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Autore: KeyLimner    29/03/2013    0 recensioni
"Se c’era una cosa che proprio non le mancava del mondo esterno, erano le persone.
Il fastidioso cicaleccio. L’inutile via vai. La massa che la schiacciava, la spingeva, fluiva incurante di lei e della sua vita… e allo stesso tempo con la sua vita irrimediabilmente si scontrava, lasciando un segno indelebile sulla sua pelle per poi andarsene come se niente fosse.
Sembrava che la gente camminasse coi paraocchi, diritta verso la sua Meta, e che tutto ciò che non aveva a che fare con la sua Meta non la riguardasse. Che fosse solo un inutile ostacolo. Margareth era l’unica - non avendo alcuna Meta da inseguire - che in quello strano quadro di cui stentava a indovinare il senso poteva stare in piedi, ferma in mezzo alla strada, e meravigliarsi dell’assurdità di quel continuo andirivieni di persone che correvano in tutte le direzioni in una confusa cacofonia di passi..."
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Se c’era una cosa che proprio non le mancava del mondo esterno, erano le persone.
Il fastidioso cicaleccio. L’inutile via vai. La massa che la schiacciava, la spingeva, fluiva incurante di lei e della sua vita… e allo stesso tempo con la sua vita irrimediabilmente si scontrava, lasciandole un segno indelebile sulla pelle per poi andarsene come se niente fosse.
Sembrava che la gente camminasse coi paraocchi, diritta verso la propria Meta, e che tutto ciò che non aveva a che fare con la Meta non la riguardasse. Che fosse solo un inutile ostacolo. Margareth era l’unica - non avendo alcuna Meta da inseguire - che in quello strano quadro di cui stentava a indovinare il senso poteva stare in piedi, ferma in mezzo alla strada, e meravigliarsi dell’assurdità di quel continuo andirivieni di persone che correvano in tutte le direzioni in una confusa cacofonia di passi.
Tante cose le avrebbe richieste indietro, se avesse potuto. Ma non le persone.
Le persone entravano e uscivano dalla sua vita con un’invadenza che le risultava insopportabile. I loro occhi intentavano contro di lei un frettoloso processo, che culminava invariabilmente con un'accusa, e la liquidavano in quattro e quattr’otto senza darle la possibilità di difendersi. Sfondavano la porta della sua intimità senza essere invitati… e non chiedevano scusa.
Ma ciò che odiava realmente - ancor più delle persone - erano i rapporti tra le persone. Quel rumoroso scambio di pensieri, parole, sorrisi… che non erano mai indirizzati a lei. Tutti quei pensieri, quelle parole, quei sorrisi, le giungevano con violenza in un ammasso indistinto, assordandola, e sembravano rinfacciarle crudelmente la sua solitudine.
Era proprio quel senso di esclusione ciò che più di tutto l’aveva spinta a chiudere le porte al mondo e a rifugiarsi nella sicurezza della propria casa.
Sapeva di avere una voce, e di essere anche in grado di usarla per articolare parole, intere frasi di senso compiuto - l’aveva sperimentato da sola, davanti allo specchio -, ma per qualche motivo quella voce spariva sempre quando si trattava di impiegarla per il suo scopo primario: comunicare. Davanti ad un qualsiasi individuo della sua specie, la bocca restava muta, non più un veicolo di suoni ma un semplice canale vuoto e arido, del tutto incapace di esprimere il tumulto che le si agitava in petto. Il perché se lo era chiesto molte volte. Ma il muro che la separava dal resto dell’umanità non aveva mai accennato a scomparire.
Di tal genere erano i pensieri che le affollavano ogni giorno la mente, mentre si trascinava per la casa per compiere i soliti rituali. La sua unica preoccupazione era quella di soddisfare alcuni bisogni primari che - a differenza dell’esigenza di partecipare alla vita sociale - non le riusciva di ignorare. Come la fame.
Aveva imparato presto a capire il significato di quell’acuta fitta allo stomaco che avvertiva ad intervalli più o meno regolari, e che si ripresentava con insistenza ogni qualvolta provava a fingersi sorda ai suoi richiami. Sapeva come si doveva placarla. E sapeva anche che, per farlo, era necessario che infrangesse il suo più severo tabù: uscire dalla tana. Fortunatamente, aveva scoperto che la spesa non entrava eccessivamente in conflitto con quel rigido codice interiore, perché non implicava necessariamente un contatto. Entrava nell’alimentari, prendeva quello che le serviva, ficcava più roba possibile nel carrello e andava alla cassa, dove sbatteva tutto sul bancone e attendeva col fiato sospeso, sperando che la cassiera non le chiedesse se voleva lo scontrino, o una busta, o qualunque altra cosa… domande alle quali non poteva in alcun modo rispondere.
No, la spesa non era un problema, tutto sommato. Il vero problema era proprio uscire. Affrontare il mondo esterno con la sua prepotente caciara, con la sua irriverenza aggressiva. Ragion per cui cercava sempre di accumulare più riserve possibile, per limitare le spedizioni allo stretto indispensabile.
Quel giorno, per l’appunto, era giorno di spesa, e l’aria era permeata da quel vago senso di condanna che aleggiava sempre nei giorni di spesa.
Stava girovagando per i corridoi, prendendo tempo, quando per caso si imbatté in uno strano oggetto che stava appoggiato su di un tavolino basso. Dopo un po’ lo riconobbe. A volte le capitava di riconoscere alcuni oggetti, di comprendere la funzione di alcuni mobili, o elettrodomestici (come il letto, il tostapane, il frullatore…), come se quelle conoscenze fossero innate dentro di lei, frutto di qualche esperienza pregressa. Ma per quanto si sforzasse, non le riusciva di riportare la mente al momento in cui aveva assimilato tali conoscenze. La risposta che si era data era che quell’apprendimento risaliva all’epoca in cui ancora non era spaventata dal “Fuori”. Non ricordava nulla di quel periodo, e ogni volta che tentava di riportare a galla l’occasione del suo estraniamento dal mondo, la mente si ritraeva da quel ricordo come con una dolorosa contrazione, e l’agonia era sufficiente a scoraggiarla da un ulteriore tentativo.
Ad ogni modo, l’oggetto in questione era un piccolo apparecchio di forma rettangolare, con uno schermo in alto, e in basso una serie di pulsantini quadrati disposti in file. Rammentava di averlo visto svariate volte nelle mani della gente, che se lo portava all’orecchio e al suo interno parlava e rideva come rivolgendosi a delle persone reali.
Improvvisamente, ebbe un’illuminazione. Ecco. Quel marchingegno era la soluzione a tutti i problemi.
Fece una prova. Prese l’oggetto, e dopo esserselo rigirato un po’ fra le mani, lo appoggiò alla guancia, a metà fra le labbra e il padiglione auricolare, come tante volte aveva visto fare, e azzardò qualche parola. E… miracolo dei miracoli… le parole uscirono!
Piena di soddisfazione, se lo mise in tasca.
Finalmente avrebbe potuto fronteggiare le proprie paure. Avrebbe potuto fingere di essere come tutti gli altri, sentirsi forte come loro del sostegno dell'inutile società di cui erano circondati, che li rendeva tanto spavaldi da farli sentire in diritto di giudicarla. Guardò la porta, ma stavolta non più con sgomento: la guardò con aria di sfida. E, senza pensarci due volte, prese il portafoglio e uscì.
Quando fu Fuori, il solito disarmante boato l’aggredì.
All’inizio ne fu come sempre intimidita, ma poi si fece forza e prese l’apparecchio dalla tasca. Con un’energia e una padronanza di sé che non le appartenevano, lo accostò all’orecchio e cominciò a parlare disinvolta. Come facevano tutti gli altri intorno a lei. Subito, sentì espandersi dentro di sé un rasserenante senso di sicurezza. Poco importava che al di là del ricevitore non ci fosse nessuno, nessuna rete di relazioni umane a proteggerla. Perché quelli che la guardavano non lo sapevano: la credevano una di loro, un altro normale individuo impegnato a raggiungere la propria Meta. E con questa consapevolezza, Margareth riusciva a non sentirsi inferiore a loro… e persino a sostenerne lo sguardo. Sì. Per la prima volta da quando aveva memoria, riusciva a guardare tutti dritto negli occhi.
Era sempre sola. Ma non si sentiva più colpevole della propria solitudine.
  
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