò il viso con una mano, disegnandomi dei cerchi con il pollice sul mento. «Mi dispiace».

«Sì, ti credo», dissi con tono di arresa guardandolo negli occhi per poi allontanandomi da lui, trattenendo le lacrime per il dolore. E non solo il dolore fisico, ma quello che lui mi stava facendo provare.

«Dove vai?», chiese fermandomi per un braccio.

«A casa,vado a casa».

«Perché sei incazzata adesso?».

Mi girai verso di lui e lo guardai dritto negli occhi, i miei ormai lucidi. «Sono incazzate perché non capisco il motivo di quell’acido. Capisco quando lo facciamo per divertirci insieme, quando vogliamo staccare la spina un po’, ma ora? Ora che senso ha Seth? Sei così infelice?». Avrei tanto voluto chiedergli se era infelice con me, ma mi morsi la lingua per ammutolirmi. Se ne rimase zitto. Mi divincolai sentendo il rumore dell’arrivo della metro e salii, incurante di Seth e dei suoi casini. Ovviamente salì anche lui, sedendosi nel sedile affianco a me. Io continuavo a guardare fuori dal finestrino i muri scuri sfrecciarmi affianco e lui continuava a starsene zitto e a guardarmi ogni tanto, per assicurarsi che non stessi piangendo.

Scendemmo alla fermata vicino casa e non mi voltai a guardarlo finché non chiuse la porta alle nostre spalle, sbattendola forte. Ormai l’acido stava facendo effetto, e io sapevo benissimo che in quel momento lui era nel sul paradiso personale, a vederci draghi parlanti o chissà cosa. Lo accompagnai al divano e feci per andarmene quando lui mi fermò mettendomi una mano sul sedere. «Rimani qui, dai», biascicò lentamente, a fatica.

Mi defilai e mi chiusi in bagno perché il dolore stava diventando insopportabile e io non sapevo come farlo andare via. Mi feci una doccia, indossai biancheria pulita e mi distesi a letto, le cosce strette per contenere il dolore, gli occhi chiusi per contenere le lacrime che da lì a poco sarebbero scese.

Mi svegliai, un tempo indefinito dopo, sentendo qualcosa cadere nell’altra stanza, quella in cui c’era Seth strafatto. Raggiunsi la stanza e lo vidi immobile a guardare il pavimento, un bicchiere di vetro rotto ai suoi piedi. Mi avvicinai a lui, abbassandomi per raccoglierlo, ignorando il suo stato di trance, ma un pezzo di vetro mi si conficcò sulla mano, facendomi imprecare. Mentre sciacquavo la mano sanguinante sotto il lavandino, sentii le mani di Seth appoggiarsi sui miei fianchi, la sua bocca baciarmi il collo.

«Non ora Seth», protestai.

«Mi puoi dire che cazzo hai oggi?» fu la sua risposta irritata.

Mi girai verso di lui, i volti a pochi centimetri di distanza. «Vuoi davvero sapere cos’ho, Seth? Hai dei debiti per la droga e non mi è ancora chiaro se sia una cifra alta e per quale cazzo di motivo ti droghi. Ho un maledettissimo pezzo di vetro in una mano perché tu non sai nemmeno impugnare un bicchiere, e ciliegina sulla torta, potrei avere una fottuta malattia venerea!», sbottai, esausta.

I suoi occhi mi guardavano inespressivi, come se il suo cervello stesse metabolizzando quello che avevo appena detto. Era così infatti, e lo sapevo bene, ma in quel momento ero troppo arrabbiata per pensarci. «Vaffanculo».

Che fosse stata un’idea sbagliata, mandarlo a fanculo, lo scoprii pochi istanti dopo, quando lo sentii entrare nella camera da letto in cui mi ero rifugiata di nuovo. «Lasciami in pace, ti prego lasciami in pace», dissi esausta.

Ma lui si avvicinò e mi strinse il viso con forza con le sue mani. Mi fece male, ma tacqui, continuando a guardarlo sperando ritrovasse la ragione. «Vedi che cosa significa fare la puttana? Ti ho sempre detto di smettere di farlo, Evie!»

«Mi stai facendo male», sussurrai.

«Bene, te lo meriti». Fece scontrare le sue labbra con le mie, e mi morse un labbro facendomi gemere. Inserì la lingua nella mia bocca, e mi baciò con prepotenza, continuando a premere con le mani sulla mia mascella. Faceva un male cane, quindi appena ci riuscii, fui io a mordergli il labbro e ridurglielo in sangue. Si staccò immediatamente da me, e io riuscii ad alzarmi e ad allontanarmi da lui.

Sapevo bene che prima o poi sarebbe tornato abbastanza cosciente da chiedere scusa, ma ora, nei suoi occhi, non vedevo nient’altro se non la rabbia, la delusione e la follia. Sapevo bene che era la droga, a fare quell’effetto, ma io ero troppo stanca per combattere, troppo stanca per ragionare, troppo spaventata per non fare qualsiasi cosa se non urlargli contro. «Devi smetterla cazzo! Sto male okay? Non so che cosa mi sono presa ma mi fa male. Ho preso la metro perché avrei fatto prima e perché camminare mi uccideva, perché sapevo che a casa ci saresti stato tu pronto ad abbracciarmi o portarmi da un medico. E invece con che cosa mi ritrovo, eh? Con una brutta copia di Seth fatto, aggressivo e che non vede l’ora di scoparmi. Vaffanculo, vai davvero a farti fottere e cercati un’altra persona con cui fare i tuoi giochetti da schizzato di mente, perché io mi sono rotta». Avevo le lacrime agli occhi come ogni volta che litigavamo, ma presi la sua felpa abbandonata ai piedi del letto e mi incamminai verso la porta. Volevo scappare da lui, da quella merda. Volevo scappare da me, soprattutto. Con la mano sulla maniglia lo sentii dietro di me. Sussurrò un debole «scusa» e mi attirò a sé, cingendomi la vita con le braccia. Mi appoggiai contro di lui, le lacrime che scendevano mentre fissavo la porta da cui volevo ancora fuggire per non tornare mai più. Ma non sapevo dove andare, non avrei saputo dove andare, perché tutto attorno a me era malato, era sbagliato, mi faceva soffrire e io ero solo una ragazzina di diciassette anni che era dovuta crescere troppo in fretta per cercare di sopravvivere. Cercare, perché dai risultati non ci stava riuscendo.

«Mi dispiace Evie», disse Seth al mio orecchio. «Con quella roba non mi controllo, lo sai». Non riuscii a rispondere, feci sono un movimento del capo dettato soprattutto dal singhiozzo che non ero riuscita a trattenere fra le labbra. Mi fece girare, ora lo guardavo negli occhi. «Scusami».

Sapevo che l’avrei perdonato, in quel momento e altre mille volte. Lo sapevo, era scritto nel mio dna che avrei amato quel ragazzo per tutta la mia vita, nonostante le nostre vite desolate, il male che ci facevamo, la droga, le botte. Sapevo che anche lui mi amava, e non so come, ma me lo facevo bastare sempre. Gli posai una mano sulla guancia. «Vai a dormire un po’, poi andiamo dal medico».

«Mi spiace averti chiamata puttana». Mi strinsi nelle spalle e lui appoggiò la fronte alla mia. «Sono innamorato di te, Evie e questo neanche la droga può farmelo dimenticare».

Avrei tanto voluto dirgli che l’aveva dimenticato, quando mi aveva chiamato puttana, perché io mi ero sentita morire dentro, come tutte le altre volte che l’aveva fatto, ma annuii e lo baciai sulle labbra per scacciare quella voglia di scappare dalla mia mente che stava urlando, stava urlando di andarmene via da quella vita, ma io rimanevo incollata a terra, spinta verso al suolo da tutti il fardello che portavo sulle spalle. Niente tregua per me, Evie Mcdonnell, mai.

 

 

 

 

 

Coff coff.

Io vi avevo avvisati che non sarei  riuscita a staccarmi da Evie e Seth molto presto, e infatti ecco qui. Questo è un missing moment di quegli anni di cui vi ho parlato molto velocemente nell’epilogo, quegli anni in cui hanno vissuto insieme e si sono fatti del male. Ho intenzione di scrivere più di un episodio, quindi questo è solo il primo. Spero la cosa vi faccia piacere, perché a me scrivere di loro piace così tanto che non so se riuscirò mai a smettere.
Fatemi sapere che cosa ne pensate, anche se dubito che qualcuno leggerà questa cosa malsana.
Deborah.

 
Ps: non rovinatevi l’idea di Seth e dell’amore che prova per Evie, imparerete solo a conoscerlo meglio, anche quando lui da del suo peggio.

  
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