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Autore: ciocco    16/10/2007    1 recensioni
A volte ci si ritrova da soli, alla luce di un tramonto in una sera di maggio e s'inizia a pensare. E i ricordi invadono la mente, e quella vita passata che si era creduto aver scordato improvvisamente torna, e pare più vivida che mai. Così succede anche a Fabio, che si ritrova a ripercorre la sua vita al contrario, passo dopo passo, in una sequenza di ricordi sull'amicizia, l'amore, la musica, il sesso e la vita.
Genere: Romantico, Malinconico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 9: With or without you

Un altro tramonto arriva, così come è arrivato quello di ieri notte, e della notte prima ancora, così come arriverà quello di domani notte. Il cielo si tinge di colori sanguigni, la luce soffusa del sole morente mi cade sul viso mentre apro la porta di casa. E’ tutto uguale a come l’avevo lasciato questa mattina. Il letto sfatto, lo stereo in pausa, il posacenere pieno, il suo profumo non ancora scomparso. Mi siedo in poltrona, davanti a me c’è il tavolino basso ingombro di riviste musicali, fogli, libri, cd, vecchi quaderni.

Ne apro uno, il primo che mi trovo davanti, lo stesso che stavo osservando qualche giorno fa. E trovo un’altra foto.

Stavolta io non ci sono. Stavolta sono io che scatto la foto, stavolta i protagonisti dell’immagine sono altri. E ‘ novembre probabilmente, e noi quattro siamo fuori dal garage di casa mia, avvolti in una grigiastra luce autunnale che sembra intristire la foto. Nella foto in piedi, schierati come tanti soldati pronti all’attacco, ci sono i miei tre amici, con dei grandi sorrisi sui volti e i capelli che ondeggiano al vento. I volti stanno iniziando ad assumere fattezze più adulte, più mature, i tratti s’induriscono, assumono toni squadrati, regolari, gli sguardi sembrano più consapevoli, più pronti, più esperti, lasciano trasparire emozioni più complesse, lasciano meno spazio all’immaginazione infantile. Il primo su cui cade il mio sguardo è Giulio. Sta lì, in piedi contro la porta grigia del garage, le mani sprofondate nelle tasche dei jeans consumati – è una toppa quella che s’intravede sul ginocchio sinistro – i lunghi capelli neri legati nella sua solita coda bassa, un accenno di barba sul volto pallido, un sorriso che però non si estende agli occhi scuri, dove aleggia quella perenne aria composta, seria, sicura, che sembra non scalfirsi mai, quella compostezza di cui solo Giulio è capace, quella placida tranquillità che non lo abbandona mai, quel rigore che pare prendere fuoco solo quando Giulio siede dietro la sua batteria e inizia a suonare. Giulio in quella foto sembra – e lo era veramente – il più adulto di noi quattro, quello che sa cosa fare e quando farlo, che non si lascia sfuggire di mano niente, che ha un rimedio per tutto. Giulio che, anni dopo, mentre ci rovinavamo con le nostre stesse mani, è stato l’unico capace di riportarci alla ragione. Alla sua destra, un sorriso allegro sulle grandi labbra e un guizzo divertito negli occhi neri, c’è Luca. Luca che è tornato ad essere il mio migliore amico, Luca che ora è innamorato, e la cosa è talmente evidente che sembra urlarlo anche nella foto, sembra che la sua posa scherzosa contro la porta – le mani sulle spalle degli altri due, le gambe allargate, i piedi storti, una sigaretta spenta dietro l’orecchio destro – sembra che dica "si, sono tornato, sono ancora qui e sono pazzamente felice", Luca con il suo abbigliamento preciso, accurato, ben tenuto, che come al solito stona con il nostro sgualcito, vecchio, consunto, Luca con i capelli corti come noi non li abbiamo mai avuti, Luca con gli occhiali, il colletto della maglia ben stirato, le scarpe pulite, la faccia da bravo ragazzo. Luca che è tornato ad essere il mio migliore amico, Luca che sembra avermi accettato nella mia nuova realtà, Luca che è tornato ad essere il nostro tastierista un po’ timido, quasi imbarazzato dal rock. E infine, accanto a Luca, una gamba piegata contro il garage e le mani dietro il collo, c’è Alessio. Bello, pazzamente bello anche alla grigia luce di un triste novembre, bello da togliere il fiato, bello nella sua enorme felpa grigia – tutto è grigio in quella foto – bello nel suo sorrisetto malizioso ovviamente diretto a me, bello negli occhi verdi che fissano l’obiettivo, sprezzati, sicuri, arroganti, bello come l’assente sole di novembre. Alessio che continua con me questa pazza segreta storia di baci, di abbracci rubati, di carezze furtive, di sguardi lascivi durante le prove, di mani che s’incontrano per lasciarsi andare subito, di desideri inconfessati e passioni che si accendono. Dietro di loro il cielo grigio, le nuvole cariche di pioggia, minacciose di scaricare al più presto sulla Terra il loro pesante fardello, un albero spoglio, la porta metallizzata del garage, il prato secco.

La musica continua a uscire dallo stereo, assumendo toni bassi, tenebrosi, rochi, lamenti lontani, grigiori simili a quelli della foto. Non verrà stanotte. E’ partito un’altra volta, e Dio solo sa quando lo rivedrò di nuovo. Parte così, all’improvviso, avvertendomi con un arido messaggio in segreteria, un biglietto sul cuscino dopo una notte d’amore, un messaggio sul cellulare. Parte e mi lascia solo in questo piccolo appartamento di Parigi, a circondarmi di ricordi, di musica, di profumi e vecchi libri.

Alessio corre verso di me, corre senza preoccuparsi della gente che urta, di quelli che lo guardano stupiti, di quella vecchietta che ha appena toccato, rischiando di farla cadere. Corre come se non gli importasse altro, corre come se lo portasse il vento, corre come se lui fosse lo stesso vento. E quando arriva mi guarda senza dire una parola, mi guarda e mi bacia, incurante dei passanti, dei bigotti, dei benpensanti. Alessio mi bacia, e mi spinge in un angolo buio della strada, un vicolo pieno di rifiuti, dove si sentono i rumori dei topi e dell’acqua che scorre nelle fogne sotto di noi. Ci accasciamo per terra, Alessio che continua a baciarmi, che mi sfila la cintura dai pantaloni, che slaccia i suoi jeans e poi i miei, Alessio che mi spinge contro il muro freddo, duro, umido, Alessio che mi sussurra parole di passione all’orecchio, Alessio che mi dice di fare l’amore con lui, ora, subito, in quel vicolo sporco, freddo, angoscioso. Alessio e i suoi occhi verdi accessi di desiderio, Alessio e le sue carezze che nessun altro mi aveva mai dato, Alessio che afferra le mie mani, che accoglie i miei baci, Alessio che accarezza i miei capelli, che si lascia graffiare le spalle per il mio dolore, Alessio che mi lascia affondare le unghie nella sua carne mentre trattengo un urlo, Alessio che sfiora il mio viso con i suoi lunghi capelli. Alessio…

Fuori il sole sta tramontando. Non ho fame, non ho voglia di alzarmi e sedermi solo a quel tavolo di legno scuro, ad aspettare che lui torni, ad aspettare di rivedere il suo sorriso, i suoi occhi velati dai capelli lunghi, non voglio alzarmi da questa poltrona dove pian piano sto mettendo insieme i pezzi della mia vita. Una sigaretta accesa, una sorsata di vino rosso, ed ecco, prende forma un altro ricordo.

Solito pub, solita aria pregna di fumo, alcol, musica, soliti noi seduti attorno al solito tavolo, solito umore, solita sera, solita vita da adolescenti scazzati. Sul palco una batteria vuota, un microfono senza cantante, l’attesa del gruppo che sta per suonare. Luca tiene la mano della sua ragazza, che stasera è di una bellezza allucinante, sconvolgente, che non può far altro che rapire gli sguardi di tutto il locale, una bellezza accentuata dalla castità del suo vestito scuro, dal fascino tranquillo dei suoi occhi neri come la pece, dalla semplicità della sua pettinatura – una lunga treccia che raccogli i suoi vaporosi capelli dal colore del cioccolato – dalla morbidezza delle sue forme – altri li chiamerebbero chili di troppo - una bellezza che sminuisce quella di tutte le altre ragazze presenti nel locale, che non parole sufficienti per essere descritta, che la rende la ragazza più affascinante che io abbia mai visto. Anche Giulio è con la sua ragazza, ma non la tiene per mano, si limita a giocare con i suoi lunghi capelli neri di tanto in tanto, schioccandole un bacio ad un lato della bocca, fissandola nei suoi glaciali occhi azzurri. Tutto sembra freddo in quella ragazza, tutto sembra contrastare con la morbidezza, la dolcezza dell’altra, tutto pare rigido, dai toni oscuri, bui, che si accompagnano perfettamente a quelli di Giulio. Alessio mi tiene un braccio attorno al collo, nella solita posa che adotta quando siamo al pub, e ogni tanto mi guarda, come in attesa di una mia reazione. E’ strano Alessio, questa sera. Pare preoccupato, sembra aspettare che succeda qualcosa. Glielo leggo nello sguardo, lo vedo nei suoi occhi, lo vedo da come mi guarda, da come mi parla. Poi, ad un tratto, le luci nel locale si abbassano, e sul palco entrano tre ragazzi vestiti di scuro. Uno, il più basso, si piazza dietro la batteria, i capelli biondi a coprirgli quasi intermante il volto; un altro, dai capelli castano scuro, arruffati in tanti riccioli – quasi come i miei – entra portando in mano un basso, salutando con una mano il pubblico. E poi entra il terzo, e il mio cuore pare bloccarsi per un attimo. E’ lui. E’ quel ragazzo dai capelli color porpora, quel ragazzo che ha fatto incantare il mio sguardo e palpitare il mio cuore, che mi ha dato la conferma a quella risposta che stavo cercando, che seppur inconsapevolmente mi ha data il coraggio di accettare la mia realtà omosessuale. E’ quel ragazzo alto, magro, dalla pelle lattea e i capelli coloro fuoco, è quel ragazzo il cui fascino è quasi palpabile, tangibile nell’aria attorno a noi, che lascia a bocca aperta tutto il pub, a fissare quella meraviglia che sul palco sta afferrando la sua chitarra e avvicinarsi al microfono. E io sento il braccio che Alessio tiene attorno a me irrigidirsi, sento il suo sguardo penetrarmi, sento la preoccupazione di Alessio e la sua tensione. Ma non posso farci niente, il mio sguardo continua a dirigersi verso il palco, verso quel ragazzo che inizia a cantare, e la sua voce è bassa, roca, profonda e allo stesso tempo dolce come il miele, sento il mio cuore vibrare d’emozione, il mio desiderio farsi vivo, la mia anima spingersi verso di lui. E quasi inconsciamente sposto il braccio di Alessio e mi alzo, per dirigermi più vicino al palco, per guardarlo meglio, per studiarne i tratti, per vedere i suoi movimenti. E rimango lì, inerme, inebetito da lui, dalla sua voce, dalle sue movenze, rimango lì fino a quando il concerto non finisce, e i tre scompaiono dal palco. Quando finalmente mi volto e guardo il nostro tavolo, Alessio non c’è più. E’ sparito.

La notte è calata definitivamente su Parigi, avvolgendola con il suo manto scuro, seducente, dal fascino ammaliatore, a cui è impossibile resistere. L’ ha dipinta di luce viva, l’ha puntellata con le sue stelle, con la superficie lunare grande, tonda, spettralmente bella. La notte ha un fascino tutto particolare, che non tutti sanno amare. Io si. Io l’ho sempre saputo fare. Ho amato il fascino torbido della notte, come di tutto il resto. Ho amato le parti più oscure dei miei amanti, il loro buio, i lati oscuri e più profondi.

 

I suoi occhi mi fissano in una maniera che non avevo mai visto. Incastonati nei miei, immobili, privi d’espressione, di qualsiasi emozione. Freddi, glaciali, esattamente come è il suo volto ambrato. Poche parole, dure, aspre, come ghiaccio che ti scheggia la pelle, come pioggia che ti cade addosso, come fuoco che ti brucia, come luce che ti acceca.  Alessio è in piedi, davanti a me, e mi guarda. E mi parla. Mi parla di noi, di me, di lui, di quello che doveva essere un amore, di quella che non doveva essere solo passione, mera attrazione fisica, puro sfogo sessuale. Mi parla di quello in cui sperava per noi, mi parla di come aveva capito di amarmi, mi parla di come inconsapevolmente ero riuscito a domarlo. Mi parla Alessio, continuando a fissarmi con quei suoi occhi verde prato, che ora sono glaciali nello sguardo, sono aridi nelle emozioni. Alessio è calmo, pacato. Ma io riesco a vedere il fuoco dell’ira in lui. Ha visto il mio sguardo l’altra notte. Ha visto come stavo guardando lui, come i miei occhi si dirigevano naturalmente a cercare la sua figura, come ero rapito dai movimenti delle sue mani e delle sue gambe. Alessio ha capito che non lo amo. Alessio l’ha capito prima di me. Ero convinto di amarlo, ero convinto che fosse lui quello che stavo cercando, ero convinto che avremmo avuto altri giorni felici, altre foto, altri baci, altri pomeriggi passati a fare l’amore nascosti in giardino. Ero sicuro di me e Alessio. Ma ancora una volta lui, quello splendido ragazzo dai capelli rasta e dagli occhi verdi, ha saputo leggermi dentro prima che lo facessi io. Alessio se ne va, e i suoi occhi non accennano a perdere quell’aria glaciale che mi spaventa, mi fa rabbrividire.

 

E sebbene Alessio non faccio più parte della mia da talmente tanto tempo che non ricordo più quanto sia, sebbene stenti a ricordare la sua voce, il suo profumo, sebbene lui resti solo una parentesi della mia vita – una parentesi che ricorderò fino alla morte – sebbene ora nella mia vita ci sia lui, ripensando alla durezza del suo sguardo quella notte, al ghiaccio che mi seminò nel cuore, se ripenso a tutto quello non posso fare a meno che piegare la testa sul cuscino e lasciare che scenda una lacrima amara.

 

Alessio se ne è andato. E’ un freddo pomeriggio di gennaio, illuminato da un sole lieve, da una sottile luce giallastra, che dà fastidio agli occhi e ti costringe a tenerli socchiusi.

L’aria è gelida, ti entra nei polmoni come una lama, ti sale alla testa. E io entro nel solito garage per le prove, intimorito dal rivedere Alessio, dal rivedere quei suoi occhi così duri di qualche sera fa – non ci siamo più incontrati da allora – intimorito dal rivedere lui, così bello e col cuore spezzato da me, intimorito dalla reazione che potrei avere, che potrebbe avere. Entro e per un attimo mi pare di vederlo, lì, in piedi appoggiato al muro, il suo basso a tracolla e lo sguardo strafottente in viso. Ma Alessio non c’è. E’ solo un’illusione la mia.

Alessio non è lì. C’è Giulio seduto alla batteria, Luca dietro le tastiere, la mia chitarra appoggiata al muro, ma lui non c’è. Alessio se ne è andato, e, probabilmente, non tornerà.

 

Ogni volta che penso a quei giorni mi viene da piangere. Ricordo quel periodo come vuoto, privo di significato, pieno di sensi di colpa, degli sguardi attoniti di Giulio e Luca, del loro non capire, delle prove interrotte a metà, del suonare senza voglia, dei sabato sera solitari, tristi, bui, chiuso in camera a fumare una sigaretta dietro l’altra. Vedevo poco mia madre, non sapevo più nulla della sua vita al di fuori della nostra casa, e forse era meglio così. Ogni volta che penso a quei giorni mi dico che sarebbe potuta andare diversamente, che avrebbe potuto essere diverso, migliore.

Forse non sarebbe stato il deprimente inizio di una vorticosa discesa delle nostre vite.

 

Ci serve un bassista. Ora che Alessio se ne è andato – è ancora una ferita aperta, che brucia, che mi scotta ogni volta che penso a lui, che penso a noi – ora che il nostro bassista non è più con noi. Abbiamo appeso un annuncio alla bacheca del liceo, abbiamo sparso la voce nei pub, e adesso siamo qui, seduti nel garage ad aspettare un ragazzo, uno dei pochi che si sono mostrati interessati. La sigaretta accesa mi penzola ad un angolo della bocca, le dita tamburellano sulle gambe, i piedi battono irrequieti a terra. Sono nervoso. Chissà come sarà. Certamente non come lui, con la sua passione, con la sua bellezza, con quelle dita nervose che strimpellavano le corde del basso, con lo sguardo sicuro ogni volta che si iniziava a suonare. Certamente non avrà il suo fascino ammaliatore, quella luce strana negli occhi, quei modi così seducenti. Certamente non sarà Alessio, il mio Alessio. Mio. Chissà se lo è mai stato sul serio. Gli è bastata una mia occhiata di troppo ad un altro per farlo scappare, un momento di debolezza per allontanarlo da me. La sigaretta finisce di bruciarsi senza che io me ne accorga e io mi accorgo che no, non era una debolezza, non era uno sguardo di troppo. Ero io. Sono stato io incapace di tenerlo con me, di dimostrargli che lo amavo – ma lo amavo sul serio? o era solo l’entusiasmo del primo bacio, della prima volta, quell’innamoramento sottile e fittizio che ho scambiato per amore – incapace di vederlo come lui vedeva me, di appartenergli totalmente e incondizionatamente.  La porta metallica del garage si apre ed entra lui. E’ alto, robusto, con i capelli castani raccolti in un codino spettinato, la barba bruna, lunga e incolta, e una sciarpa multicolore al collo. Ha un’aria distratta, occhiali da intellettuale che paiono voler nascondere le profonde occhiaie nere che gli solcano il viso, dei vestiti poveri, dall’aspetto consumatissimo. Si chiama Filippo. Gli stringiamo la mano uno per volta, osservandolo attentamente, cercando di capire che tipo sia. Poi iniziamo a suonare, e Filippo è indubbiamente bravo, e il basso nero che stringe tra le mani sembra far parte di lui, della sua immagine, esattamente come quello rosso di Alessio sembrava far parte di lui, ma con Filippo l’immagine è diversa: c’è rabbia nel modo in cui stringe lo strumento, c’è dolore nel modo in cui strimpella le sue corde, c’è tutto lo scazzo di questo mondo nel suo modo di suonare, tutto quello che nei modi rilassati di Alessio non c’era, tutto quello che in Alessio era calmo in Filippo pare agitato. E’ un turbinio di note, di parole urlate sopra la musica, di canti stonati e di nuove emozioni: è la prima prova del nostro nuovo bassista.

 

Filippo probabilmente è stata la figura più controversa che abbia mai conosciuto in tutta la mia vita. Non riuscivo ad inquadrare quel ragazzo, non riuscivo a capire chi fosse, cosa pensasse. Non sapevo chi era, ed ero sicuro – oggi le mie ipotesi sono state confermate – che non lo avrei mai saputo nonostante tutto il tempo che avessi potuto trascorrere in sua compagnia. Filippo era diverso da chiunque avessi mai conosciuto.

Lunatico, poliedrico, con una tempra artistica che non si limitava solo alla musica – Filippo dipingeva, scriveva, disegnava – Filippo sapeva ammaliarti, coinvolgerti oltre ogni limite.

Si rimaneva affascinati dai suoi discorsi: sentirlo parlare era entusiasmante, qualsiasi fosse l’argomento. Ma Filippo era difficile, nel vero senso del termine: nel suo mondo fatto d’arte e sogni non c’era posto per altri. Al massimo si poteva rimanere al limite, in bilico tra la realtà e lui, in un continuo oscillare di situazioni e sentimenti, dove si capiva solo a stento quale chi lui fosse, cosa lui fosse. Questo non capire Filippo, questo essere affascinati da lui e non riuscire a entrare in contatto con il suo vero essere ben presto ci portò alla consapevolezza che l’entrata di Filippo nelle nostre vite avrebbe potuto solo complicarle ulteriormente.

 

Che dirvi...Scrivere questa storia sta diventando sempre più complicato: le idee ci sono, ma metterle in pratica è un pò più difficile del previsto...

Continuo a ringraziare chiunque legga...

Ciocco

  
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