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Autore: cullen92bella    28/03/2013    0 recensioni
Avevo pubblicato in precedenza questo capitolo. Ho apportato qualche revisione, prima di proseguire con i capitoli successivi. Non svelerò nulla riguardo alla trama. Posso solo dire che si tratta del genere di racconto che calza a pennello per chi è alla ricerca di sentimentalismo (: Mi rivolgo a voi cari lettori, a cui chiedo di dedicare parte del loro tempo nella lettura di questa storia. Aspetto con ansia le vostre opinioni. Via alle recensioni!!! Un bacio :D
P.S : Colgo l'occasione per fare i miei più sentiti auguri di una serena Pasqua a tutte le lettrici, aspiranti scrittrici e realizzatrici di questo fantastico sito. Ottimo trampolino di lancio per chi, come me, desidera farsi sentire!!!!
Laura
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Un intenso aroma invase la mia camera da letto. Uova fritte? Di recente, avevo accumulato ben poche ore di sonno. Così decisi che mi sarei trattenuta a letto ancora un po’. Ma il mio desiderio di recuperare parte del sonno perduto, fu immediatamente infranto dal ritmo incalzante di quell'aggeggio infernale. Allungai il braccio, intenta a trovare il pulsante che l'avrebbe messa a tacere. Lo premetti, estenuata. Quando aprii gli occhi, fui costretta a strizzarli. Il bagliore prodotto dal sole era accecante. Dovetti battere più volte le palpebre, prima che mi abituassi a quella luce. Quella mattina era così luminosa, che mi venne voglia di affacciarmi alla finestra. Alzai gli occhi al cielo, ma me ne pentii all'istante. I miei occhi bruciarono quando incrociarono l'imponente punto di luce che si stanziava al centro esatto dell'orizzonte. Ma ero riuscita a scorgere quanto bastava. Il cielo era di una tinta turchese, senza nuvole all'orizzonte che minacciavano di deturparne la bellezza. Insolito scenario per una tipica giornata di Settembre. Una sferzata di vento mi contraddisse all'istante. Ad ogni stimolo nervoso, il mio corpo rimaneva teso ed irrigidito. Il torpore della notte non si accennava a lasciarmi. Così mi sgranchii per bene, rimettendo in moto i miei muscoli assopiti. Feci qualche passo, e mi accostai al letto. Il mio sguardo cadde sulla vecchia copia del mio romanzo preferito. La copertina era sbiadita, le pagine ingiallite. Mi dissi che al più presto avrei dovuto procurarmene una ridotta in uno stato meno pietoso. Lasciai scorrere le pagine, e l'odore a me tanto familiare, mi stuzzicò il naso. Mi ricordò la ragione per cui mi ostinavo a non volerlo sostituire. Quel libro aveva una storia, e nei lunghi pomeriggi in cui mi ci ritrovavo assorta, diveniva anche la mia. Mi ero spesso cullata negli scenari rassicuranti dei miei racconti, tanto che a volte mi sembrava di farne parte. Ma poi, quella vocina tanto silenziosa quanto rumorosa che è la mia coscienza, mi rimetteva puntualmente coi piedi per terra. Ultimamente, ci davamo appena del lei. Negli estenuanti dibattiti che vedevano la mia razionalità contrapporsi al mio cuore, lasciava sempre che fosse la prima ad uscirne illesa vincitrice, riducendomi ad un automa privo di emozione. In realtà, è proprio grazie a questa forma di apatia, che l'amara malinconia della mia esistenza non aveva avuto la meglio. In fin dei conti, dovevo ringraziarla. Grazie a lei, avevo trovato in me le energie sufficienti per sopravvivere, seppur a stento. Scoprii in me una forza insospettabile, alla quale non avevo mai fatto appello. I giorni divennero una sequenza temporale inesauribile, ma nessuno di essi aveva tanta importanza da finire in quella sezione del mio cervello addetta ai ricordi. Il mio impegno maggiore consisteva nel tener insieme tutti quei piccoli frammenti incapaci, come me, di ricomporsi alla loro totalità. La mia coscienza aveva attivato una sorta di meccanismo di difesa. Così, se ne andava in giro con una grossa insegna luminosa con su scritto : ALT, PERICOLO. Mi era severamente vietato anche solo avvicinarmi a quello spazio troppo doloroso a cui la mia coscienza si rifiutava di avere accesso. Così mi crogiolavo in quella nuova piega che aveva assunto la mia esistenza, con un piede nella realtà e due in quel regno della finzione e dell'apparenza il cui motto era : "Sfoggia il migliore dei tuoi sorrisi, e cammina a testa alta che la vita va avanti". Peccato che persino il migliore dei suoi sostenitori aveva smesso di crederci. Persa in questo vortice di pensieri che mi affollavano la mente ,non mi ero resa conto dell’ora. Mi catapultai in bagno. Mi diedi una rapida occhiata allo specchio. Caspita, i postumi di una notte insonne non possono certo nascondersi. Mi bagnai il viso con dell’acqua fresca, il cui sollievo mi spinse a fare lo stesso con il resto del corpo. Alla fine decisi che la cosa più saggia da fare fosse lasciarsi andare ad una doccia. Aprii l’acqua calda, che mi scivolò sulla schiena concedendomi una sensazione deliziosa. La fragranza floreale del mio shampoo, invase l’abitacolo. Quando terminai, più in fretta di quanto avrei sperato, mi avvolsi in un grande asciugamano. Esitai un istante davanti alla mia cabina armadio, valutando cosa fosse più appropriato indossare il primo giorno di scuola. Mi soffermai ancora. Si trattava di un giorno importante. Il primo giornodel mio ultimo anno al liceo. Sapevo che a questa riflessione ne avrebbero seguite altre riguardo le scelte future e così le ricacciai indietro, cosciente che si trattava di qualcosa di troppo impegnativo per essere solo le 7 del mattino. Scelsi di corsa gli abiti che avrei indossato. Incerta sul clima, afferrai una camicetta leggera color prugna e i miei jeans preferiti, seguiti da un comodo paio di ballerine dello stesso colore della camicetta. Fissai nuovamente la mia immagine riflessa allo specchio e notai un certo miglioramento. Liberai i miei capelli dalla coda nella quale li avevo raccolti e loro mi ricaddero sulle spalle. Affondai senza pietà la spazzola tra i nodi, decisa a districarli. I miei lunghi capelli color miele ripresero la loro naturale piega, incorniciandomi il volto con le loro onde sinuose. Poi passai al viso, dovevo fare qualcosa per quelle ombre violacee piuttosto marcate attorno agli occhi. Confidai nel potere dei cosmetici. Il risultato complessivo non era male. Le mie gote risplendevano rosee grazie all’intervento del trucco, ed i miei occhi nocciola parvero riacquistare parte della loro luce. Si udiva qualcuno conversare al piano di sotto. Scesi le scale.
“Sei troppo apprensiva con lei, Emily. Sai che Kate non è più una bambina.”
“Lo so che non è più una bambina, Leonard. Assicurarsi che la propria unica figlia abbia di che nutrirsi per pranzo, ti sembra troppo?”
Intanto io ero giunta in cucina.
“Buongiorno mamma. Giorno Leonard. “  Entrambi mi rivolsero un sorriso dolce. Mia mamma mi fece l’occhiolino in segno d’approvazione. Probabilmente si riferiva al mio vestiario. Leonard invece, come di consueto, mi scrutava in silenzio. Lui era il compagno di mia madre ormai da qualche anno ed io mi ci ero affezionata, ma il nostro rapporto non partì esattamente con il piede giusto. Quando fece il suo ingresso, non tolleravo che un perfetto estraneo si intromettesse nelle nostre vite turbandone l’equilibrio e men che meno avrei permesso che si sostituisse a mio padre. Tuttavia, mia madre dovette farmi ricredere. Sin dal momento in cui lo conobbe, scorsi nei suoi occhi qualcosa di diverso, quasi fossero stati attraversati da una scintilla, scintilla che credevo andata perduta per sempre. Così, concentrai tutte le mie forze pur di considerarlo sotto tutt’altra luce, ripetendo a me stessa come un mantra che se l’aveva scelto una persona straordinaria come mia madre, non poteva essere tanto male.  L’incredibile forza esercitata da un autoconvincimento insieme alle premure di Leo, gli conferirono il titolo di membro onorario della famiglia.
Una volta entrata in cucina, mi resi conto di avere una fame da lupi. Mamma e Leonard erano immersi in un acceso dibattito. Conscia che non badassero a me, afferrai una tazza dalla credenza, e ci versai del latte al suo interno. Poi presi dalla dispensa una scatola di cereali. Senza badare a quali fossero, infilai la mano al suo interno e ne estrassi una manciata che lasciai cadere nella tazza. Mi trascinai fino al tavolo. Mi sedetti al mio posto e mi buttai a capofitto sulla mia colazione, mandando giù una cucchiaiata dietro l’altra. Finiti i cereali, bevvi un bicchiere di spremuta d’arancia tutta d’un fiato.  
“Io esco. Buona giornata.” Mi diressi verso di loro per schioccargli un bacio in guancia, nella speranza che mi lasciassero andare senza indugio.
“Aspetta, Kate! Non volevi mica andartene senza questo?” Disse mia madre, sventolando una busta confezionata con cura. Leonard la guardò di sottecchi con fare apprensivo e mamma gli restituì un’occhiataccia.
“Quello sarebbe il mio pranzo? Potevo prepararmelo da sola, mamma.”
Dai suoi occhi lessi che le dispiaceva. Infondo, ero la sua unica figlia, il suo era un comportamento più che comprensibile. Si trattava solamente di un gesto carino, non volevo credesse d’aver commesso uno sbaglio. Così, cercai di rimediare.
“Mamma, sei impossibile. “ La abbracciai e le sussurrai all’orecchio “ Ti voglio bene.” Ancora avvolta nell’abbraccio, liberai una mano alle sue spalle e salutai Leonard, che mi sorrise con il solito fare timido ed introverso.
Bastò tanto a far tornare il sorriso a mia madre. Esaurito il senso di colpa, mi voltai, diretta verso la porta d’ingresso. Quando varcai la soglia di casa, il sole mi costrinse ancora una volta ad abbassare gli occhi. Percorsi il vialetto di casa, alla ricerca della mia auto. Poi intravidi la sua fiancata argentea, segnata da una linea rossa piuttosto marcata. L’estate scorsa, quella in cui presi la patente, Leonard mi diede delle lezioni di guida. Al termine della prova, mi disse di parcheggiare la mia macchina in un angusto spazio tra due automobili, una delle quali aveva una carrozzeria rossa, la stessa che ho urtato e che ha rigato la portiera del passeggero della mia auto. Il ricordo mi fece sorridere, anche perché continuo ad essere un impiastro. Grazie al cielo, mi limito ad inciampare, senza causare incidenti stradali. Frugai nella mia borsa, alla ricerca delle chiavi. Come al solito, l’ingente quantità di cianfrusaglie che riuscivo ad accumulare lì dentro, mi erano di ostacolo. Ci impiegai due minuti buoni, prima che le mie mani afferrassero il ciondolo metallico al quale erano agganciate le mie chiavi dell’auto. Le inserii nella serratura ed aprii la portiera. Giunta all’interno dell’abitacolo, repressi l’oramai solito moto di pianto, affondai il piede nell’acceleratore e sferzai lungo le strade di Greytown, la piccola provincia nella quale mia madre si era trasferita alla mia nascita e nella quale io vivevo da allora. Azionai i tergicristalli, che catturarono e spinsero via il cumulo multicolore che si stanziava sul mio parabrezza. Tirava un vento leggero, e le foglie mi svolazzarono tutte intorno, fluttuando in una sorta di danza . Amavo questo posto circondato di verde, che brulicava di vita. Amavo soprattutto la stagione autunnale, promemoria che per ogni cosa che muore, ce ne è una che rinasce. Rimanevo incantata dinanzi allo scenario pittoresco che l‘autunno regala, con le sue tinte variopinte. Una cosa che faccio spesso in questo periodo dell’anno, è passeggiare lungo viali costeggiati da alberi imponenti, i cui rami sembrano avvolgermi e il cui canto armonioso, prodotto dal fruscio del vento, sembra cullarmi. Disseminate lungo tutto il sentiero, vi sono centinaia di foglie secche dalle tinte calde e scarlatte. Il loro colore smorzato riflette il mio stato interiore. Come me, si adagiano al suolo, abbandonandosi ad esso. Come me, esuli in un mondo che non è il loro, poiché troppo grande e troppo forte per esse. Il bagliore di questa mattina sembrava solo un ricordo. Nel giro di un’ora appena, il cielo si era tramutato in una coltre di nubi, dalla quale riusciva a filtrare una luce fioca appena percepibile. Fissai quelle nuvole grigie che promettevano pioggia, e ringraziai che sul sedile posteriore della mia auto ci fosse sempre posto per un ombrello. Giusto il tempo di raggiungere il parcheggio della scuola , che una pioggia leggera toccò il suolo. Poco dopo, la pioggia si fece sempre più battente. Si radunò così una piccola folla di studenti che a passo rapido si apprestava a raggiungere uno spazio al coperto. Erano le 8:00 in punto quando la campanella segnò l’inizio delle lezioni. Mentre con la mano destra reggevo l’ombrello, rimasi impalata a fissare l’edificio nel quale avevo trascorso gli ultimi quattro anni della mia vita. Non era mai stata la meta che prediligevo, eppure il pensiero di lasciarla, aveva innescato in me una sorta di nostalgia. Risi di me stessa e scossi la testa.
“Kate, cosa ci fai qui? Dobbiamo entrare!”
Riconobbi la voce di Grace, la mia migliore amica di sempre. I suoi lunghi capelli corvini e perfettamente lisci, erano raccolti nella sua solita coda di cavallo. I suoi grandi occhi marroni erano incorniciati da lunghe ciglia nere, visibili ad ogni suo batter d’occhio. Il suo tono acuto mi fece sobbalzare e tornare alla realtà.
“Grace, ciao! “ La abbracciai calorosamente. Ero sinceramente felice di rivederla. Avevamo trascorso l’intera estate lontane, poiché lei era in viaggio con i suoi genitori. Ci eravamo sentite telefonicamente, di tanto in tanto. Per non parlare delle innumerevoli cartoline che mi spediva a seconda della meta della settimana. Erano una sorta di Diario di bordo, nel quale mi aggiornava riguardo agli avvenimenti svolti. Il tutto con estremo entusiasmo, quello di Grace.
Poco dopo vidi che non era sola. Con lei c’era Jason, il nostro migliore amico. Era un tipo minuto e spilungone. Una folta chioma di capelli ricci gli sovrastava la testa. Qualche boccolo sfuggiva di tanto in tanto al suo controllo, e gli ricadeva sulla fronte. Con un gesto meccanico, lui puntualmente lo ricacciava via.  Aveva una carnagione piuttosto chiara, quasi diafana. Spesso il suo pallore era motivo di derisione da parte mia e di Grace, ma sapeva che non era nostra intenzione ferirlo e così non se l’era mai presa sul serio. In compenso, due grandi occhi blu cobalto lampeggiavano sul bianco del suo viso come fari. Eravamo un trio piuttosto affiatato. Insieme dai tempi dell’infanzia. Il genere di amicizia sulla quale puoi sempre contare.
“Ciao, Jas!”
“Hey.”
Gli gettai istintivamente le braccia a collo, cogliendolo di sorpresa. Lui rispose con una contenuta pacca sulla spalla.
“Felice anch’io  di vederti.”
Jason non era un tipo particolarmente loquace, ma lo conoscevo abbastanza da non aver bisogno di gesti plateali per capire che gli ero mancata. L’ampio sorriso che gli si era aperto sul viso era più che eloquente. Anche lui era stato via tutta l’estate. I suoi genitori avevano divorziato, lui viveva con la madre ma durante la stagione estiva trascorreva qualche mese in compagnia del padre.  Mentre raggiungevamo l’ingresso dell’edificio, ci perdemmo in lunghe chiacchere, delle quali fu ovviamente Grace la protagonista. Aveva monopolizzato la conversazione, raccontando con enfasi ogni singolo dettaglio della sua estate in Europa. Era piacevole starla a sentire. Non richiedeva il minimo dispendio di energie. Era sufficiente che si annuisse tra una frase e l’altra, e che si sorridesse al momento opportuno. Non lasciava molto spazio alla parola altrui. Talvolta la cosa era irritante, altre era invece rilassante. Non era necessario che si rispondesse ad ogni sua singola affermazione e potevo perdermi in altre riflessioni, fintanto lei non ne avesse avuto abbastanza di blaterare. Jason, come me, ascoltava i minuziosi racconti di Grace, pieni di così attente descrizioni paesaggistiche, che sapeva trascinarti all’interno di quello scenario, al punto da esserne completamente assorbito. Diciamo che al termine della discussione, mi parve di aver preso parte alle sue innumerevoli escursioni a Barcellona. Volevo bene a Grace, sì, ma talvolta sapeva essere davvero insopportabile. Jason invece era meno impegnativo. Stare in sua compagnia equivaleva a non preoccuparsi di riempire tutte le pause di silenzio con parole di troppo. Per noi due, anche il silenzio andava più che bene. Di tanto in tanto, ci scambiavamo qualche occhiata complice, entrambi vittime di quel supplizio. Finalmente, l’attenzione di Grace parve spostarsi su qualcos’altro anch’esso degno di nota a parer suo, così interruppe il racconto e noi smettemmo di gravitare attorno all’Orbita Grace. Ci fermammo ad analizzare gli orari delle nostre lezioni. Prima ora Trigonometria, splendido.
Dopo qualche minuto di ricerca, trovammo l’aula giusta. Prima che procedessimo, la mano di Grace si interpose tra noi, ostruendo l’accesso. Il suo fare imponeva divieto. Io e Jas ci scambiammo un’occhiata  perplessa, il suo gesto ci aveva lasciati interdetti.
“Ragazzi- è- il- nostro- ultimo- anno. “ Disse scandendo ogni singola parola. Ci osservò attentamente ma , non ritrovando nei nostri occhi ciò che si aspettava, ribadì il concetto. ”L’ ultimo anno!” Questa volta marcò maggiormente la parola ultimo.
Lo sguardo mio e di Jas dapprima basito, divenne ora esasperato. Quando avrebbe smesso si rendere tutto così plateale? Grace aveva decisamente urgente bisogno di rivedere le sue priorità.
“E’ il nostro battesimo del fuoco.”
I suoi occhi lampeggiavano di sincero entusiasmo, un entusiasmo tale che finì per coinvolgere anche noi. Dinanzi alla sua esuberanza, non restava altro che cedervi. Occupammo tre dei posti della seconda fila. Io mi posizionai in quello più a sinistra, poiché era il più vicino alla finestra. Alla mia destra c’erano rispettivamente Grace e Jason. Le indicazioni riguardo al docente di questo corso dicevano : “M. Smith”. Mi chiedevo se si trattasse di un uomo o di una donna. In attesa del suo arrivo, diedi una rapida occhiata all’aula nel suo complesso. Era stracolma di studenti, con alcuni dei quali avevo scambiato qualche parola in passato, altri mi erano indifferenti. Nell’insieme, non notai nulla di nuovo. Feci caso ai due unici posti rimasti vacanti, uno dei quali era situato in un banco solitario infondo all’aula. Non mi ci volle molto per comprendere la ragione per cui nessuno l’aveva occupato. Era da emarginati, e nessuno sceglie di esserlo, a meno che non vi si ritrova costretto. Finalmente l’attesa terminò, ed una donna di quarant’anni circa, snella ed alta, con capelli corti e biondi si avvicinò alla cattedra. Ci rivolse un’occhiata curiosa ed indagatrice. Poi impugnò un gessetto bianco e iniziò a scrivere qualcosa sulla grande lavagna alle sue spalle.
“Michelle Smith.”
Così facendo, aveva risposto alla mia domanda inespressa. Quella “M” stava dunque per Michelle.
“Buongiorno ragazzi, e benvenuti al mio corso di Trigonometria. Il mio nome è Michelle, ma qualcosa mi dice che lo sappiate già.” Accennò un sorriso. Speravo che questo suo presunto sarcasmo mi fosse d’aiuto in futuro, considerando la mia triste realtà dei fatti. Non appartenevo alla cerchia dei privilegiati aventi una certa inclinazione verso le discipline scientifiche. Prima ancora che iniziasse a blaterare circa formule contorte e problemi a cui trovare soluzione, mi persi nello scenario aldilà della finestra. La pioggia era divenuta più tenue. Tuttavia, il cortile era zuppo. Sentivo l’aroma della terra umida. Grace mi diede di gomito, e mi resi conto che la nostra insegnante non aveva finito con le presentazioni. Alzai il capo e notai un nuovo elemento. Mi guardai attorno disorientata, quasi fosse comparso dal nulla. Magari l’avevo tralasciato durante la mia circospezione di poco prima. Grace lesse il mio sguardo confuso e intuì i miei pensieri.
“Kate, dopo tanti anni il tuo essere così straordinariamente distratta mi sorprende ancora.” Bisbigliò con tono divertito. Le sorrisi anche io, cosciente della verità delle sue parole. Mi concentrai un istante su quella nuova figura. Era piuttosto alto, il suo corpo era slanciato, i capelli erano una massa nera arruffata ed umida, a causa della pioggia probabilmente. Alcune ciocche bagnate gli ricadevano ancora sul viso. I suoi occhi avevano un perfetto taglio a mandorla, avvolti in lunghe ciglia corvine, ed erano penetranti, molto penetranti. Quel genere di sguardo che non puoi sostenere a lungo senza sentirti a disagio. Non riuscii ad intuirne la tonalità cromatica, però. Sembravano avere una duplice sfumatura. Una perfetta combinazione di chiaro scuro.
“Ancora un attimo di attenzione, per favore. Diamo il nostro caloroso benvenuto ad un nuovo studente che da oggi si unirà a noi. Vi presento Christopher Richard James Stewart.”
Dinanzi a quella successione infinita di nomi, rimanemmo tutti allibiti.
“Accidenti, Kate. Questo tizio deve essere qualche ricco ereditiere!” Sentenziò. La sua supposizione la allettava, era più che esplicito. Aveva puntato una nuova preda.
“Se ti riferisci al fatto che possiede ben tre nomi, sappi che non è affatto indicativo. Magari aveva solo dei genitori molto indecisi.”
Grace mise il broncio. In un attimo le avevo distrutto tutti i suoi sogni di gloria. Le pizzicai un braccio, e lei tornò a sorridere, ed io con lei.
“Chris.”
Smisi di sorridere e mi voltai all’istante verso chi aveva pronunciato quel nome.
“La prego, mi chiami Chris.” Ribadì lui.
“Oh, certamente come desidera. Ecco, lui è Chris. Accoglietelo con un saluto.”
Il tono quasi reverenziale con cui Miss Smith si rivolgeva al misterioso ragazzo, mi portò ad avvalorare la tesi di Grace.
“Ciao, Chris.” Recitarono tutti in coro, eccetto me. Io dovevo ancora superare la sorpresa. Grace invece mise fin troppa enfasi nel pronunciare quel nome.
“Bene, giovanotto. Purtroppo la scelta è alquanto scarsa. Si sistemi in uno dei due posti liberi a sedere.”
“Grazie.”
Il nuovo arrivato percorse l’intera aula a grandi falcate. Mantenne il capo rivolto all’insù per tutto il tempo. Solamente quando mi fu a fianco, chinò il capo e mi rivolse uno sguardo fugace. Quasi volesse svelarsi a me, concedendomi una visione più nitida di lui. Per la prima volta incrociai i suoi occhi e stavolta ne vidi il colore. Sembrava una miscela di verde cangiante misto a celeste. Ma una più attenta analisi mi diede la risposta che cercavo. Grigi. I suoi occhi erano grigi. Così profondi, così intensi. Quegli occhi, in quel millesimo di secondo, mi stavano parlando ne ero sicura. Sembrava dicessero qualcosa in più di loro, qualcosa in più di quel che davano a vedere. Ma non riuscii ad interpretarne il messaggio. Mi sembrava d’esserci quasi, ma per qualche ragione, il mio corpo disubbidì ai comandi e mi costrinse ad abbassare lo sguardo, anche se avrei voluto tenerlo ben fisso su di lui. Quando lo rialzai era tardi. Era già scomparso dal mio scenario. Lo sentii prendere posto e proprio nel banco infondo all’aula. Mi chiesi se fosse una coincidenza, o una scelta ben ponderata. Non ebbi più il coraggio di voltarmi. Per tutta la lezione, la sensazione di quei due occhi fiammanti puntati su di me non mi abbandonò. Ma di certo stavo galoppando con la fantasia. La campanella trillò, ed io sgattaiolai fuori dall’aula. Consultai nuovamente il mio orario, e notai che c’era un ora di buco.
“La tua solita fortuna!” Piagnucolò Grace. Le feci una linguaccia.
“Ciao ragazze. Ho lezione. Ci vediamo a pranzo.” Si liquidò Jason.
Sfrecciai verso il cortile. La pioggia non accennava a smettere. Impaziente, mi avventurai ugualmente, ritrovandomi ben presto zuppa. Mi avvolsi le braccia in vita, come se ciò potesse in qualche modo concedermi riparo. La sorte peggiore era spettata ad i miei capelli, ridotti ad una massa umida ed informe.
“Serve un ombrello?”
Una voce tanto nuova quanto familiare mi piombò alle spalle, e in un istante mi trovai all’asciutto grazie a quella prodigiosa invenzione che reggeva in una mano.
“A dire il vero…” Una risposta sarebbe risultata alquanto superflua. Bastava darmi un’occhiata. Sembrava divertito dalla mia cattiva sorte.
“Vieni, conosco un posto dove potremmo stare al riparo.” Mi lanciò un’occhiata alla svelta, ridendo sotto i baffi, di certo per via del mio aspetto. Noi? Nel senso, io e lui da soli? Credo fosse esattamente ciò che intendeva.
“Perdona la mia scortesia. Il mio nome è Chris.” Disse porgendomi la mano libera. Dove si era cacciato il ragazzo tenebroso e solitario di qualche ora fa? Doveva trattarsi senz’altro del suo gemello buono propenso alle relazioni sociali, non c’era altra spiegazione.
“Credevo di dovermi rivolgere a te formalmente, Mister Cristopher Richard James Stewart.” Dissi con una punta di sarcasmo. Lui in tutta risposta curvò gli angoli della bocca in un sorriso.
“Chris, per favore. Il resto, non mi appartiene.” Il buon umore lasciò il suo viso, sostituito da un velo di amarezza. Avrei voluto comprendere più a fondo la faccenda, ma il mio istinto e quella nota di tenebrosità nel suo sguardo che sembrava interporsi fra lui e chiunque tentasse di decifrarlo, mi spinsero a non proseguire oltre. Vagando tra i miei pensieri, persi ancora una volta di vista la realtà. I miei sensi tornarono vigili quando una mano mi strinse il braccio, e mi trascinò via con sé. Mi condusse lungo un sentiero alle spalle dell’edificio scolastico. Lì scorsi una piccola abitazione in legno, probabilmente appartenuta al vecchio custode che si occupava della manutenzione del giardino, ma ormai visibilmente abbandonata.
“Prima le signore.” Lasciò entrare me per prima.
“Grazie.”
“Almeno ora abbiamo un tetto sulla testa.”
“Ne avremmo avuto uno anche se fossimo entrati a scuola.”
“Ma avresti anche avuto un sacco di occhi puntati addosso.”
“Meglio quelli di un perfetto estraneo, dico bene?” Dissi sarcastica.
“Touché.” Sorridemmo all’unisono.
“Credo tu abbia ragione, comunque. Meglio starsene per conto proprio. Prima che mi prendessi in ostaggio la mia intenzione era più o meno questa. Cercare un posto nel quale avrei potuto trascorrere un’ora in pace, lontana da sguardi indiscreti.” Il mio sguardo migrò involontariamente su di lui. Il mio tono tradì una punta di acidità che non passò inosservata.
“Non credo d’aver compreso a pieno la causa della tua ostilità. Hai qualche perplessità legata a questo posto oppure alla mia compagnia?”
Mi prese in contropiede. Non mi aspettavo un approccio tanto diretto.
“Andiamo, perché dovrei scegliere di restare in compagnia di una persona di cui conosco appena il nome!”
La collera prese il sopravvento. Mi osservò per un istante, come se stesse riflettendo su qualcosa. Il mio tono l’aveva forse spaventato?
“Ti ringrazio. La tua affermazione  mi hai dato modo di pensare ad un particolare di non poco conto. Io non conosco il tuo nome. Dal momento che tu conosci il mio, o meglio i miei, sarebbe cortese da parte tua rivelarmelo.”
“Kate, il mio nome è Kate.” Non avrei voluto dirglielo, ma la parte meno arrabbiata e più razionale di me, mi disse che il suo discorso non faceva una piega.
“Kate.” Scandì il mio nome. Lo pronunciò conferendogli quasi della musicalità. Nessuno aveva mai usato un tono simile. Ci fissammo per qualche istante. Non riuscivo a decifrare quello sguardo, anche perché mi era quasi impossibile sostenerlo a lungo.
“Non sei di queste parti, vero?” Decisi di rompere per prima il silenzio.
“Non esattamente. Mi sono appena trasferito dalla capitale. Ora vivo da solo nella vecchia residenza di famiglia.”
“Ti riferisci a quella villa in perfetto stile borghese, disabitata da decenni?”
“Proprio quella.”
“Ma allora tu sei…” Caspita, avevo appena trovato un valido supporto a sostegno della tesi di Grace.
“Ricco? Non è propriamente così. La mia famiglia lo è.” Riusciva a parlare di loro con estremo distacco. Quasi fosse una realtà a lui estranea.
“Non colgo la differenza.” Mi sorrise comprensivo.
“All’età di diciassette anni sono andato via di casa. Da allora non vivo più lì. Ho trascorso quest’ultimo anno presso alcuni miei zii, che mi hanno gentilmente offerto ospitalità.”
“Ah.” Non fui in grado di formulare altro.
“Non voglio che tu ti faccia un’idea sbagliata di me. Non ho smarrito la retta via e non sono finito vittima di nessun giro che mette a repentaglio la mia incolumità. Si tratta semplicemente di divergenze d’opinione.”
“Non ti stavo giudicando. Non ho elementi a sufficienza per farlo. Mi stavo solo chiedendo il motivo per cui mi stai rivelando una serie di informazioni sul tuo conto a parer mio strettamente personali.” Dai suoi occhi mi parve di cogliere stupore.
“In realtà, non so nemmeno io esattamente cosa mi abbia spinto a farlo.”
Pronunciò quella frase tenendo lo sguardo basso di chi teme d’essersi lasciato sfuggire più del dovuto. Trascorse una manciata di secondi prima che lo rialzasse. Gli rilanciai la stessa occhiata dubbiosa con la quale lui fissava me.
“Ha smesso di piovere.”
“Christ…”
Fui interrotta dall’assordante suono prodotto dalla campanella che segnava l’inizio della pausa pranzo. Tempismo perfetto.
“Ciao Kate, piacere d’aver fatto la tua conoscenza.” Mi rivolse un saluto appena accennato, e sgusciò via. Il ragazzo tenebroso era tornato. Uscii anche io, diretta verso la mensa.
“Kate, finalmente! Hai visto Jason?” Mossi meccanicamente il capo, facendo cenno di no. La testa palesemente altrove. Sorpresi Grace guardarmi di sottecchi. Il suo occhio clinico aveva colto ancora nel segno?
“Cos’hai? Hai un’aria strana, come se non fossi del tutto presente a te stessa.”
“Mi hai dato un’occhiata? Sono fradicia, come vuoi che stia!” Non ero mai stata abile nel mentire.
“Katherina.” Quando Grace faceva appello al mio nome di battesimo, era ora vuotare il sacco. Fui salvata da due braccia spasmodiche, qualche fila più avanti.
“Raggiungetemi, ho tenuto due posti liberi!”
Ci guardammo e ci aprimmo in un sorriso. Come avremmo fatto a sopravvivere senza il nostro Jas? E, grazie al cielo, distrarre Grace non era un’impresa possibile, ma ero certa che non avrebbe lasciato cadere la cosa. Lo raggiungemmo in fretta. Prima di prender posto, riempimmo il nostro vassoio, pescando dalla vasta gamma di prodotti a nostra disposizione. Avevamo davvero l’imbarazzo della scelta. Eppure mi accontentai di un’insalata scondita e di una light coca. Jason, invece, stava divorando un enorme hamburger. Mi chiesi dove mettesse tutte quelle calorie. Non praticava neppure nessuna attività sportiva.
“Allora Kate, come hai trascorso la tua ora libera?” Chiese Grace tutt’altro che accidentalmente. Il momento della mia fine si avvicinava. Jason gettò un’occhiata nella mia direzione. Conosceva Grace quanto me e sapeva riconoscere  i suoi astuti tentativi di estirpare informazioni. Lo guardai esasperata, sperando che cogliesse la mia richiesta d’aiuto. Grazie al cielo, fu così.
“Che ne dite se questo pomeriggio rimanessimo in biblioteca?” Lo ringraziai tra le labbra.
“Solo un attimo Jas, Kate stava per dirmi qualcosa non è così?”
 Un nodo mi chiuse la gola. Grace aveva la capacità di farmi sentire come chi sta per confessare un omicidio. Forse avevo contratto la sua teatralità e stavo esagerando, ma sapevo che se avessi aperto bocca e confessato, Grace avrebbe stravolto l’accaduto tramutandolo nell’evento del secolo. Purtroppo, l’ostinazione di Grace era nota a tutti e il tentativo di salvataggio di Jas andò ufficialmente in fumo. Mi guardò con fare di scuse. Mi armai di coraggio e parlai.
“Nulla di particolare, veramente. Mi sono imbattuta in Christopher.” Finsi disinvoltura.
“Ti riferisci al nuovo arrivato?” Grace non stava in sé dall’emozione.
“Proprio lui.”
“Kate, Non posso crederci! Come fai a mantenere un simile autocontrollo. Gli hai dato un’occhiata? E’ uno schianto!” A Grace, tanto bastava affinché qualcuno divenisse interessante ai suoi occhi, ma non ai miei. Certo, mentirei se dicessi che Christopher era il tipo che passava inosservato. Ma che diavolo, lo conoscevo appena! Non si aspetterà certo che mi metta a flirtare con lui, cinguettando il suo nome o incorniciandolo con dei cuoricini. L’intero pranzo trascorse all’insegna dei commenti allusivi di Grace. Io mi limitai a fare brevi cenni del capo, in risposta alla sua estenuante chiacchera. Notai invece che Jason si era tenuto in disparte dal momento in cui aveva udito il nome di Christopher. Piuttosto insolito, ma non ci badai particolarmente, credetti si trattasse di una coincidenza.
“Ci vediamo domani, ragazzi.” Salutai entrambi con un gesto della mano, e mi diressi impaziente verso la mia auto. Non vedevo l’ora che la giornata giungesse al termine. Era risultata più lunga del previsto. Quando entrai in macchina, inserii le chiavi e attesi una risposta del motore che non arrivò mai. Non rispondeva ai comandi. Alla fine, esalò l’ultimo respiro.
“Merda.”
Ripetei tre volte la stessa operazione, senza alcun risultato. Aprii la portiera e scesi. Ero su tutte le furie. Fissai a lungo quel catorcio, sperando che qualche entità divina mi venisse in soccorso.
“Serve aiuto?” Mi venne alle spalle, facendomi sobbalzare.
“Hai ingaggiato un investigatore che sta sulle mie tracce o cosa?”
“Interessante ipotesi. Un tantino azzardata oserei aggiungere. Mi dispiace smontare la tua tesi riguardo al detective, ma si tratta di una semplice coincidenza. La mia macchina è laggiù.” Indicò un’auto nera fiammante tirata a lucido. Tornai a guardare il mio surrogato di auto e mi parve ancora più impresentabile se paragonata a quel gioiellino ultima generazione.
“La mia auto è ufficialmente giunta al traguardo della sua vita. Mi ha lasciato troppo prematuramente.” Mi scappò un sorriso sommesso.
“Dovresti procurartene una al più presto. Nel frattempo, accetteresti il passaggio di uno sconosciuto? Se rifiuti l’offerta, puoi sempre percorrere un paio di miglia a piedi. Dicono che le lunghe passeggiate abbiano incredibili proprietà benefiche.”
Era palesemente divertito dalla mia sventura.
“Mi fa piacere sapere che dalla mia disgrazia, qualcuno ne esca divertito.”
“Accetti il mio invito?”
“No! Seguirò alla lettera il tuo consiglio.” Il sorriso non abbandonava ancora le sue labbra. Decisa, iniziai a percorrere la strada di ritorno.
“Fai sul serio?” Ora i suoi occhi erano disorientati. Lo ignorai. Lui salì in macchina ed iniziò a venirmi dietro. Non riuscivo a crederci.
“Tutto questo è assurdo e privo di senso. Smettila immediatamente!”
“Non essere sciocca, Kate. Non credo ti alletti l’idea di percorrere tutte quelle miglia a piedi. Dimentica l’astio nei miei confronti e sali in macchina.” Si fece premuroso. Non mi conosceva abbastanza per star lui a cuore il mio benessere. La situazione era sempre meno comprensibile. Tuttavia, i suoi occhi mi parvero sinceramente preoccupati, e mi convinsero che salire in macchina non era forse l’idea cattiva che sembrava.
“Certo che sei davvero cocciuta. Ma alla fine, eccoti qui.” Sorrise trionfante. Mi promisi di non rispondere a nessuna delle sue affermazioni, nemmeno a quelle volutamente provocatorie. Così, assunsi la posizione di chi si chiude a qualsiasi forma di dialogo. Braccia conserte. Mi guardava con la coda dell’occhio.
“Dovrai pur parlarmi, quantomeno per dirmi dove abiti esattamente.”
Accidenti. Mi limitai a fornirgli le indicazioni più indispensabili. Poi, tornai al silenzio precedente. Lui scosse la testa divertito. Cosa ci trovava di tanto divertente? Di certo dopo la performance precedente, gli apparivo come un perfetto fenomeno da baraccone. Strinsi ancora di più le braccia al petto. Notai che imboccò un sentiero diverso rispetto a quello da me indicato.
“Non è questa la strada che ti ho indicato.” Lo accusai, allarmata.
“Non preoccuparti. Ho solo scelto di percorrere una strada alternativa grazie alla quale arriveremo più in fretta, per la tua gioia.” Sottolineò “tua” come se per lui non ne fosse altrettanto motivo.
“Ti sei appena trasferito. Non è insolito che tu conosca già delle scorciatoie?”
“Hai rotto il tuo voto di silenzio? Ho detto che mi sono appena trasferito, non che mi è nuova questa città. La vecchia proprietà nella quale risiedo, era la dimora dei miei genitori. Ho vissuto lì per qualche anno della mia infanzia. In quegli anni mio padre mi portava spesso in giro, a perlustrare la zona. Non amava le lunghe passeggiate e così ci muovevamo sempre in macchina e qualcosa mi è rimasto impresso.”
Rimasi in silenzio. Mi venne un groppo in gola. Cercai di reprimere le lacrime, ma prima che potessi impedirlo, mi invasero l’intero volto. Iniziai persino a singhiozzare e questo attirò l’attenzione di Chris.
“Per l’amor del cielo, Kate, che ti succede?” Mi guardava sconvolto.
Io continuavo a tacere. Lui spense l’auto e mi strinse le dita della mano.
“Kate…”
Lo guardai dritto negli occhi e una nuova ondata di lacrime mi travolse. In preda all’esasperazione, affondai il viso sul suo petto, incurante che per me lui fosse poco più che uno sconosciuto. Singhiozzai  e strinsi con forza un lembo della sua camicia. Lui mi cinse la vita con una mano, e con l’altra mi premette ancora più forte il viso sul suo petto.
“Parlami, Kate, te ne prego…”
“Io…io non…”
“Calmati ora. Ci sono io qui con te.” Disse mentre la sua mano scorreva tra i miei capelli.
Ci vollero parecchi minuti prima che rinsavissi. Mi dimenai, intenta a liberarmi dalla sua presa soffocante, ma lui opponeva resistenza e non mi permetteva di muovermi. Mi divincolai ancora, finché decise di lasciarmi andare. Mi scrutò a fondo, valutando il mio stato. Con l’indice catturò una lacrima. Io lo fissavo incredula. Da dove venivano tutte quelle premure e attenzioni?
“ Scusami, non era mia intenzione…”
“Non dirlo nemmeno.” Non disse altro, ma il suo sguardo mi incoraggiava a proseguire. Inclinai il capo all’indietro, premendo sul sedile. Inspirai forte e parlai. “Ecco un… piccolo particolare… del tuo racconto ha scatenato la reazione tremenda alla quale ti è toccato assistere. Credevo di aver imparato a gestire la cosa, ma a quanto pare è lei a dominare me. Vedi, qualche anno fa…è accaduto qualcosa, un evento che mi ha segnato l’esistenza, devastandone l’equilibrio. Quella notte eravamo in macchina, sintonizzati sulla solita stazione radio che trasmetteva musica anni 80’. I finestrini erano chiusi. Fuori si gelava ma all’interno dell’abitacolo la temperatura era mite. Stavo scambiando quattro chiacchere con mio padre. C’era in corso un animato dibattito che vedeva contrapporsi due fazioni opposte. Da una parte me, detrattrice dei suoi gusti musicali ribattezzati nientemeno che “retrò” e dall’altra lui, fedele sostenitore della musica di quei tempi. Ci tenne a precisare che la ragione della sua passione non stava tanto nella musica ma nei ricordi ad essa legati. Furono gli anni in cui conobbe mia madre. Aggiunse che quando ero ancora nel suo grembo, era solito cingere il pancione con le sue grandi mani e accostarvi un orecchio, nella speranza di udire qualche suono da me emesso. Mi parlava, facendomi ascoltare quella stessa musica, nella speranza che quando fossi venuta alla luce l’avrei amata anche io. Eravamo immersi nella nostra conversazione quando due grossi fari ci accecarono. In quell’istante il tempo parve fermarsi di colpo. L’automezzo ci spinse via, facendoci sferzare sull’asfalto. La macchina urtò violentemente contro un grosso cartello al lato della strada. L’impatto fece capovolgere l’automobile. L’istante dopo, ci ritrovammo a testa in giù. Ricordo solo che mi strinse in un abbraccio, che io lo guardai per l’ultima volta e che le sue braccia mi caddero addosso, esanimi…”
Non avevo mai proferito parola con nessuno a riguardo, neppure con mia madre, ad oggi all’oscuro dalle precise dinamiche dell’incidente. Dovetti imparare a gestire quella situazione con estrema cautela, in sua presenza. Temevo di turbare ancor più il suo già instabile assetto psicologico, compromettendolo irreparabilmente. L’accaduto in sé l’aveva già gettata nello sconforto più totale. Ed ora, inspiegabilmente, mi ritrovai a rendere partecipe delle mie confidenze più intime e al col tempo dolorose, un ragazzo appena conosciuto. Eppure, nulla di tutto ciò aveva importanza. Per la prima volta dopo tanto tempo, mi ero concessa d’essere dannatamente egoista, eludendo il tabù che, oramai di regola tra le mura di casa mia, rendeva possibile la sopravvivenza dei suoi abitanti. Nessun senso di colpa mi investì. Venni assalita da un senso di beatitudine, tanto immenso che mi parve d’esser priva di massa corporea e di potermi librare nell’aria. Lo spettro di mio padre era sparito, e con lui il macigno che mi portavo appresso, troppo grande perché le mie spalle potessero reggerne il peso. Ero ignara delle ragioni che ci resero protagonisti di quel frangente, ma la profondità di esso rese Chris diverso ai miei occhi, che risplendevano ora di luce nuova, la stessa che intravedevo nei suoi. Lo fissai intensamente.
“Oh,  Kate.” Mi prese il volto tra le mani ed io le strinsi con le mie. Smisi di interrogarmi sul senso di quella vicenda. Non tutto doveva necessariamente essere vagliato dalla razionalità. Ci sono cose a cui la ragione non è in grado di trovare spiegazione, eppure ciò non vieta loro di accadere. Io e Chris ne eravamo la prova. Piansi ancora, ma di gioia questa volta. Finalmente potei radunare tutti i pezzi e ricomporre quel che ne rimaneva di me. Ero di nuovo me stessa. Forse non più spensierata come un tempo, ma intera questa volta.
“Chris, io…”
Posò due dita sulle mie labbra dischiuse. Lo guardai a fondo. Lessi nei suoi un’emozione nuova, eco della mia. Mi afferrò il viso e lo avvicinò a sé, molto lentamente. Poi chiuse gli occhi e io feci lo stesso. Sentii le sue labbra premere appena sulle mie. Si staccò un istante, affinché i suoi occhi trovassero i miei. Probabilmente vi trovò ciò che cercava, perché si accostò ancora una volta a me, trovando ancora una volta la mia bocca. Mi baciò con maggior intensità. Le nostre labbra si dischiudevano, muovendosi in sincrono. La sua mano finì tra i miei capelli, lasciando che le dita vi scorressero attraverso. Lo guardai dritto negli occhi e gli scoccai un bacio fugace sul labbro inferiore. Mi ricomposi e tornai alla mia postazione. Lui mi scaldò con un sorriso colmo di dolcezza. Proseguimmo il percorso. La macchina sfrecciava ora più lentamente, quasi temessimo di infrangere la magia di quell’attimo che, una volta svanito, si sarebbe tramutato in un sogno. Presi a guardare fissa la strada di fronte a me, ma tutta l’attenzione andava alla mia mano intrecciata alla sua.
  
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