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Autore: Il_Club_Delle_Felci    28/03/2013    2 recensioni
Lei è la classica pecora nera, lei è la non voluta.
Lei è una potenza gelida e distruttiva, lei è la non amata.
Lei è sarcasmo allo stato puro, lei è solo una ragazza.
Lei ha un nome, si chiama Eve.
Ma questa lei ha anche dei sentimenti.
E, sorprendentemente, saranno degli anelli di cipolla a costringerla a rivelarli.
Muovendosi in una città fuori dal tempo, riuscirà Eve a scoprire il suo destino trovando finalmente il suo passato?
FF scritta a 4 mani :3
Ci troverete anche l'ammhore e parecchio sarcasmo.
Durrie e Donnie
(questa storia è stata pubblicata su altri siti con account diversi, quindi NON DENUNCIATECI PER PLAGIO, siamo sempre noi due!)
OGNI 100 VISUALIZZAZIONI VI PERVERRA' UN SIMPATICO VIDEO IN CUI DAREMO SFOGO ALLA NOSTRA DEFICIENZA BALLANDO PER IL VOSTRO DILETTO.
Genere: Commedia, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Anelli di cipolla 9

TA DAAAAA!
Alla fine la beta che non beta ha betato, ed eccovi qua il capitolo 9.
Dedicato a LadyVamp che credo abbia cambiato nome ma ssssssh, la Durrie ti porge un camion di caramelle :3

Fateci sapere!

Un bacione,
Durrie e Donnie

Anelli di cipolla

Capitolo 9

 

 

La sigaretta mi cadde dalle dita, mentre mi ritrovavo, impotente, a fissare i fari di una piccola utilitaria che stava sopraggiungendo ben oltre il limite di velocità di quella stradina stretta e tortuosa.
Per istinto serrai gli occhi, appallottolandomi a terra e dando le spalle alla morte, aspettando l’inevitabile impatto.

Che non arrivò.

 
Boom.

 
Ci fu un gran boato, e non saprei dire che cosa sia successo esattamente poi, il solo richiamare alla memoria l’episodio mi costa una fatica immensa nel casino sfuocato che ho in testa, è come quando si ricordano alcune immagini di un sogno, ma non appena si prova a raccontarlo tutto si confonde.
So solo che un attimo prima ero in mezzo alla strada aspettando di morire, e quello dopo ero sul marciapiede dal lato opposto, ammaccata e sanguinante ma ancora decisamente viva.

 L’unico ricordo che avevo (e tutt’ora ho) di quei momenti interminabili è il dolore, il dolore bruciante, allo sterno, al braccio destro, e soprattutto alla parte alta della schiena, fin quasi sulle spalle, quel tipo di 
dolore che ti fa desiderare di non essere mai sopravvissuto per non dover essere lì ad affrontarlo.

 Strinsi i denti e urlai, e mi dimenai quando mani aliene cercarono di tenermi ferma.

La mia carne viva era impietosamente esposta all’aria e alla polvere, la mia voce non aveva più tracce di nulla di umano, avevo la vista annebbiata da una spessa cortina di sangue, e di sangue erano sporche le mani che cercavano inutilmente di dissiparla, mentre ogni singola vena del mio corpo ardeva come se dentro mi scorresse piombo liquido. Distinguevo la sagoma di qualcosa di grosso e in fiamme a poca distanza da me, accartocciato contro un albero, e in mezzo ad un coro cacofonico di voci concitate e sconosciute, svenni, temendo di non svegliarmi mai più.

***

Beep. Beep. Beep.

Wow, certo che tutto era davvero tanto bianco.

Beep. Beep. Beep.

Avevo il naso secco, l’aria sapeva di sterile e di disinfettante.

Beep. Beep. Beep.

Provai a muovermi, ma sentii solo qualcosa che pungeva nell’incavo del braccio.
Beep. Beep. Beep.

«Hey, si è mossa!»
«Evelina? Evelina?!?»

Un altro beep.
Ricrollai.

 

***

 

Madonna. Madonna santissima. Santa Cunegonda, Sant’Adalberto, San Francesco, Santa Rita da Cascia, credo esista un San Gervasio, San Silvestro, San Crispino (viva il vino per tutti!), Santi tutti quei poveri martiri morti che stanno in cielo, mettici un Cristo Compagnone che male mai non fa, Dio onnipotente, Spirito Santo, e direi Amen. 

Che mal di testa non avevo.

Aprii gli occhi a fatica, cercando di mettere a fuoco il soffitto bianchissimo e accecante, estraneo e mai visto prima.

Cercai di identificare l’ambiente, alla ricerca di spiegazioni.
Una stanza abbastanza quadrata, le pareti dipinte di un bianco oscenamente pulito, un elegante divanetto beige dall’aria terribilmente scomoda, una porta scorrevole in legno scuro che conduceva a quello che intuii essere un piccolo bagno. Gli orribili quadri pseudo-post-impressionisti alle pareti mi fecero definitivamente capire che mi trovavo in una camera d’ospedale, nel caso il fatto che il mio battito fosse monitorato da uno scocciantissimo beep non me l’avesse già fatto intuire.
Come in ogni ospedale che si rispetti, tutto era semplicemente troppo bianco, iperluminoso.
Quella fottuta luce mi stava marchiando a fuoco le retine. Cristo, vedevo un milione di cazzo di macchioline colorate.
Mi lamentai a mezza voce, sistemandomi nel letto dando giusto un colpetto d’anca per rigirarmi, ma il movimento mi causò una sensazione terribile alla schiena, come se al posto della pelle avessi avuto della gomma tesa. Mugolai. Subito qualcuno che non avevo visto, notato il mio gesto, mi afferrò il braccio destro, chiamando il mio nome con insistente disperazione. Il velo opaco che avevo nel cervello si dissolse leggermente, e mi ritrovai a fissare gli occhioni verdi di mia sorella, rossi e gonfi di lacrime.

«Ciao….Tosh…» tirai le labbra secchissime in un debole sorriso, ma le mie parole si fermarono a metà in gola, uscendo più come un rantolo spezzato che come suono di senso compiuto. Ricrollai sui cuscini per lo sforzo che ciò mi aveva richiesto, sbattendo di continuo gli occhi per non perdere di nuovo il contatto con la realtà.

Dio santo, ma cosa diavolo mi era successo?

«Eve, ti prego, non ti affaticare, Dio quanto ci hai fatto preoccupare! Stai giù e non sforzarti, sei ancora sotto sedativi!»
«Per favore…acqua...»
Subito prese un bicchiere dal comodino vicino al letto, tolse una bottiglietta dal minifrigor e lo riempì all’orlo. Ma le mani le tremavano al punto che molte gocce finirono in terra prima che lei me lo accostasse alla bocca. Bevetti avidamente il liquido fresco, che scese dolce come ambrosia nella mia gola piagata. Finito quello, ne chiesi un altro con lo sguardo, e dopo aver svuotato anche quello, riprovai a dire qualcosa, schiarendomi ripetutamente la gola.
«Cosa…cosa…successo?»
Odiai profondamente la debolezza che risuonò comunque nella mia voce.
Tosca non mi rispose, o almeno non subito.
La vidi giochicchiare con la sua collanina con lo stemma di famiglia in oro e smeraldi, un regalo che ci aveva fatto nostra nonna poco prima di andarsene.
La mia doveva essere da qualche parte in camera mia, chissà dove. Non mi era mai piaciuta molto, troppo pacchiana, ma la sua sembrava essere stata forgiata apposta per appoggiarsi delicatamente nell’incavo della sua pallida clavicola. Era bellissima, una divinità greca triste e riflessiva.

Cavolo, perché mia sorella sembra pronta per una sfilata di moda anche quando ha la faccia pesta? Io nella mia forma migliore sembro una che hanno buttato fuori a calci in culo da un salone di bellezza a metà trattamento. 

Si tormentò l’interno della guancia, e alla fine, non troppo convinta, mi spiegò, fissando un punto lontano: «Hai avuto un incidente. Stavi attraversando la strada sulle Mura quando una macchina è arrivata andando oltre il limite di velocità, ti ha investito, e poi ha sbattuto contro un albero e ha preso fuoco. Fortunatamente sei riuscita a buttarti in qualche modo di lato e non ti ha tirato sotto del tutto, ma hai picchiato la testa contro marciapiede e sei svenuta, e come se non bastasse in qualche modo le scintille dell’urto ti hanno raggiunto e i tuoi vestiti sono andati subito a fuoco. Dei passanti ti hanno spento, per così dire, hanno subito chiamato il 118 e ti hanno portato in ospedale dove i medici sono riusciti a fermare l’emorragia, ma hai avuto una commozione celebrale, per cui non ti spaventare se le cose ti appaiono confuse o ti ricordi cose strane, è normale…eri tutta piena di sangue, pensavo che ti avremmo perso…i medici dicevano che non erano certi che il tuo cervello non avrebbe riportato danni permanenti…»
Ora mi aveva preso la mano, e io la stringevo con tutta la (poca) forza che avevo, e trovai ironico il fatto che fossi io a consolare lei, quando ero io quella in un letto d’ospedale con tubi infilati in ogni dove.
«Su…su…sorellona…ho la testa…troppo dura!» ridacchiai, anche se il movimento mi causò un dolore indicibile allo sterno, strozzandomi il respiro.
Tosca alzò lo sguardo, le labbra tremanti e il naso colante.
«Ehm, Tosha, ti scende…la candela, uhm.»
Mi guardò. Sorrise, ormai sull’orlo del pianto più assoluto.
«Eve…Eve…io ho pensato di perderti, cazzo!» esplose, abbracciandomi forte e schiacciandomi l’ago della flebo a fondo nella carne.
Ma non me ne importava, evidentemente ero così piena di antidolorifici che quasi nemmeno me ne accorso, perché potevo dirmi felice lì, tra le braccia di mia sorella.
Non c’era nessun altro posto nel quale avrei voluto essere in quel momento. Riuscii a mantenere la voce salda per dire una frase, una sola, prima di scoppiare a piangere pure io.
«Tosca…ti voglio…bene.»
Ecco, l’avevo detto, le paroline magiche, che da anni mi portavo sulle labbra ma a cui non ero mai riuscita a far spiccare il volo.
Mi guardò.
«Lo so. Non me l’avevi mai detto prima, ma l’ho sempre saputo, deficiente che non sei altro!» rise tirando su col naso, gli occhi ormai a livello cascate del Niagara.
Mi abbracciò più forte. La mia felicità non poteva essere più assoluta, ma proprio quel momento perfetto entrarono Gualtiero e mia madre, mezzo correndo, preceduti da un’infermiera in uniforme impeccabile con le lettere CDC elegantemente ricamate con filo dorato sul taschino.
CDC, ovvero Clinica De Cervis.
Ma certo, come avevo fatto a non capirlo subito? Ovviamente dopo il Pronto Soccorso mi avevano dirottato dall’ospedale pubblico alla clinica privata gestita dalla società di papà.
Vabbè, non ero nelle condizioni di sindacare, anche perché improvvisamente mi ritrovai completamente immersa in un turbine di piume e strass dal quale spuntava la testa di mia madre, che iniziò a mormorarmi qualcosa in francese stretto, piagnucolando, mentre l’infermiera cercava di tirarla indietro spiegandole che ero ancora debole ed era meglio lasciarmi recuperare le forze in pace. Io strinsi l’abbraccio. Fanculo l’infermiera, per la prima volta da anni mia madre mi stava mostrando affetto, e me lo volevo godere fino in fondo.
Mi sciolsi nelle sue braccia calde e solide, respirando forte il suo solito Chanel n°5, era troppo tempo che non lo annusavo…
Alla fine si staccò, soffiandosi il naso con un fazzoletto tirato fuori dalla sua immensa borsa e rimase a fissarmi, in pena, mormorando una litania in francese nella quale io sono totalmente sicura di aver sentito chiaramente la parola “baguette”, mentre chiedeva informazioni su come stavo e se avevo bisogno di qualcosa.
O per lo meno ciò fu quello che capii, il mio francese era piuttosto maccheronico, perchè per ripicca contro di lei mi ero sempre rifiutata di impararlo.
Forse avrei dovuto riconsiderare la mia posizione…
Gualtiero si avvicinò di qualche passo, ma non osò sfiorarmi. Rimase guardingo, lanciando un’occhiata verso la porta quasi che stesse valutando in quanto tempo sarebbe riuscito ad uscire e mettersi in salvo. Alla fine abbandonò i piani di fuga e mi rivolse un «Hey, come stai?» un po’ smunto, che nonostante tutto non risultò troppo sgradevole per i suoi standard.
Mossi appena le dita delle mani e dei piedi, contandole con cura e assicurandomi di avercele ancora tutte.
Tutte e venti erano al loro posto, quindi azzardai di rispondergli un bene, mezzo coperto da un violento accesso di tosse.
Anche se improvvisamente il mondo sembrava aver preso a volermi bene, il mio corpo sembrava odiarmi profondamente. Il mio involucro fisico non voleva rispondere a quello che gli dicevo, e mentre la mia famiglia mi raccontava più e più volte con dovizia di dettagli ciò che mi era successo e cosa mi avevano operato e cosa avrei dovuto fare per la riabilitazione, io continuavo solo a pensare a quelle bende che mi fasciavano il torace, immaginando quali ferite si nascondessero al di sotto. A quanto pareva mi avevano dovuto togliere un bel po’ di schegge di macchina e albero dalla carne, mi ero ustionata il 24% del corpo (schiena e spalle), mi erano andati a fuoco quasi tutti i capelli e avevo perso moltissimo sangue, ma a parte quello potevo considerarmi fortunata ad avere ancora tutti i pezzi più o meno al loro posto. L’infermiera, che era stata tutto il tempo a guardare monitor e prendere appunti dopo avermi sentito il polso, spiegò gentilmente alla mia famigliola che ero troppo affaticata per reggere altre visite, ed effettivamente non riuscivo a connettere bene le parole, per quanto mi sforzassi.
Quando infilò l’ago di liquido blu nella sacca della flebo, il ghiaccio che sentii nelle vene fu solo una benedizione…

 

Passai ancora un mese e mezzo circa nella clinica per riprendermi del tutto dall’incidente, e più giorni passavano più provavo il desiderio impellente di andarmene.
Quel posto faceva davvero schifo, quando facevo il mio giro quotidiano nel parco, ovviamente scortata da un infermiere pronto a soccorrermi nel caso avessi avuto un crollo (e anche pronto a impedirmi di scappare, suppongo), vedevo solo vecchi con la faccia tirata e rifatta, madri di plastica col seno vuoto, bambini viziati che si sentivano eroi mentre mostravano la cicatrice dell’appendicite.
Avevo pian piano cominciato ad abituarmi al fatto che non riuscivo più a muovere bene le spalle per via dell’ustione, e avevo coperto i pochi ciuffi biondi e spelacchiati che stavano tutti dritti in testa con una parrucca a boccoli assurdamente arancioni, ma i segni peggiori ce li avevo dentro.
Spesso, la notte, gli incubi mi tormentavano fino a farmi temere il momento in cui avrei chiuso gli occhi, e non c’erano pillole che tenessero.
Nascondevo i sonniferi sotto la lingua per poi sputarli via subito dopo, non mi avrebbero fatto dormire, non mi avrebbero fatto incontrare i mostri che dimoravano nel mio inconscio, no, non quella notte.
E nemmeno quella dopo, e così la successiva, non quando la veglia era così dolce.
Non dormivo, ma quando ero sveglia mi tenevo occupata e mi rilassavo, quindi riuscivo a reggere abbastanza bene.
Avevo solo dei conti in sospeso con la mia stessa mente, ecco.
Rabbia veniva a farmi visita più del solito, mi seguiva ovunque, mi pedinava, ma non urlava, non rideva sguaiatamente; mi seguiva in silenzio, quasi che avesse coscienza che ci saremmo presto dovute dire addio. Nonostante tutto, ero molto più felice della mia solita media scazzaggine andante.

Tosca aveva iniziato a seguire le lezioni universitarie per corrispondenza per potermi stare vicino, e ogni giorno veniva a trovarmi per tutto l’orario delle visite, spesso portandosi dietro mia madre, e in qualche modo noi tre insieme recuperammo diciassette anni e mezzo di affetto mancato in quei lunghi pomeriggi invernali passati a chiacchierare davanti ad una tazza di un buon the.
Il mio fisico era piagato, ma la mia mente era stata raramente così felice.
Potevo sopportare di riuscire a camminare solo per poco prima di stancarmi e di passare notti in bianco per non sognare mostri se ciò avrebbe voluto dire riacquistare una famiglia.
L’incidente ci aveva riunito, riuscivo persino a stare a meno di due metri da Gualtiero senza sentire il desiderio impellente di sputargli in un occhio.
La maggioranza delle volte almeno.
Persino con mio padre le cose andavano meglio, oddio, dire che ci volevamo bene sarebbe stata un’esagerazione, ma ci eravamo rassegnati l’uno all’esistenza dell’altro, e in fondo era meglio così che odiarsi inutilmente. Quando uscii dalla clinica, un mese e mezzo dopo, mi sentivo una persona nuova.

Mi sentivo pronta a ricominciare la mia vita, e a riscriverla come un lungo epilogo gioioso a una storia tragica e violenta.
Ero rinata, morta nel fisico per rinascere spiritualmente. E cazzarola, parlavo come una fottuta hippie.

Ma si sa, con me le cose belle non durano mai a lungo…

  
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