TA DAAAAA!
Alla fine la beta che non beta ha betato, ed eccovi qua il capitolo 9.
Dedicato a LadyVamp che credo abbia cambiato nome ma ssssssh, la Durrie ti porge un camion di caramelle :3
Fateci sapere!
Un bacione,
Durrie e Donnie
Anelli di cipolla
Capitolo 9
La
sigaretta mi cadde dalle dita, mentre mi ritrovavo, impotente, a fissare i fari
di una piccola utilitaria che stava sopraggiungendo ben oltre il limite di
velocità di quella stradina stretta e tortuosa.
Per istinto serrai gli occhi, appallottolandomi a terra e dando le spalle alla
morte, aspettando l’inevitabile impatto.
Che non
arrivò.
Boom.
Ci fu un
gran boato, e non saprei dire che cosa sia successo esattamente poi, il solo
richiamare alla memoria l’episodio mi costa una fatica immensa nel casino sfuocato
che ho in testa, è come quando si ricordano alcune immagini di un sogno, ma non
appena si prova a raccontarlo tutto si confonde.
So solo che
un attimo prima ero in mezzo alla strada aspettando di morire, e quello dopo
ero sul marciapiede dal lato opposto, ammaccata e sanguinante ma ancora
decisamente viva.
dolore che ti fa desiderare di non essere mai
sopravvissuto per non dover essere lì ad affrontarlo.
La mia
carne viva era impietosamente esposta all’aria e alla polvere, la mia voce non
aveva più tracce di nulla di umano, avevo la vista annebbiata da una spessa
cortina di sangue, e di sangue erano sporche le mani che cercavano inutilmente
di dissiparla, mentre ogni singola vena del mio corpo ardeva come se dentro mi
scorresse piombo liquido. Distinguevo la sagoma di qualcosa di grosso e in
fiamme a poca distanza da me, accartocciato contro un albero, e in mezzo ad un coro
cacofonico di voci concitate e sconosciute, svenni, temendo di non svegliarmi
mai più.
***
Beep. Beep. Beep.
Wow, certo
che tutto era davvero tanto bianco.
Beep. Beep. Beep.
Avevo il
naso secco, l’aria sapeva di sterile e di disinfettante.
Beep. Beep. Beep.
Provai a
muovermi, ma sentii solo qualcosa che pungeva nell’incavo del braccio.
Beep. Beep. Beep.
«Hey, si è
mossa!»
«Evelina? Evelina?!?»
Un altro beep.
Ricrollai.
***
Madonna.
Madonna santissima. Santa Cunegonda, Sant’Adalberto, San
Francesco, Santa Rita da Cascia, credo esista un San Gervasio, San
Silvestro, San Crispino (viva il vino per tutti!), Santi tutti quei
poveri martiri morti che stanno in cielo, mettici un Cristo Compagnone
che male mai non fa, Dio
onnipotente, Spirito Santo, e direi Amen.
Che mal di
testa non avevo.
Aprii gli
occhi a fatica, cercando di mettere a fuoco il soffitto bianchissimo e
accecante, estraneo e mai visto prima.
Cercai di
identificare l’ambiente, alla ricerca di spiegazioni.
Una stanza abbastanza quadrata, le pareti dipinte di un bianco oscenamente
pulito, un elegante divanetto beige dall’aria terribilmente scomoda, una porta
scorrevole in legno scuro che conduceva a quello che intuii essere un piccolo
bagno. Gli orribili quadri pseudo-post-impressionisti alle pareti mi fecero definitivamente
capire che mi trovavo in una camera d’ospedale, nel caso il fatto che il mio
battito fosse monitorato da uno scocciantissimo beep non me l’avesse già fatto intuire.
Come in ogni ospedale che
si rispetti, tutto era semplicemente troppo
bianco, iperluminoso.
Quella fottuta luce mi stava marchiando a fuoco le retine.
Cristo, vedevo un milione di cazzo di macchioline colorate.
Mi lamentai a mezza
voce, sistemandomi nel letto dando giusto un colpetto d’anca per rigirarmi, ma
il movimento mi causò una sensazione terribile alla schiena, come se al posto
della pelle avessi avuto della gomma tesa. Mugolai. Subito qualcuno che non
avevo visto, notato il mio gesto, mi afferrò il braccio destro, chiamando il
mio nome con insistente disperazione. Il velo opaco che avevo nel cervello si
dissolse leggermente, e mi ritrovai a fissare gli occhioni verdi di mia sorella,
rossi e gonfi di lacrime.
«Ciao….Tosh…»
tirai le labbra secchissime in un debole sorriso, ma le mie parole si fermarono
a metà in gola, uscendo più come un rantolo spezzato che come suono di senso
compiuto. Ricrollai sui cuscini per lo sforzo che ciò mi aveva richiesto, sbattendo
di continuo gli occhi per non perdere di nuovo il contatto con la realtà.
Dio santo,
ma cosa diavolo mi era successo?
«Eve, ti
prego, non ti affaticare, Dio quanto ci hai fatto preoccupare! Stai giù e non
sforzarti, sei ancora sotto sedativi!»
«Per
favore…acqua...»
Subito
prese un bicchiere dal comodino vicino al letto, tolse una bottiglietta dal minifrigor
e lo riempì all’orlo. Ma le mani le tremavano al punto che molte gocce finirono
in terra prima che lei me lo accostasse alla bocca. Bevetti avidamente il
liquido fresco, che scese dolce come ambrosia nella mia gola piagata. Finito
quello, ne chiesi un altro con lo sguardo, e dopo aver svuotato anche quello,
riprovai a dire qualcosa, schiarendomi ripetutamente la gola.
«Cosa…cosa…successo?»
Odiai profondamente la debolezza che risuonò comunque nella mia voce.
Tosca non
mi rispose, o almeno non subito.
La vidi giochicchiare con la sua collanina con
lo stemma di famiglia in oro e smeraldi, un regalo che ci aveva fatto nostra
nonna poco prima di andarsene.
La mia doveva essere da qualche parte in camera
mia, chissà dove. Non mi era mai piaciuta molto, troppo pacchiana, ma la sua
sembrava essere stata forgiata apposta per appoggiarsi delicatamente nell’incavo
della sua pallida clavicola. Era bellissima, una divinità greca triste e
riflessiva.
Cavolo, perché mia sorella sembra pronta per una sfilata di moda anche quando ha la faccia pesta? Io nella mia forma migliore sembro una che hanno buttato fuori a calci in culo da un salone di bellezza a metà trattamento.
Si
tormentò l’interno della guancia, e alla fine, non troppo convinta, mi spiegò,
fissando un punto lontano: «Hai avuto un incidente. Stavi attraversando la
strada sulle Mura quando una macchina è arrivata andando oltre il limite di
velocità, ti ha investito, e poi ha sbattuto contro un albero e ha preso fuoco.
Fortunatamente sei riuscita a buttarti in qualche modo di lato e non ti ha
tirato sotto del tutto, ma hai picchiato la testa contro marciapiede e sei
svenuta, e come se non bastasse in qualche modo le scintille dell’urto ti hanno
raggiunto e i tuoi vestiti sono andati subito a fuoco. Dei passanti ti hanno
spento, per così dire, hanno subito chiamato il 118 e ti hanno portato in
ospedale dove i medici sono riusciti a fermare l’emorragia, ma hai avuto una
commozione celebrale, per cui non ti spaventare se le cose ti appaiono confuse
o ti ricordi cose strane, è normale…eri tutta piena di sangue, pensavo che ti
avremmo perso…i medici dicevano che non erano certi che il tuo cervello non
avrebbe riportato danni permanenti…»
Ora mi aveva preso la mano, e io la
stringevo con tutta la (poca) forza che avevo, e trovai ironico il fatto che
fossi io a consolare lei, quando ero io quella in un letto d’ospedale con tubi
infilati in ogni dove.
«Su…su…sorellona…ho
la testa…troppo dura!» ridacchiai, anche se il movimento mi causò un dolore indicibile
allo sterno, strozzandomi il respiro.
Tosca alzò
lo sguardo, le labbra tremanti e il naso colante.
«Ehm,
Tosha, ti scende…la candela, uhm.»
Mi guardò.
Sorrise, ormai sull’orlo del pianto più assoluto.
«Eve…Eve…io
ho pensato di perderti, cazzo!» esplose, abbracciandomi forte e schiacciandomi
l’ago della flebo a fondo nella carne.
Ma non me ne importava, evidentemente
ero così piena di antidolorifici che quasi nemmeno me ne accorso, perché potevo
dirmi felice lì, tra le braccia di mia sorella.
Non c’era nessun altro posto
nel quale avrei voluto essere in quel momento. Riuscii a mantenere la voce
salda per dire una frase, una sola, prima di scoppiare a piangere pure io.
«Tosca…ti
voglio…bene.»
Ecco, l’avevo detto, le paroline magiche, che da anni mi portavo
sulle labbra ma a cui non ero mai riuscita a far spiccare il volo.
Mi guardò.
«Lo so. Non me l’avevi mai detto prima, ma l’ho sempre saputo, deficiente che
non sei altro!» rise tirando su col naso, gli occhi ormai a livello cascate del
Niagara.
Mi abbracciò più forte. La mia felicità non poteva essere più
assoluta, ma proprio quel momento perfetto entrarono Gualtiero e mia madre,
mezzo correndo, preceduti da un’infermiera in uniforme impeccabile con le
lettere CDC elegantemente ricamate
con filo dorato sul taschino.
CDC,
ovvero Clinica De Cervis.
Ma certo,
come avevo fatto a non capirlo subito? Ovviamente dopo il Pronto Soccorso mi
avevano dirottato dall’ospedale pubblico alla clinica privata gestita dalla
società di papà.
Vabbè, non ero nelle condizioni di sindacare, anche perché improvvisamente
mi ritrovai completamente immersa in un turbine di piume e strass dal quale
spuntava la testa di mia madre, che iniziò a mormorarmi qualcosa in francese
stretto, piagnucolando, mentre l’infermiera cercava di tirarla indietro
spiegandole che ero ancora debole ed era meglio lasciarmi recuperare le forze
in pace. Io strinsi l’abbraccio. Fanculo l’infermiera, per la prima volta da
anni mia madre mi stava mostrando affetto, e me lo volevo godere fino in fondo.
Mi sciolsi nelle sue braccia calde e solide, respirando forte il suo solito Chanel
n°5, era troppo tempo che non lo annusavo…
Alla fine
si staccò, soffiandosi il naso con un fazzoletto tirato fuori dalla sua immensa
borsa e rimase a fissarmi, in pena, mormorando una litania in francese nella
quale io sono totalmente sicura di aver sentito chiaramente la parola “baguette”, mentre chiedeva informazioni
su come stavo e se avevo bisogno di qualcosa.
O per lo meno ciò fu quello che
capii, il mio francese era piuttosto maccheronico, perchè per ripicca contro di
lei mi ero sempre rifiutata di impararlo.
Forse avrei dovuto riconsiderare la
mia posizione…
Gualtiero
si avvicinò di qualche passo, ma non osò sfiorarmi. Rimase guardingo, lanciando
un’occhiata verso la porta quasi che stesse valutando in quanto tempo sarebbe
riuscito ad uscire e mettersi in salvo. Alla fine abbandonò i piani di fuga e
mi rivolse un «Hey, come stai?» un po’ smunto, che nonostante tutto non risultò
troppo sgradevole per i suoi standard.
Mossi
appena le dita delle mani e dei piedi, contandole con cura e assicurandomi di
avercele ancora tutte.
Tutte e venti erano al loro posto, quindi azzardai di
rispondergli un bene, mezzo coperto da un violento accesso di tosse.
Anche se
improvvisamente il mondo sembrava aver preso a volermi bene, il mio corpo
sembrava odiarmi profondamente. Il mio involucro fisico non voleva rispondere a
quello che gli dicevo, e mentre la mia famiglia mi raccontava più e più volte con
dovizia di dettagli ciò che mi era successo e cosa mi avevano operato e cosa
avrei dovuto fare per la riabilitazione, io continuavo solo a pensare a quelle
bende che mi fasciavano il torace, immaginando quali ferite si nascondessero al
di sotto. A quanto pareva mi avevano dovuto togliere un bel po’ di schegge di
macchina e albero dalla carne, mi ero ustionata il 24% del corpo (schiena e
spalle), mi erano andati a fuoco quasi tutti i capelli e avevo perso moltissimo
sangue, ma a parte quello potevo considerarmi fortunata ad avere ancora tutti i
pezzi più o meno al loro posto. L’infermiera, che era stata tutto il tempo a
guardare monitor e prendere appunti dopo avermi sentito il polso, spiegò
gentilmente alla mia famigliola che ero troppo affaticata per reggere altre
visite, ed effettivamente non riuscivo a connettere bene le parole, per quanto
mi sforzassi.
Quando infilò l’ago di liquido blu nella sacca della flebo, il
ghiaccio che sentii nelle vene fu solo una benedizione…
Passai
ancora un mese e mezzo circa nella clinica per riprendermi del tutto
dall’incidente, e più giorni passavano più provavo il desiderio impellente di
andarmene.
Quel posto faceva davvero schifo, quando facevo il mio giro
quotidiano nel parco, ovviamente scortata da un infermiere pronto a soccorrermi
nel caso avessi avuto un crollo (e anche pronto a impedirmi di scappare,
suppongo), vedevo solo vecchi con la faccia tirata e rifatta, madri di plastica
col seno vuoto, bambini viziati che si sentivano eroi mentre mostravano la
cicatrice dell’appendicite.
Avevo pian piano cominciato ad abituarmi al fatto
che non riuscivo più a muovere bene le spalle per via dell’ustione, e avevo
coperto i pochi ciuffi biondi e spelacchiati che stavano tutti dritti in testa
con una parrucca a boccoli assurdamente arancioni, ma i segni peggiori ce li
avevo dentro.
Spesso, la notte, gli incubi mi tormentavano fino a farmi temere
il momento in cui avrei chiuso gli occhi, e non c’erano pillole che tenessero.
Nascondevo i sonniferi sotto la lingua per poi sputarli via subito dopo, non mi
avrebbero fatto dormire, non mi avrebbero fatto incontrare i mostri che
dimoravano nel mio inconscio, no, non quella notte.
E nemmeno quella dopo, e
così la successiva, non quando la veglia era così dolce.
Non dormivo, ma quando
ero sveglia mi tenevo occupata e mi rilassavo, quindi riuscivo a reggere
abbastanza bene.
Avevo solo dei conti in sospeso con la mia stessa mente, ecco.
Rabbia veniva a farmi visita più del solito, mi seguiva ovunque, mi pedinava, ma
non urlava, non rideva sguaiatamente; mi seguiva in silenzio, quasi che avesse
coscienza che ci saremmo presto dovute dire addio. Nonostante tutto, ero molto
più felice della mia solita media scazzaggine andante.
Tosca aveva iniziato a
seguire le lezioni universitarie per corrispondenza per potermi stare vicino, e
ogni giorno veniva a trovarmi per tutto l’orario delle visite, spesso
portandosi dietro mia madre, e in qualche modo noi tre insieme recuperammo
diciassette anni e mezzo di affetto mancato in quei lunghi pomeriggi invernali
passati a chiacchierare davanti ad una tazza di un buon the.
Il mio fisico era
piagato, ma la mia mente era stata raramente così felice.
Potevo sopportare di riuscire
a camminare solo per poco prima di stancarmi e di passare notti in bianco per
non sognare mostri se ciò avrebbe voluto dire riacquistare una famiglia.
L’incidente
ci aveva riunito, riuscivo persino a stare a meno di due metri da Gualtiero
senza sentire il desiderio impellente di sputargli in un occhio.
La maggioranza
delle volte almeno.
Persino con mio padre le cose andavano meglio, oddio, dire
che ci volevamo bene sarebbe stata un’esagerazione, ma ci eravamo rassegnati
l’uno all’esistenza dell’altro, e in fondo era meglio così che odiarsi
inutilmente. Quando uscii dalla clinica, un mese e mezzo dopo, mi sentivo una
persona nuova.
Mi sentivo pronta a ricominciare la mia vita, e a riscriverla come
un lungo epilogo gioioso a una storia tragica e violenta.
Ero rinata,
morta nel fisico per rinascere spiritualmente. E cazzarola, parlavo come una
fottuta hippie.
Ma si sa, con me le cose belle non durano mai a lungo…