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Autore: Morwen_Eledhwen    29/03/2013    4 recensioni
E se le cose fossero andate diversamente?
Storia ambientata durante e dopo la battaglia alla barricata, con un nuovo personaggio (che, diciamolo, ha una pesante cotta per Enjolras): Angèle, che si reca alla barricata in cerca di Éponine.
Gli si avvicinò e quella fastidiosa sensazione di inferiorità si impossessò di lei come tutte le volte in cui aveva assistito ai suoi pedanti comizi: si sentiva inutile in quella rivoluzione, inutile per il popolo francese, inutile per il povero Gavroche. Enjolras, invece, pareva un angelo portatore di salvezza.
Genere: Azione, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Enjolras, Grantaire, Nuovo personaggio
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Perdonate l'immenso ritardo con cui aggiorno questa storia, ma ho avuto degli imprevisti. Spero che questo capitolo sia di vostro gradimento, altrimenti vi chiedo umilmente perdono!




VII. Empty Chairs At Empty Tables  
 




Ci mise qualche secondo per abituarsi al buio che opprimeva l’atrio dell’edificio che ospitava le stanze gestite da Madame de Lamartine, dopo la lunga passeggiata sotto il sole che quel giorno stava illuminando Parigi con tutta la sua forza.
Chiusa la porta d’entrata, Angèle si avviò su per la rampa di scale, chiedendosi per quale motivo il suo cuore stesse iniziando a battere più velocemente.
Giunta sul pianerottolo del secondo piano, avvicinò il viso alla porta della stanza dove si trovava Enjolras e tese l’orecchio per ascoltare: non udì alcun suono provenire dall’interno, ma, facendo più attenzione, le parve di sentire le voci di Grantaire e di Madame de Lamartine provenire dall’altra stanza. Cercando di non far rumore, abbassò la maniglia e spinse delicatamente la porta della stanza di Enjolras, sbirciando dentro: lui stava dormendo con i ricci dorati sprofondati nel cuscino, un braccio piegato dietro la nuca e l’altro abbandonato lungo il fianco. Pareva che anche nel sonno egli non volesse abbandonare la sua consueta espressione austera, poiché le labbra erano serrate in una morsa ferrea, ma in quella posa da divinità greca c’era qualcosa di umano, come se, dietro quella maschera di marmo, si celasse la fragilità di un bambino.
Sforzandosi di non guardarlo, Angèle si avvicinò alla sedia e vi pose con delicatezza la giacca rossa ancora umida sperando che si asciugasse in fretta, ma, prima di andarsene, non riuscì a resistere all’impulso di lanciare un’ultima occhiata in direzione dell’Apollo addormentato.
Aveva quasi varcato la soglia della porta per uscire dalla stanza, quando la voce di Enjolras la fece sobbalzare.
«Mi hai davvero lavato la giubba?»
Angèle si voltò.
«Sì», rispose timidamente.
«Ti ringrazio», le disse mettendosi a sedere sul bordo del letto.
Lei rimase pietrificata, ancora con la mano appoggiata alla maniglia della porta, faticando a credere alle proprie orecchie. Enjolras l’aveva appena ringraziata! Si era finalmente accorto della sua esistenza e di quello che stava facendo per lui?
A quel punto le tornò in mente la questione del conto del medico e, esitando, mosse qualche passo verso il centro della stanza.
Posò lo sguardo prima sui pantaloni scuri, poi sulla camicia bianca macchiata di sangue che, non allacciata fino all’ultimo bottone, lasciava intravedere una piccola parte di quel petto marmoreo, e infine su quel volto incorniciato da sinuosi boccoli lievemente scompigliati.
Ci mise qualche attimo prima di riuscire a calmare il battito del proprio cuore e riuscire a parlare con una certa disinvoltura.
«Io... Devo chiederti una cosa. Non ho abbastanza soldi per pagare il medico che ti ha curato, quindi vorrei chiederti se la tua famiglia sarebbe disposta ad aiutarmi a tale proposito», disse scandendo ogni parola.
Enjolras distolse lo sguardo e, prima di parlare, tacque per alcuni secondi.
«Purtroppo non ho più una famiglia.»
Angèle spalancò gli occhi.
«Oh, mi dispiace. Non sapevo... Come è successo?»
Enjolras fece un sorriso amaro guardando il pavimento.
«Tranquilla, non sono morti. Diciamo che le loro idee sono sempre state molto diverse dalle mie e non hanno apprezzato le mie scelte, quindi non mi ritengono più loro figlio e io non li ritengo più i miei genitori. Mia madre è la repubblica», disse in tono grave.
All’ultima frase Angèle alzò un sopracciglio.
«Probabilmente ora saranno convinti che io sia morto», continuò, «e staranno pensando che me lo sono meritato.»
Poi non aggiunse altro e un silenzio glaciale ripiombò nella stanza.
Angèle attese, chiedendosi se Enjolras stesse cercando un’altra possibile soluzione per risolvere il problema del denaro necessario per pagare il medico, ma l’altro pareva immerso in una fitta rete di pensieri che riguardavano tutt’altro.
Si schiarì la gola prima di chiedere: «Quindi come pensi di fare per trovare quei soldi?»
Enjolras parve risvegliarsi e, guardandola spaesato, farfugliò: «Ci penserò.»
Angèle, infastidita dal poco interesse che il ragazzo dimostrava nei confronti di quel problema, fece un respiro profondo volgendo lo sguardo verso il soffitto.
«Ma raccontami qualcosa di te... Vivi qui?»
Angèle lo guardò incredula: aveva sentito bene? Si stava davvero rivolgendo a lei? Nella stanza non vi era nessun altro, quindi pareva proprio di sì.
Enjolras le indicò la sedia.
Ancora con l’aria sbalordita, Angèle vi si sedette.
«Sì, vivo qui da quando ero piccola. Non so chi siano i miei genitori, l’unica persona che si è presa cura di me è stata Madame de Lamartine.»
Fece una pausa. Dovette distogliere lo sguardo da quel volto serio che la fissava, poiché non sarebbe riuscita a mettere insieme delle frasi di senso compiuto guardandolo negli occhi.
Poi si ricordò del giuramento che aveva fatto a se stessa e si fece forza: Enjolras non era nient’altro che una persona come tante altre che non avrebbero mai oltrepassato la barriera della solitudine che l’accompagnava da quando era bambina.
«Lei è un’affittacamere, ma non sempre gli affari vanno bene. Sono pochi i visitatori che si fermano qui per più di una notte, perciò non ho mai avuto molta compagnia.»
«Io però ti ho già vista», intervenne Enjolras.
Angèle alzò lo sguardo e rimase disorientata da quell’affermazione e dalla profondità di quegli occhi che avevano il colore degli abissi dell’oceano.
«Io... sono venuta qualche volta agli incontri degli Amis de l’ABC, insieme ad Éponine», disse accompagnando il nome dell’amica con un sospiro.
«La ragazza che è stata uccisa alla barricata? Quella vestita da ragazzo?»
«Sì.»
«Come mai? Eravate interessate alle nostre idee?»
«In realtà era perché Éponine era innamorata di Marius», disse lei arrossendo un po’.
«Capisco», disse Enjolras con uno sguardo chiaramente deluso.
«Io... non ci capisco molto di politica», azzardò lei per giustificarsi. Come sempre si sentiva piccola e ignorante di fronte a quel ragazzo pieno di ideali.
«Non è questione di politica», le spiegò, «è una questione che riguarda anche te. Il popolo è oppresso, gli è stata tolta la libertà che gli spetta di diritto.»
 
 
Dopo aver salutato Madame de Lamartine, che se ne tornò al piano di sopra, Grantaire si diresse verso la stanza di Enjolras.
La porta era socchiusa e, dando un’occhiata, poté scorgere Angèle che, seduta sulla sedia, gli dava la schiena, ma di Enjolras vide solo qualche ciuffo di capelli che emergeva al di là della figura di lei.
Si fermò ad ascoltare qualche parola di ciò di cui stavano discorrendo, e subito non capì perché un certo brivido di fastidio gli stava percorrendo il corpo.
Il suo respiro si fece leggermente più rapido e infine riuscì a dare un nome a quella strana sensazione: era gelosia.
Da quando avevano salvato Enjolras alla barricata si era accorto dell’interesse di Angèle per lui, ma sapeva bene che tipo di persona era Enjolras e sapeva che difficilmente avrebbe posato il proprio sguardo su una fanciulla che non fosse una personificazione della Francia in un dipinto.
Eppure stava parlando con lei con una confidenza che era nuova per il suo carattere. Grantaire strinse i pugni. Dopo qualche secondo, però, si ricordò di quanto volesse bene ad Enjolras, che considerava quasi come una divinità. Dopotutto aveva partecipato ai ritrovi degli Amis de l’ABC solo perché era attratto dall’audacia e dalla forza intellettuale di quel ragazzo a cui tanto avrebbe voluto somigliare e che invece era l’opposto di lui stesso. Sospirò, mentre a quel brivido di rabbia si sostituiva un macigno che gli pesava sul cuore. Angèle non sarebbe mai stata sua.
Si voltò, scese le scale ed uscì nelle vie assolate della capitale, senza badare a ciò che gli stava intorno.
Senza neanche pensarci, si infilò nella prima bettola che trovò e, dopo aver contato gli spiccioli che aveva in tasca, ordinò un bicchiere di vino. Svuotò il bicchiere tutto d’un fiato sotto gli occhi sbalorditi dell’oste, al quale ne ordinò un altro.
Di fronte allo sguardo diffidente di quest’ultimo, Grantaire dichiarò: «pagherò tutto quello che berrò.»
«Siete veloce a trangugiare il vino», osservò l’oste mentre gliene versava ancora.
Grantaire non rispose.
Riportò il bicchiere alle labbra e lasciò che i sorsi di vino lo inebriassero, regalandogli quella meravigliosa sensazione che da troppi giorni non provava: era la magia dell’alcool, capace di cancellare ogni inquietudine ed offrire solo pace e allegria.
Sorrise, dimenticandosi di Angèle, di Enjolras e di tutto ciò che era accaduto nei giorni precedenti, mentre intimava all’oste di riempirgli di nuovo il bicchiere.
«Di solito preferisco bere dalla bottiglia», dichiarò ridendo.
L’oste non disse nulla, lanciandogli un’occhiata torva.
«Ma il vostro vino è così buono», continuò Grantaire, «che posso accontentarmi del bicchiere.»
Si guardò intorno e si accorse che l’interno del locale gli appariva tutto sfuocato. Era la sensazione che adorava di più.
«Finalmente. E non c’è nemmeno Enjolras che mi rimprovera», disse concludendo la frase con un sonoro colpo di singhiozzo.
«Ecco, Enjolras, io ho il vino, tu tieniti pure la tua donna! Ma non eri innamorato solo della Francia?!», urlò alzando il bicchiere in aria e guadagnandosi le occhiate accigliate di tutti i clienti della bettola.
Poi spinse di nuovo il bicchiere verso l’oste perché gli versasse ancora del vino, mentre il suo viso assumeva un’espressione profondamente amareggiata.
«Sono uno stupido», mormorò tra i colpi di singhiozzo, «un buono a nulla.»
Dopo qualche secondo si rivolse all’oste: «Dove sono Combeferre, Prouvaire, Courfeyrac, Joly e gli altri? Mi pare di non averli più visti da qualche giorno».
L’oste alzò le spalle, voltandosi dall’altra parte.
«Dove sono?!?», ripeté Grantaire alzando la voce.
«Non so di chi parliate. Siete ubriaco», gli rispose l’oste.
Grantaire si fece pensoso e, dopo aver scolato l’ennesimo bicchiere, crollò con la testa sul bancone, iniziando a russare sonoramente.
 
«Hai fame?», chiese Angèle.
Enjolras la guardò come se volesse studiare il suo viso. Questo la faceva sentire piuttosto a disagio.
«Un po’ sì», disse infine.
«Potremmo mangiare qualcosa. Vado a chiedere a Madame de Lamartine se ha ancora qualcosa nella dispensa.»
Enjolras annuì.
«Vado anche a chiamare Grantaire», aggiunse Angèle con un sorriso.
Mentre usciva dalla stanza si rese conto di essere felice.
Perché poi? Aveva semplicemente fatto quattro chiacchiere con Enjolras, nulla di più. Ma la sensazione che quelle poche parole avevano suscitato in lei le parve molto piacevole. Dopotutto, non aveva bisogno di altro: qualche parola gentile le bastava per colmare il vuoto che da tempo albergava nel suo cuore.
Si diresse verso la stanza da cui poco prima aveva sentito provenire le voci di Grantaire e Madame de Lamartine, ma la trovò vuota.
Così, sempre con un’espressione che pareva un misto tra l’allegro e lo spensierato, si lanciò su per le scale.
Giunta nella stanza di Madame de Lamartine, la trovò seduta al tavolo, intenta a fare dei conti su un foglietto.
«Hai visto Grantaire?»
«Oh, ciao Angèle», rispose la donna sollevando lo sguardo, «non è andato dall’altro ragazzo?»
«No, c’ero solo io con Enjolras», disse Angèle chiedendosi dove potesse essere finito Grantaire.
«Forse è uscito», suggerì Madame de Lamartine.
«Sì, forse», rispose Angèle.
Ma dove era andato, senza dire niente né a lei né ad Enjolras? E se dei soldati l’avessero trovato? Angèle rabbrividì.
«Vado a cercarlo. Potresti preparare qualcosa da mangiare per Enjolras?»
«Va bene.»
 
Scese le scale di corsa e, rientrata nella stanza di Enjolras, gli disse che, mentre lei sarebbe uscita per cercare Grantaire, Madame de Lamartine gli avrebbe portato del cibo.
«Vengo con te», le disse lui.
Angèle si perse per alcuni secondi nello sguardo di lui, prima di dirgli: «No, devi riposare. La ferita non si è ancora rimarginata del tutto.»
Enjolras stava per ribattere, ma poi cambiò idea ed annuì, tornando a sedersi sul letto.
«Intanto puoi mangiare», gli disse Angèle dirigendosi verso la porta.
«No, vi aspetto.»
Angèle lo osservò per l’ultima volta, rapita da quel volto angelico che, senza perdere la propria serietà, lasciava trasparire una certa dolcezza, naturalmente non voluta da quella mente inflessibile.
 
Una volta in strada, iniziò a fare congetture su quale direzione avesse potuto prendere Grantaire.
Perché era uscito senza dire niente? Angèle si morse il labbro. Avrebbe potuto essere ovunque.
Forse era tornato a casa propria? Si rese conto di non sapere dove abitasse. Avrebbe potuto chiederlo ad Enjolras, che sciocca. Si portò una mano sulla guancia con fare meditabondo, mentre percorreva senza meta le stradine del quartiere.
Forse era tornato alla barricata? Angèle scelse quella direzione, guidata dalla curiosità di vedere se vi fossero ancora tracce della tragedia che lì si era consumata, più che dalla speranza di trovarvi Grantaire.
Guardandosi indietro ogni pochi passi per assicurarsi di non essere seguita da poliziotti, Angèle giunse in via Chanvrerie: quello che vide le strinse il cuore.
Ciò che rimaneva della barricata era solo qualche pezzo di legno abbandonato in mezzo alla strada, mentre la taverna che aveva rappresentato il quartier generale della rivoluzione pareva un vecchio rudere, con le finestre rotte e calcinacci e pezzi di vetro tutt’intorno.
Consapevole dell’enorme rischio che stava correndo, decise di entrarvi, dimenticandosi di Grantaire.
L’interno era anche peggio dell’esterno: pareva che fosse passato un ciclone e avesse lasciato frammenti di porte, scale e finestre come segno del suo passaggio.
La visione peggiore, tuttavia, erano le macchie di sangue che decoravano il pavimento e le pareti. L’orrore e la paura che aveva provato nel momento in cui si era nascosta nel ripostiglio insieme a Grantaire le tornò alla mente con una forza tale che dovette appoggiarsi ad una parete per non crollare a terra.
Tutti i cadaveri erano stati portati via, ma tutto, in quella stanza, parlava di loro: il sangue, le bottiglie rotte, la bandiera rossa abbandonata sul pavimento, le scale che Enjolras aveva tentato di demolire per salvare se stesso e i propri compagni.
Dopo alcuni lunghissimi minuti in cui i ricordi di quegli orribili momenti le oscuravano la mente, Angèle decise di salire al piano superiore, saltando i gradini mancanti o quelli pericolanti ed aggrappandosi al corrimano di legno per non cadere.
Giunta di sopra, quello che le si presentò davanti agli occhi non fu un panorama molto diverso da quello che caratterizzava il piano inferiore: anche qui il sangue dei martiri della libertà aveva macchiato pareti e pavimento, quasi a voler ricordare il loro sacrificio.
La stanza era vuota, fatta eccezione per un piccolo tavolino che, stranamente, non era stato usato per la barricata. Su quel tavolino, qualcosa attirò lo sguardo di Angèle: sembrava un foglietto di carta.
Si avvicinò e, dopo averlo afferrato, lesse le righe che qualcuno aveva scritto con una grafia tremolante, sbavate qua e là da piccole macchie che forse erano state delle lacrime:
 

C’è un dolore che non si può esprimere a parole
C’è un dolore che non se ne va
Sedie vuote a tavoli vuoti
Ora i miei amici sono morti.
 
Qui parlavano di rivoluzione
Fu qui che accesero la fiamma
Qui cantavano del domani
Ma il domani non è mai arrivato.
 
Dal tavolo nell’angolo
Potevano scorgere un mondo rinato
E si alzavano con voci squillanti
Riesco a sentirle adesso
Proprio le parole che avevano cantato
Divennero la loro ultima comunione
Sulla barricata solitaria, all’alba.
 
Oh amici miei, amici miei, perdonatemi
Perché io vivo e voi ve ne siete andati
C’è un dolore che non si può esprimere a parole
C’è un dolore che non se ne va
 
Volti di fantasmi alla finestra
Ombre di fantasmi sul pavimento
Sedie vuote a tavoli vuoti
Dove i miei amici non si incontreranno più.
 
Oh amici miei, amici miei, non chiedetemi
A cosa sia servito il vostro sacrificio
Sedie vuote a tavoli vuoti
Dove i miei amici non si incontreranno più.

 
Una lacrima le scese sulla guancia e si unì a quelle che già avevano bagnato il foglietto.
Ripensò a tutti quei ragazzi a cui la vita era stata strappata senza pietà e le parve che qualcuno le stesse stringendo il cuore con una forza inaudita.
Ma chi aveva scritto quelle parole? Forse Grantaire? Le parve strano che quel ragazzo avesse una tale vena poetica... Ma, dopotutto, lei non lo conosceva abbastanza. E poi, chi altro avrebbe potuto essere? Oltre a lui ed Enjolras non c’erano sopravvissuti tra gli Amis de l’ABC... O forse sì?
Rimase in piedi di fianco al tavolino a farsi mille domande, mentre il pomeriggio lasciava lentamente il posto alla sera. Poi, asciugatasi gli occhi, nascose il foglietto all’interno di una manica e ridiscese le scale sconnesse per tornare verso casa.



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Adesso possiamo andare tutti quanti ad ascoltare "Empty Chairs At Empty Tables" e metterci a piangere in un angolino... Quanto è triste quella canzone? ç_ç
Quando riesco infilo da qualche parte qualche citazione dal libro di Hugo, soprattutto quando parlo di Enjolras... chi le trova vince una ciocca della chioma dorata del nostro leader rivoluzionario.... Ahah scherzo XD

Un enorme grazie a tutti coloro che recensiscono e a tutti coloro che seguono questa storia! Siete fantastici, davvero! Grazie!!! :)

 

  
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