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Autore: Camelia_Calliope    24/03/2013    1 recensioni
C’è un’aria che punge gli occhi e brucia i polmoni.
Lieve la fuliggine cade tra i roghi di Konoha.
Konoha è una pira funebre quella mattina.
Gli scheletri di legno sono stati sistemati al centro della città. Sono due oggi; il secondo più piccolo del primo - ogni volta è sempre più ampio.
Questa, è la quarta volta in una sola settimana.
L’aria, pregna delle ceneri funerarie, racconta del dolore e delle lacrime perse nel fuoco maledetto.
È una guerra senza fine quella che si consuma negli occhi di chi continua a vivere.
La cenere cade e continua a coprire.
Ma cosa?
Il villaggio è distrutto e della gloria di un tempo non resta che la grande montagna a est.
La storia e la salvezza del villaggio è racchiusa tutta in quella grande montagna; ultimo baluardo a difesa dal nemico.
E la cenare continua a cadere, rendendo tutto un po’ più grigio, un po’ più morto.
Genere: Guerra, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Sakura Haruno, Un po' tutti | Coppie: Naruto/Sakura
Note: Raccolta | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Naruto Shippuuden, Dopo la serie
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Fu un lento e graduale crescendo.
L’inizio – quello vero – nessuno fu in grado di coglierlo.
Io, semplicemente, presi fatto del cambiamento quando ormai era troppo tardi; se non fosse stato per lo improvviso aumento dei feriti, avrei continuato a restare cieca di fronte alla verità.
Eppure, erano solo questione di mesi, forse di giorni.

 
« Sakura … »
La giovane kunoichi dai capelli di primavera volse il capo parzialmente sciolto al suo interlocutore. Il volto pallido ed emancipato pareva una di quelle maschere di cera, dai lineamenti tipicamente immobili solcati dall’impassibilità e dalla polvere. Gli occhi – muti – guardavano l’uomo dinanzi a se senza davvero focalizzare la sua immagine.
Di fronte alle iridi verdi solo ombra e polvere.
« Sakura » riprese il buon Shikamaru con un evidente affanno.
L’uomo, provato dalla lunga corsa, piegò il busto in avanti sorreggendosi, in un equilibrio precario, attraverso i palmi, dalla cute secca e graffiata, accorati alle ginocchia divaricate. Grosse gocce di sudore attraversarono lentamente la sua fronte ampia, solcata in più punti da sottili ciocche di capelli neri sfuggiti alla stretta acconciatura.
Sakura rimase silenziosa e impassibile a osservare il volto del compagno contratto nella stanchezza; accavallò le gambe sottili, attendendo la fine di quello sfogo.
Shikamaru prese ancora fiato riempiendo i polmoni di nuova aria. Il respiro ansante e lento fu il solo suono udibile; ogni cosa venne soprafatta o soppressa.
Il rimbombo secco e asciutto che seguì il tonfo conosciuto di membra che cadono a terra, non riuscì a nascondere quel respiro ritmato; anche la polvere, che al contatto improvviso di un corpo estraneo decide di alzare le proprie membra inesistenti, non fu che un magro contorno al luogo e al tempo vissuto.
Passarono secondi, minuti? Forse ore?
Nessuno seppe dirlo.
Ciò che seguì fu molto confuso e precipitante. Sakura ricorderà una conversazione molto strana e sfocata nelle memorie. Probabilmente crederà quel giorno il folle risultato della stanchezza;
a dirittura – più probabile – il risultato della pazzia.
 
« Sakura! Vuoi rimanere lì ancora per molto? » Shikamaru sbuffò contrariato. Una ciocca scura gli infastidiva con una certa perizia il volto, oscurandogli parzialmente la vista di un’iride. Soffiò nel magro tentativo di scostarla dalla propria fronte accaldata.
Provò a piegate il collo, per far entrare nella sua ristretta visuale la figura della giovane kunoichi; ma fu inutile. Tutto ciò che riuscì a scorgere tra il rosso della sabbia battuta furono le gambe magre e bianche dalla donna, ancora perfettamente accavallate e immobili nella loro posizione.
Il ninja non poté che socchiudere le iridi scure, cercando di richiamate alla memoria la pazienza – già lungamente abusata.
Shikamaru piantò le braccia contro la terra arsa e rossa e servendosi di quelle esimie energie che ancora non avevano abbandonato le sue membra affaticate e infreddolite, issò il busto ansante.
Il corpo si mosse velocemente e le iridi mute di Sakura rimasero immobili a osservare il movimento ritmico dal busto del ninja che si alzava e abbassava con naturalezza costante.
Le iridi verdi guardarono quegli stessi gomiti tremare visibilmente ma continuare con caparbietà a sostenere quel peso solo apparentemente superfluo.
Il sudore sulla fronte di Shikamaru s’intensificò e grosse gocce attraversarono con movimenti fluidi le tempie ampie dell’uomo, cadendo progressivamente tra la polvere secca e consunta.
« So benissimo che la tua attenzione al momento è piuttosto richiesta … » Shikamaru non ebbe l’onere di continuare poiché le sue braccia, ricoperte fin dai gomiti dalla polvere, in fine cedettero costringendo il ninja a riallacciare nuovi contatti con la fredda e sterile terra dura.
L’uomo sbatté tanto duramente la testa che l’elastico, che fino a quel momento teneva i capelli – seppure debolmente – ancora legati, con uno schiocco secco si ruppe. La chioma cadde lungo la schiena in ciocche lunghe e disordinate. Il colore – un tempo nero e lucente – si mischiò con la polvere impalpabile, assumendo lentamente contorni più sbiaditi e consunti.
Shikamaru a fatica alzò una mano, malamente fasciata, per portandola con una lentezza snervante alle tempie. Le massaggiò con perizia, adoperando movimenti circolari e lenti.
Le labbra screpolate e tagliate parvero non muoversi nemmeno.
« Il fronte sta cedendo; questione di giorni – forse un mese – e anche le porte Ovest cadranno … »
Sakura allungò il collo niveo in direzione del ninja riverso a terra. Conosceva già la sua richiesta e non le serviva il magro sforzo del ninja per ammetterlo.
« Occorre Sasuke dietro la difesa … - lo interruppe prima ancora che il ninja avesse la possibilità di schiudere le labbra secche - … ma non sono io la persona cui devi chiederlo »
Sakura flesse le lunghe gambe, sciogliendole dalla loro posizione statica. Prese fiato e con un movimento rapido si alzò in piedi volgendo le spalle sottili al ninja steso a terra.
Shikamaru non osservava i suoi movimenti poiché già occupato – non avrebbe potuto comunque visto la distanza tra le loro due figure. Le iridi esauste e immobili – troppo mature perché appartengano a un uomo non ancora trentenne – guardavano senza focalizzare davvero il cielo dinanzi a loro.
Le nubi dense e scure vietavano la vista al sole ma Shikamaru s’illudeva di poter sentire ugualmente sulla propria pelle il suo calore; come il più stolto degli uomini che s’illude nella più fosca delle utopie.
Chiuse gli occhi decidendo, ancora una volta, di preferire essere il più stolto degli uomini.
« Se non tornerà, Sakura … – le sue parole si persero tra il riverbero del vento – … Konoha cadrà! »
 
Parole dure e letali;
parole dirette e precise;
parole giuste e terribilmente sbagliate in un’unanimità.
 
 
 

Terzo intermezzo
Morte
 

 
La polvere il sangue le mosche e l'odore
per strada fra i campi la gente che muore
e tu, tu la chiami guerra e non sai che cos'è
e tu, tu la chiami guerra e non ti spieghi il perché.

 
 

Le grandi mura vennero giù in un unico e fluido movimento. Si frantumarono in miriadi di schegge di legno secco e di porosa pietra ocra. La piana – nuda e sterile – ne fu invasa, e tutti rimasero accecati per qualche istante. Polvere e cenere coprirono quel che restava delle imponenti costruzioni. La torre Est, orgogliosa, continuava con sforzo e tenacia a resistere a un innastabile declino verso la terra madre. Come pioggia salata la sua pietra chiara precipitava al passo; il sinistro e macabro puzzle della distruzione, lentamente, andava formandosi.
Ci vollero diversi minuti perché gli occhi – muti e grigi quanto quelle stesse ceneri mortuarie – dei primi supersiti potessero guardare oltre le ombre distorte e ingannatrici della polvere. Essa con lentezza pari a quella di un’incantatrice esotica si posò al suolo; mai sguardi più angosciati e spaventati poterono posarsi su un simile spettacolo.

 
 
Le grandi porte a Ovest non c’erano più.
Avevano tenuto per quasi cinque anni, frapponendosi con ferocia e costanza al dolore e alla cenere mortuaria; avevano tenuto le redini della pazzia, tendendo le proprie mani e indirizzando piedi e iridi in una luce che quello stesso popolo massacrato e ferito non credeva più reale.
 

Molti urlarono, e il loro parve il latrato di una bestia morente. I ninja delle terre unite chinano il volto esangue e livido, celando alla realtà le iridi spaventate e rassegnate. Tonfi secchi e ovattati di membra vuote di volontà si udirono per i successivi minuti. Quelli in ginocchio portarono i palmi graffiati e lordi al volto, celando alla luce fioca e fredda del sole – che non abbastanza si celava alle ombre della pazzia – le proprie vergogne di sale. Quel giorno, uomini sili non alzarono oltre volto.
Ci fu altro.
Uomini in cui ancora vigeva l’ostinazione e un fervido pugno di nudi ideali – o forse sarebbe più appropriato dire la pazzia – impugnarono le armi e sebbene alcune lame fosse smussate e rotte, camminarono verso le porte vuote – abbattute – lì dove il nemico attendeva la sua vittoria.
Dopo fu semplicemente un massacro.

 
 

Sakura – la kunoichi, il medico – pianse.
Con le gambe che le dolevano e la volontà che combatteva per soccombere, si trascinò fuori dalle salme mute delle porte Ovest. Brandì una spada a un soldato caduto e combatté, senza speranza. Non voleva sopravvivere in un mondo senza ninja, e senza Konoha.

 

La donna piegò il polso affondando con un gesto rapido il ferro lordo nella carne del nemico. Fu un colpo brutale. Il vermiglio del sangue uscì a flutti dal petto dell’uomo macchiando la terra già intrisa di vita.  Il corpo già freddo dell’uomo cadde a terra in suono secco che tra il clangore delle spade non si poté udire. Le foglie secche e macchiate fecero gli ultimi ossequi a salma spezzata, attutendo la sua caduta e accompagnando quell’ultimo respiro all’oblio.
 
 

Dopo più di cinque mesi, Sakura aveva ripreso in mano un’arma. Era da dopo che Naruto era entrato in coma che Sakura non superava le barriere protettive intorno al villaggio e al campo ospedaliero. Insieme al ferro della lama rovente le sue mani avevano anche dimenticato – in limbo d’illusione e utopia – la consistenza vischiosa e nerastra del sangue versato rabbiosamente.
Si era spogliata del sangue e delle armi e dimenticato la sua veste di guerriero e indossato quella della guaritrice.
Lei – la kunoichi caparbia, quella che affianco all’Uchiha vendicatore redetto e all’ultimo degli Uzumaki, non era un effimero abbellimento – aveva accantonato anni di sacrifici e di scelte.
 
Era entrata in accademia perché sospinta dai suoi genitori[1]. Non altro che umili mercanti, essi per tutta la loro vita, stringendo i denti gli uni contro gli atri, combatterono per se stessi, per trovare anche un esimio posto in una società di ninja e di guerra. E questo lo fecero per Sakura, per quell’unica e gracile figlia. Per lei non desideravano altro che l’effimero sogno di un futuro ricco. Che il nome, donato timidamente – anche per gioco – rivelasse la scia per una nuova primavera.
Per gioco l’avventura della piccola Sakura era diventata la strada del suo destino, la medicina non altro che parte di esso.

 
 
Sakura piegò le ginocchia, chinando in avanti il busto. La mano fuggì a stringere la bocca lì dove le labbra erano già serrare in maldestro tentativo di trattenere un connotato. Le ciocche chiare, sfuggite alla coda alta sfatta, le scivolarono sul volto pallido. Alcune seguirono a nascondere le palperebbe serrate in un’unica cicatrice di dolore e disgusto. Tese il collo bianco, stringendo tra i denti la carne delle labbra; il mondo in torno a lei muto.
 
 

Il clangore della battaglia e i gemiti di dolore erano soffusi richiami tra il frastuono della mischia, solo un esimio fischio nelle orecchie; gli occhi, nascosti da una patina di lacrime e polvere rossastra, restavano ciechi dinanzi al sangue – sui suoi vestiti, sui suoi capelli, sulle sue armi.

 
 
Cadde a terra producendo una densa nuvola di polvere attorno a se. Le ginocchia graffiate, a contatto della terra ricolma di frammenti di armi spezzate e lorde, emisero un sordo scricchiolio; la mano destra, sporca di succhi gastrici e sangue, raggiunse le gambe nel tentativo magro di un sostegno. Le cosce ferite e lasciate esposte dai tagli presenti sulle brache di foggia maschile, a stento riuscirono a distinguere la leggerezza dei capelli sulla pelle dal viscidume del sangue mischiato alla terra.
 
 

Il cuore batteva; forte, impetuoso.
Quel rumore continuo e assordante nel proprio sterno ebbe il potere di distogliere Sakura. Non sentì i passi frettati e traballanti avvicinarsi a lei, lenti ma inarrestabili; non sentì lo stridere di un’arma tolta dal suo fodero di carne e sangue.
Bastò un attimo.

 
 
Sakura distolse gli occhi dalle proprie mani immerse nel plasma rappreso nella polvere e nella terra arsa, il capo sciolto, mosso dal collo pallido, seguì le sue iridi. Sospirando, lentamente la giovane kunoichi chiuse le labbra sporche trattenendo in gola un nuovo connotato. La fronte ampia, vestita dal sudore salato che insistente forzava le lunghe ciocche sciolte sulla cute accaldata, era attraversata da profonde rughe coperte in parte dal sangue di leggere ferite da taglio. Le tempie erano un continuo dolore insistente; un tutt’uno con i gemiti disperati delle proprie membra affaticate. Mai come in quel momento il confine della pazzia le sembrava tanto vicino; mai prima di allora aveva desiderato con tanto ardore e tanta insistenza passare quel confine.
 
 

E le lacrime ripresero il loro corso; crudeli predatrici.
Le cacciò indietro combattendo contro quell’assurdo e straziante vuoto che sentiva nel petto, sempre più grande e più pesante. Aveva illuso se stessa di un cambiamento; il fantasma di quella sciocca e fragile ragazzina egoista estirpato dal suo corpo.
Aveva creduto che la tenacia e l’ostinazione l’avrebbero potuta rendere una persona diversa, più forte. Non solo un bell’ornamento ma un sostegno; forte e invalicabile.
 
Avrebbe fatto meglio a nutrire la saggezza.

 
 
Il riflesso del ferro lordo, stretto ancora tra le dita tremanti ma insistenti e ferree sulla presa, della sua mano sinistra, diede alle iridi socchiuse della donna l’immagine di un’ombra di morte e terra marchiata. La lama, lorda della carne fraterna e amica, brillava flebile nella mano nemica. Avanzava il mercenario ma Sakura non aveva le forze per opporsi, né il desiderio.
Immobile attendeva il sonno eterno.
 
 

Quante lune erano trascorse dall’ultimo dei suoi sonni quieti?
Quante ancora ne sarebbero dovute passare prima di riportare a se il candore dei suoi sogni da bambina?
Di notte, non dormiva mai; non ci sarebbe mai riuscita.
 
Frustrazione
Paura
Dolore
Rabbia
Compassione
Terrore

Disperazione
Colpa
Carne
Sangue
Morte
 

A volte le sembrava ancora di sentirlo scorrere tra le proprie dita il viscidume di quel film nerastro che incurante bagnava le vesti stracciate e i capelli sciolti. E i bagni alla fonte non erano mai abbastanza quando sulla propria pelle si portava il crudele marchio della morte. La bile correva veloce lungo la sua gola e il dolore era sempre maggiore quando la battaglia da disputare non era solo contro il disgusto del proprio stomaco ma anche contro la debolezza dei propri occhi di ragazza inutile; l’amarezza, allora, diventava il veleno più temibile e abusato.
 
 

Sakura piegò il collo nascondendo il volto sotto i lunghi crini. Le lacrime, mute e inarrestabili, conquistarono il posto che le spettava. Come lava il corpo leggero e puro della rugiada cominciò a correre lungo il profilo scarno e sporco della kunoichi, innastabile il fiume del dolore e della disperazione scene a bagnare - a lavare - le tracce insistenti della morte da quello stesso viso contrito. Sakura non le fermò né cercò in alcun modo di arginare la loro corsa. Immobile e piegata sulle ginocchia lasciò al suo dolore la comparsa che da tempo attendeva.
Lentamente anche i singhiozzi riaffiorarono sulle labbra sporche e ferite. Non fermò nemmeno quelli.
 
 

Faceva male, ma ormai nulla aveva più nessuna importanza. Era forse il segno che la pazzia che, infine, stava prendendo possesso delle sue stanche membra strascicanti? 
Che vergogna.
Ma, cos’altro aveva più importanza ora?
Il dolore, la tristezza, l’angoscia, ma anche la felicità, l’orgoglio, l’amore cos’erano di fronte al nulla?
Palliativi?
Chimere effimere e crudeli?
Recite costanti?
Cos’era stata la sua vita? Chi fu Sakura Haruno, la coraggiosa, la caparbia, il medico?
 
Niente.
Sciocca e innocente bambina, non avevi mai smesso di credere alle belle favole.

 

 
L’assassina d’argentò ferì l’aria, avanzando in direzione del corpo riverso a terra della kunoichi dalla chioma di primavera. Per un attimo il clangore delle spade parve soffocato dai singhiozzi incessanti che feroci squassavano le dolci membra della donna.
L’ombra guardò a lungo il capo nascosto dalla folta chioma sciolta; le spalle, scosse dai tremiti di un pianto mal trattenuto, tremavano visibilmente sotto un asfissiante torpore di carne e sangue. La mano destra restava inerme lungo il fianco magro, mentre la sinistra stringeva in una morsa morbosa delle dita scarne e ferite, una spada smussata e lorda.
 
Era inerte la mano; inerte il ferro letale.
Insieme attendevano il sonno dei caduti.
 

 

L’oscura signora non attendava gli addii; come la più avida tra le predatrici, essa agiva come sollecitata da un’improvvisa e irresistibile passione. Spavalda prendeva senza chiedere; crudele pretendeva senza remore.
La sua figura, strascicante e cadente, avanzava tra le macerie di un mondo alla deriva; spezzato. I piedi scalzi scalciavano contro i ruderi di una città dimenticata e sepolta sotto grumoli di dolore e cenere.
 Procedeva silenziosa tra la morte e la desolazione, muovendo quei palmi scorticati dai frammenti di legno e ferro –
Al sangue nuovo la Madrenon faceva nemmeno più caso;
tanto nuda e sterile.
Di notte ci si poteva illudere di scorgerla tra i corpi martoriati. Tra i fuochi dei roghi sempre più numerosi e le nebbie velate di lacrime soffocate era possibile vedere la sua veste che, scura e logora quanto quella del più umile tra i reduci, moveva lenta i suoi drappeggi d’ombra ai suoi movimenti.
Era un demone nero che nel silenzio dei gemiti sussurrati tendeva le sue estremità sulle nostre teste, gli artigli lordi e vischiosi a sfiorare le membra compagne e nemiche.

 
 
Sakura chiuse gli occhi lasciando che i sui palmi scorticati fuggano a stringere le braccia infreddolite. Avrebbe potuto colpirla persino la fiamma nera, il suo corpo in quel momento avrebbe continuato a essere ugualmente freddo quanto il più pallido dei cadaveri disseminati per la valle sterile.
La pelle toccò l’acqua.
 
Fu pioggia?
Forse rugiada.
 
La terra sterile e nuda la accolse bevendone la linfa come se fosse vita e cura a unanimità. La bocca secca e vogliosa piegò le proprie labbra ad accogliere le gocce figlie che leggere e spinte le une dalle altre abbandonavano la propria casa di nebbia e fumo.
Fu l’avidità degli esseri viventi che li porta a desiderare anche ciò cui non si è destinati?
Un folle gioco per sconfiggere la Madre?
Forse, semplicemente, fu il magro tentativo di un’anima ferita dalla speranza e troppa a lungo dedita a cibarsi di utopiche chimere a sconfiggere quel maligno stato di sterilità che il destino – imberbe e maligno come solo un bambino può essere – le aveva concesso.
 
Quanto ancora a lungo avrebbe continuato a stringere tra le sue cosce steppa bruciata e polvere scura, muti testimoni di tanti bambini mai nati?
 
Allungò le proprie mani di sangue e viscidume la madre immobile, ponendo sul capo sciolto, scosso dai tremori e dai singhiozzi innastabili, le membra confortevoli e materne. Come la più commossa delle spettatrici, che silenziosa assiste al più futile tra i drammi infantili di un’ingenua quanto sincera disperazione, ossequiò il segreto.
Nessuno avrebbe mai conosciuto compreso la provenienza di nebbia e fumo di quelle gocce di rugiada.
Sakura ringraziò tra i singhiozzi; la pioggia continuò a cadere bagnando la terra arsa e la pelle fredda della kunoichi dai capelli di primavera, che stretta al seno caldo di quella madre razziata e rapita, sussurrava perdono.
 
 

Con quel calore accanto, la morte non avrebbe più fatto timore.
Forse …
 
« Qualunque cosa accada, promettimi che vedrai la fine di questa guerra »
 
Il riflesso sì un ricordo, tanto lontano da sembrare l’illusione di un sogno, la colse impreparata.
Ne fu spaventata e per un po’ rimase immobile e impotente a osservarlo, turbata dall’intensità con cui l’aveva smossa dai suoi pensieri. Quando esso fuggì, percorrendo strade infinite e immaginarie, lo seguì, traendolo a se dopo ogni fuga; in una giostra eterna avrebbe perdurato quei gesti fino a quando, vincitrice, non lo avrebbe finalmente stretto tra le mani.
 
Sakura spostò le proprie iridi dai fascicoli che stava esaminando. Il verde dei propri occhi incontrò presto il cielo di quelli di Naruto che in piedi e immobile davanti a lei, la osservava con un’espressione in volto che solo poche volte potrebbe giurare di aver scorto.
Lo osservò a lungo, basita e confusa, fino a quando, messa a disagio dalla serietà di quei lineamenti immobili, rivolse nuovamente l’attenzione alle carte aperte sulla semplice scrivania di legno grezzo.
L’attenzione e la perizia nello studio, questa volta, avrebbero potuto figurare quelle di un bambino di pochi anni.
« Naruto, so che in questo momento questo – proruppe indicando i fogli tra le mani – ti sembrerà superfluo ma credimi è ciò che più occorre. Se vuoi importunare qualcuno, ti prego di rivolgere le tue attenzioni altrove poiché io sono occupata »
Sussurrò, quasi sillabando le ultime parole senza spostare mai i propri occhi dalle mani, immobili sul grembo.
Naruto sospirò alzando gli occhi ceruli al cielo nebuloso. Prendendo fiato schioccò la lingua al palato aprendo nuovamente le labbra carnose.
« Tu vivrai, qualunque cosa accada. Promettimi che vedrai la fine di questa guerra »
Sakura cominciava seriamente a spaventarsi.
« Hai sbattuto la testa? »
Naruto corrugò pericolosamente il sopracciglio destro mentre una profonda ruga andava formandosi in mezzo alla fronte abbronzata.
Fece per aprire bocca ma fu interrotto.
« No, non parlare! Hai ragione, in fondo la tua testa ha sempre avuto qualche problema »
Sakura mosse appena le spalle magre chinando nuovamente il capo sulla scrivania in noce. La mano destra fuggì accostando le dita ossute ai bordi consunti dei fogli non più bianchi.
L’urlo che seguì ebbe il potere di distoglierla totalmente dalla burocrazia.
«Alza immediatamente quella testa e ascoltami, Sakura »
Come un automa obbedì, le lunghe trecce rosa rimbalzarono al movimento delle proprie spalle. Qualche ciocca fuggì all’intreccio ma non se ne curò. Naruto, di fronte a lei, ansimava respirando lentamente per calmare l’ira mal trattenuta. Ancora basita la kunoichi dalla chioma di primavera non si accorse immediatamente dei suoi movimenti. Seppe solo che prima di avere in mente un chiaro motivo di un simile comportamento, improvvisamente Naruto le era accanto, inginocchiato al fianco della propria sedia.
Osservò il suo sorriso mortificato per un tempo che non seppe identificare prima di arrossire e muovere il collo nel lato avverso alle iridi cerule del ninja.
Una ciocca chiara le cadde in fronte scendendo a nasconderle parzialmente l’iride sinistra. Naruto, con una naturalezza improvvisa, gliela scostò con un gesto tanto tenero quanto impacciato.
Le sue mani a contatto della pelle della kunoichi erano fuoco.
« Scusami, ma i tuoi occhi sono troppo belli perché siano nascosti »
Anche quelle parole erano nuove.
Sakura arrossì movendo il collo niveo in uno stentato e imbarazzato gesto di gratitudine.
« Che cosa volevi dirmi di tanto urgente? » Disse con la gola secca.
Naruto annuì alzandosi in piedi.
«Questa guerra dura ormai da troppo tempo »
Iniziò volgendo gli occhi nella direzione opposta alla kunoichi che chiudendo le palpebre, mosse le labbra in un sorriso caustico.
« Non è certo una nuova questa » Disse con voce incolore.
Naruto parve non ascoltarla, infatti, continuò il suo monologo riprendendo rapidamente parola.
« Promettimi – un respiro lungo e trattenuto, come a infondere coraggio a quelle parole senza bandiera – promettimi che vivrai abbastanza da vedere la fine di questa guerra »
I suoi occhi ora, di nuovo, osservavano quella donna che ancora seduta continuava con un’ostinata perizia a lasciare che il proprio volto fosse celato dalle cicche libre dall’intreccio dei capelli. Le sue mani erano nuovamente strette all’altezza del grembo piatto e le lunghe dita dell’una movevano la loro consistenza di ossa e cartilagine su quelle gemelle dell’altra in un’intensa quanto eterna lotta.
Mordendosi con i denti il labbro inferiore Sakura mosse il capo cercando con la coda dell’occhio il suo sguardo; nascosta, lo fissò confusa e spaventata.
« Sta succedendo qualcosa di cui devo essere informata? »
Sarebbe dovuto apparire un avvertimento caustico e inquisitorio ma in quel momento, causa le incertezze di quella folle quanto improvvisa richiesta, causa il vuoto lasciato da quelle stesse incertezze, causa il timore di un significato che preannunciava un futuro di cui, infondo, aveva sempre sospettato una possibile realizzazione ma che mai – mai – aveva realizzato quanto utopica forse la sua realizzazione non fosse – quel timore, che, sordo alle suppliche e prepotente quanto il dolore, si era fatto strada nella sua mente, impossessandosi delle sue membra e prendendo corpo in una carne e in una pelle che lei stessa stentava a definire proprie e che ora, di fronte al dubbio al vuoto di un’utopia che forse non era tale, le sembravano semplicemente il futile e debole involucro di un’entità spaventata e celata che si pronunciava alla vita in un urlo muto e miserabile – in quel momento, ciò che le sue labbra sussurrarono fu un’inutile supplica infantile.
Naruto ignorò quell’urlo, piegando il capo da un lato e increspando le labbra in un sorriso piatto mentre Sakura, ancora immobile lo osservava muovere i primi passi nella sua direzione.
« Prometti » Ripete il ninja biondo; la distanza tra i propri corpi nuovamente ridotta.
« Prometto » Sussurrò incerta Sakura, in un trascinato balbettio appena udibile; l’entità di dolore e solitudine nel suo cuore di nuovo celata alla sua coscienza e rinchiusa nella stessa cella di carne e sangue da cui era fuggita.
Naruto le sorrise teneramente ponendole una lieve carezza sulla guancia magra. Le baciò la fronte ampia prima di lasciare l’aula spoglia.
Sakura quel giorno non poté più continuare con la burocrazia.

 
 
L’assassina d’argento ferì l’aria, chinando il proprio spettro d’ombra sulla schiena immobile della kinoichi; le sue spalle avevano smesso di essere scosse dai singhiozzi. La luce del sole illuminò per l’ultima volta la lama insanguinata dall’arma donandole per l’ultima volta le vestigia d’argento; si mosse ancora raggiungendo la sua preda.
 
 

Perdonami.
 
Un sussurro dato a un ricordo di nebbia e capelli d’oro; il sorriso delle iridi cerule dell’ombra parve essere luminoso ancora più il solo del cielo di primavera.
 
Le lacrime ripresero il loro corso.

 
 

In cielo il corvo, rapido quanto l’ombra che immedesima, agguantò con un unico e fluido movimento la sua preda che gridando e movendo le membra lacerate dagli artigli abbandonava la vita. L’indifesa preda del cacciator sconfitto grata al corvo fuggì non prima, tuttavia, di aver ossequiato il nobil animale oscuro di un doveroso inchino.
Il corvo riprese il volo, confondendosi in breve tempo con le tenebre di nebbia della ancor lontana notte.

 


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