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Autore: lalla    26/08/2004    1 recensioni
Si tratta di un vero e proprio romanzo, da me scritto qualche anno fa. Dopo averlo riveduto e ritoccato, ho deciso di pubblicarlo. A puntate, naturalmente. Le tematiche? L'immortalità e la storia, tribolata, affascinante e misconosciuta, degli afro americani.
introduzione (può contemporaneamente cancellare in autonomia questo messaggio)
Genere: Avventura, Drammatico, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo ventunesimo

Capitolo ventunesimo

 

    -Non potrei, da fidanzata, continuare a vivere sotto lo stesso tetto con voi. Prima era diverso, ero semplicemente la vedova di vostro figlio, nessuna promessa ci legava. Siete un uomo d’onore, don Gregorio, senz’altro comprenderete quello che...

    Comprendeva, comprendeva perfettamente tutto quanto. E che fosse un uomo d’onore nessuno poteva metterlo in dubbio, a cominciare dalla splendida creatura pallida e bionda che gli stava davanti e si tormentava nervosamente le mani, mentre gli recitava, cercando di rendersi credibile, quella solfa mandata a memoria, ostica come la dottrina sciorinata  da una cresimanda timida al cospetto di un arcigno curato. Don Gregorio le afferrò le mani, stringendole fra le sue quasi fino a farle male. Erano gelide e sudate, ma anche belle, lunghe e sottili come quelle delle negre. Lo avrebbe mandato in Paradiso, accarezzandolo con quelle mani, perché lui non avrebbe fatto il nesci come quell’imbecille di suo figlio, riposasse in pace, e alla verginella innocente avrebbe insegnato tutto ciò di cui un uomo della sua esperienza e della sua età sapeva, tutto ciò che una donna deve conoscere per poter far felice il suo compagno. Sarebbe stato magnifico, si diceva sa sé solo. Sicuramente meglio che con quell’insipida Isabel sposata senz’amore, forse anche meglio che con Chantal, se non altro perché, a sessantacinque anni, non c’era tra i piedi un don Vicente a cui dover rendere conto delle proprie azioni. Perfino meglio che con Eclipse, un bell’animale nero e nient’altro, e certamente molto di più che con le  imbellettate e spesso anche stagionate femmine dei bordelli dell’Avana. E poi si sarebbe potuto godere quel fior di figliola in pace con Dio, con il mondo e con padre Antonio. Non gli aveva promesso amore, Flor, ma era stata ragionevole. Patti chiari, amicizia lunga, inoltre non era in condizioni di rifiutare. Docile e condiscendente con lui lo sarebbe stata in ogni situazione, anche a letto. Lo avrebbe reso presto padre e quegli odiosi cugini Reyes che già sbavavano al pensiero d’allungare le zampe sulla Finca Dorada, si sarebbero messi il cuore in pace una volta per tutte. E poi, perdiana, con due tette come quelle, chi non l’avrebbe invidiato?

    -Certo che comprendo le vostre ragioni , mia cara. Vediamo come potrei venire incontro alle vostre esigenze. Posseggo un piccolo appartamento all’Avana, un punto d’appoggio per me e per il mio amministratore durante i nostri soggiorni in città. Ma se vi mandassi tutta sola laggiù non sarei tranquillo, sfortunatamente esso è sito in un rione di dubbia fama, abitato da negri liberi e da avventurieri di tutte le risme. Inoltre non potrei, come desidero,avere ogni giorno il piacere della vostra compagnia. Men che meno, poi, desidererei che la mia promessa sposa soggiornasse in qualche albergo, voi neppure immaginate quanto siano sudici, rumorosi e mal frequentati gli alberghi qui a Cuba. La soluzione ottimale sarebbe affrettare quanto più possibile il matrimonio, anche se ciò, come ben sapete, dipende da altri e non da me. Ma forse, se non vi fa difetto lo spirito di adattamento, potrei proporvi una soluzione di compromesso.

    Flor non aveva certo dimenticato il fatiscente palazzo paterno, le grandi stanze piene di spifferi gelidi nella brutta stagione e zaffate roventi in estate. E nemmeno le cellette del convento, anguste come loculi e arredate con un letto troppo duro, una cassapanca tarlata,  un tavolinetto zoppo, una tendina grigia di polvere a riparo d’una feritoia attraverso la quale il sole non entrava mai. Ma, nelle condizioni in cui si trovava, pur di stare alla larga da don Gregorio, si sarebbe adattata perfino a risiedere in una stamberga, o nelle senzalas con i negri..

    -Non sono una donna capricciosa o di difficile contentatura, dovreste esservene accorto.

    -Benissimo. L’Osservatorio è sufficientemente confortevole e, benché sia esposto a Mezzogiorno, ha muri abbastanza spessi da garantirvi una buona difesa contro il caldo. A tutela del vostro e del mio onore, essa non è collegata alla  casa padronale da vie d’accesso palesi o segrete. Le stanze sono molto piccole, l’arredamento spartano, l’appartamento in cui dovreste alloggiare all’ultimo piano...

    -Sono giovane e forte, non saranno certamente quattro piani di scale a spaventarmi.

    -Da parte mia, faccio voto solenne che cercherò in ogni modo di rendere il vostro soggiorno all’Osservatorio quanto più breve possibile. Il Tribunale Ecclesiastico avrebbe potuto, come ben sapete, invalidare il vostro matrimonio a prescindere dalla circostanza disgraziata che vi ha reso precocemente vedova, per cui l’impedimento del lutto vedovile sarà sicuramente dispensato.

    Era molto pallida, Flor. E più magra di quando era sbarcata a Cuba, piena di speranze che il destino aveva brutalmente disatteso. Ma non era meno bella di allora, con quei grandi occhi limpidi e azzurri da bambina, e il corpo che conservava la sua appetitosa floridezza. Con il matrimonio, i problemi sarebbero finiti e anche la sua faccia avrebbe riacquistato serenità. Il Vescovo gli aveva detto che, in un caso come il loro, non avrebbero dovuto aspettare più di quindici giorni, un mese al massimo, prima di poter celebrare le nozze, e lui non vedeva l’ora.

    -Vorrei portare con me Luz, ma sta per avere un bambino, e nelle sue condizioni...

    -Portate con voi Eclipse. Sembra un po’ strana, ma è una brava donna, onesta, pulita e ordinata, e poi cucina benissimo. E’ maomettana, quantomeno lo era, quindi sarete giocoforza costretta a rinunciare al chorrizo* e alle salamelle...Ma non sarà per sempre.

    Don Gregorio aveva riso della sua battuta, e fatto schioccare la lingua. I denti gialli e smozzicati, gli erano balenati tra le spesse labbra pendule, mentre gli occhi infossati continuavano a fissare, sfacciati, il corpino ricamato dell’abito a lutto di Flor.

    -Non mi piacciono le salamelle. Non sarà un gran sacrificio.

    Un accenno di diniego breve, imbarazzato, il desiderio d’essere lontana mille miglia da quel luogo e dall’esame indiscreto degli occhi porcini di don Gregorio. Ci sarebbe vissuta una vita, nell’Osservatorio, piuttosto che dover sopportare per un minuto la compagnia di quel vecchio maiale.

    -Fu mio nonno, don Jaime De Almeida, a far costruire l’Osservatorio. Era l’unico, nella nostra famiglia, a nutrire un sincero amore per la cultura e la scienza:  spendeva un patrimonio per acquistare vecchi  manoscritti, si dilettava d’astronomia , capitava che se ne stesse giorni e giorni chiuso lì dentro in compagnia dei suoi cannocchiali e di un vecchio gatto, a studiare il corso delle stelle. Per nulla al mondo, avrebbe rinunciato a spiare lo spettacolo dell’Eclissi o del passaggio di una cometa. Era buono come il pane, ma piuttosto strano. I calzoni, in casa, li portava la sua seconda moglie,  la madre di  mio padre, una donna dura, energica, insopportabile a detta di tutti quanti, ma  con il suo polso di ferro ha impedito che la piantagione andasse in rovina. Fosse dipeso da lui...Neanche una bella donna come voi, credo, avrebbe avuto il potere di distoglierlo dai suoi libri e dalle sue stelle. Conosceva delle bellissime storie, sapete? E’ morto quando io avevo quattordici anni, incenerito da un fulmine mentre spiava il temporale con i suoi telescopi. L’ho pianto, ricordo, più di quanto non abbia pianto mio padre, don Vicente de Almeida. Era come sua madre, lui: duro, inflessibile, e non sapeva raccontare le favole... Da bambino, ricordo, gli avevo promesso che uno dei miei figli l’avrei battezzato col suo nome: don Jaime De Almeida. Sarebbe un bel nome, per il nostro primo figlio maschio, non trovate?

    Un bimbo. Tanti bimbi. Pregustava il momento, mentre le teneva la mano tra le sue e la guardava. Aveva gli occhi scuri come suo figlio, pensava Flor, ma quel che s’intravedeva di essi era una mezzaluna soltanto, persa tra il grasso e le borse livide delle sue palpebre. Forse aveva avuto ragione doña Sofia, a rinfacciarle la sua rinuncia al convento. Forse Dio la puniva per non essersi saputa sottomettere alla sua volontà, forse...Il tempo stringeva come una morsa, il destino le incombeva addosso come il soffitto semovente, irto di lame acuminate, d’ una camera di tortura. Javier non avrebbe potuto far niente per evitarlo, e quel che doveva essere sarebbe stato.

    Le guardava le labbra, le carezzava le mani. Le sue dita tozze erano calde e sudate. E le fece scivolare al dito l’anello con cui l’avrebbe legata a sé per sempre: una splendida perla, grande quanto un cece, trattenuta nel castone da un cerchio di brillanti purissimi. Ne sarebbe andata fiera, in circostanze diverse da quell’ incubo e come quando, sulla nave, aveva dovuto affrontare giornate di mare cattivo, faticò a ricacciare il conato di vomito che le era salito alla gola.

 

Capitolo ventiduesimo

 

    -Non se la sente di mentire a un uomo di Dio, mi ha detto così.

    Eclipse. Che diavolo voleva, e perché lo guardava in quel modo, gli occhi neri, accesi da pagliuzze dorate, graffiati agli angoli da un ventaglio di piccole rughe, intensi e magnetici nella cornice delle lunghe ciglia? Aveva gli stessi occhi di Javier, di suo figlio. E’ anche mio figlio, pensava don Gregorio, e lei è  bella come quando me la sono presa, con quei denti  ancora tutti sani, bianchi e forti tra le labbra livide, con quei canini poderosi che la fanno rassomigliare a un angelo caduto, a una figlia del demonio.

    -Doveva essere venuta lei.

    -Ha avuto vergogna, così mi ha detto.

    Beh, era una ragazza timida, Flor: un po’ per sua natura, un po’ per l’educazione che aveva ricevuto e forzare la sua indole a cambiare sarebbe stato del tutto inutile. Ma pochi giorni ancora, e di suo marito non avrebbe avuto più vergogna, succede così a tutte quante.

    -C’è che vostro figlio, don Javier... Beh, lui si è comportato da uomo, con sua moglie. Il lenzuolo e la camicia di doña Flor erano sporchi di sangue, amo. Lo so perché li ho lavati io. E non era il sangue delle sue lune, quello:era sangue vivo. Non sono nata ieri, so distinguerli. Doña Flor si è sempre vergognata a  dirlo, e anche il povero don Javier era come lei. Ma adesso non se la sente di mentire a un uomo di Dio, non vuole dirgli che suo marito non l’ha mai toccata, perché non è vero.

    Eclipse continuava a fissarlo con quei suoi grandi occhi incapaci di mentire, bella come ventisei anni prima. Ma perché quel babbeo di suo figlio non gli aveva mai detto niente? Si vergognava di suo padre, forse? E che cosa le aveva raccontato, dopo averla sverginata, “Coraggio, il peggio è passato”, o qualche altra amenità del genere?

    -Non ti credo, dannata puttana nera: tu menti.

    -Mi conoscete, amo.

    -Allora vuol dire che sbagli. Eh già...Tutti possiamo sbagliare.

    -Non una donna di quarant’anni e non su certe faccende.

    Beh, quanti anni aveva, lei? Quarantadue, quarantatre? Forse nemmeno lo sapeva. Ma di certo non era né ingenua, né sprovveduta né stupida: impossibile che non riuscisse a distinguere il sangue scuro grumoso e maleodorante del ciclo mestruale da quello rosso e fresco di una deflorazione.

    -Non farne parola con nessuno.

    -Vi sono sempre stata fedele, amo.

    -Non importa. Era giusto che così fosse. Eppoi, beh...Meglio una bella rosa scarlatta che un insipido giglio bianco, non è vero?

    Gli tremava la voce, e gli occhi cercavano disperatamente di sfuggire al suo sguardo, come un animale che s’avvii senza scampo verso la trappola. Gli aveva mentito: era la prima volta che lo faceva. Non avrebbe mai creduto che sarebbe stato tutto quanto così facile, non avrebbe mai creduto di poterlo tenere in pugno, don Gregorio che aveva comprato la sua vita per una manciata di pezzi d’oro, ventisei anni prima. Era stato suo figlio, a chiederle di farlo, e quasi piangeva. Povero ragazzo, affatturato dalla malia dell’amore, di un amore impossibile dal quale non sarebbe venuto fuori niente di buono, anche se cercare di farglielo capire era lo stesso che parlare al muro.

“Sarebbe ora che te ne cercassi una come te, hai quasi ventisei anni”, gli diceva e lui la guardava con quegli occhi neri e stregati, identici ai suoi, poi scuoteva la testa come a dire “Raccontalo a un altro”. Quella bugia sarebbe almeno servita a salvargli la pelle perché, anche se non era mai andato a cercarla all’Osservatorio (se ne sarebbe accorta, dormiva in uno sgabuzzino accanto alla camera della padrona e aveva il sonno molto leggero, lei), sicuramente aveva già fatto sua doña Flor e se don Gregorio avesse saputo o anche semplicemente sospettato la verità, non avrebbe esitato ad ammazzarlo.

    -Se il Vescovo ti chiamasse a testimoniare, tu nega. Nega sempre, maledetta puttana nera. Doña Flor, come che sia andata, è vergine, hai capito? Nessuno l’ha mai toccata, nemmeno mio figlio. La tua parola contro il mio denaro, cagna...Pensi che ti crederebbero?  

 

Capitolo ventitreesimo

 

    -La tua parola contro il mio denaro. Ha detto così.

    -Il Vescovo è un uomo di Dio.

    -Il Vescovo è un uomo dei soldi, Flor: esattamente come tutti quanti gli altri. Un uomo debole, avido e corruttibile. Sono tutti quanti così.

    Una smorfia amara aveva piegato in giù gli angoli della bocca di Javier. Quando sarai triste lo sarò anch’io, si diceva Flor da sé sola, ma perché era diventato, tutt’ad un tratto, così pessimista? Non era sempre lui, quello che le faceva coraggio e le asciugava gli occhi e le prometteva “Ce ne andremo di qui” come se fosse stato davvero possibile?

    -Dio è giustizia, Javier.

    -Gli uomini non sono Dio. Non ci credo, negli uomini e nella loro giustizia. Sono tutti quanti uguali, loro: dei soldi, del piacere dei sensi,  del potere politico, del diavolo...Non esistono uomini di Dio, Flor.

    Gli occhi neri e dorati non si divertivano più a giocare con i suoi, e l’espressione della sua faccia era tesa, mentre si stringeva nelle spalle, rassegnato e deluso come colui che assiste al crollo di tutte quante le sue illusioni. Non poteva esserci via di scampo, sua madre non gli aveva nascosto niente. Non era come le suore del convento dove Flor era stata allevata, Eclipse. Eppoi la verità non è un cavallo riottoso che con un po’ di pazienza si riesce ad addomesticare. La verità è una, non sono tante, e spesso è anche parecchio sgradevole. Non c’è giustizia, al mondo, ed è inutile sperare che ce ne sarà in futuro. Dio sta in alto e gli uomini fanno quello che vogliono, si strappano la carne di dosso l’un l’altro come bestie feroci, si calpestano e s’ammazzano per i loro sporchi tornaconti. Chi sta in alto comanda, chi sta in basso tace, ubbidisce e subisce. Non esistono uomini di Dio e la giustizia è solamente un’illusione.

     -Il peso delle parole non è sempre uguale, Flor. E non è la verità a farlo salire e la menzogna a farlo scendere: sono i soldi. Pensi che il Vescovo prenderebbe sul serio le parole di una schiava, quando sull’altro piatto della bilancia c’è l’oro di don Gregorio?

     C’era fresco, tra le pareti annerite del vecchio affumicatoio, e un odore penetrante di muffa, escrementi di topo e cenere fredda. Ormai non funzionava più come tale, ed era diventato una sorta di deposito per attrezzi in disuso dove non andava mai nessuno e facevano il nido le civette.

    -Attenta a non impolverarti le gonne, quel demonio se ne accorgerebbe.

    Quel demonio...Suo padre. Non l’onorava come avrebbe dovuto e come la legge di Dio gli imponeva, Javier il mulatto. E lei, in quanto fidanzata, lo onorava come avrebbe dovuto? Non lo aveva ancora tradito, ma i tempi erano maturi, e sarebbe accaduto, prima o poi. Rise nervosamente, e l’eco della sua breve risata stridula ruppe il silenzio, mentre Javier l’abbracciava e cercava la sua bocca.

    -Ti ho parlato di un pescatore, un po’di tempo fa. - le disse, serio e cupo - Lui ci porterebbe fuori di qui. Si metterà in viaggio quando si alzerà la marea, credo. Dodici, quindici giorni ancora. Speriamo che non sia già tardi.

    -Cercherò di prendere tempo. Potrei darmi malata, o...

    Bene, così si parla. Non mi piacciono le donne che piagnucolano sempre. Io la voglio forte, la mia donna, coraggiosa e risoluta come un’africana, non una bambola di gesso che al primo urto finisce in briciole. Ma forse tu non sei affatto coraggiosa, Flor. Sei soltanto ingenua. O con te la vita non è stata abbastanza cattiva, altrimenti  non diresti quello che dici, non crederesti in quello che ti si promette.

    C’era fresco, lì dentro, e Flor se lo sentiva sulla pelle, come le dita calde di Javier che la spogliava e l’accarezzava, come le sue labbra che le accendevano tanti piccoli fuochi nel sangue. Non lo avrebbe fermato, perché lo amava, perché lo voleva, ed era giusto che così fosse. Anche se i loro progetti di fuga erano destinati  a non realizzarsi, anche se quel maledetto vecchio fosse riuscito a sposarla, anche se si fosse stazzonata i vestiti, graffiata la pelle. Anche se don Gregorio, guardandola dentro gli occhi, avesse potuto leggere la verità. Di lì a poco, avrebbe sentito male. Parecchio male. Ma è fatale che ogni gioia si paghi con un tributo di dolore, forse perfino con il rimorso. Quello che stava per fare non andava fatto. Era colpa. L’avrebbe marchiata a fuoco, segnata, squalificata. Soltanto il matrimonio legittima l’amore. E soltanto per mettere al mondo  figli. Se giacerai tra le braccia di un uomo, se lascerai che lui ti veda nuda, ti baci, ti tocchi e si faccia toccare da te, e tu proverai piacere, marcirai all’inferno, Flor. “Non lo fo per piacer mio, ma per dar dei figli a Dio”, impresso a fuoco nella mente con il terrore della dannazione, stampato sui libri di devozione, inciso sulle testate dei letti nuziali, ricamato sulle lenzuola e su quelle oscene camicie con una fessura all’altezza del pube che le spose dovevano indossare sempre, a salvaguardia del loro pudore.

    Javier le era accanto, nero, grande, bello e potente. E nudo come lei. Non c’era niente di osceno e sgradevole, nel suo corpo perfetto. Non c’era rimorso che le tormentasse la coscienza, stretta in quell’abbraccio, divorata dai suoi baci impudichi, toccata dove mai avrebbe immaginato. Ma doveva accadere, era scritto tutto quanto nelle stelle.

    -Ti farò male, Flor mi vida.

    -Lo so.

    Era il prezzo della prima volta, e andava pagato. Dopo, non ci sarebbe più stato il dolore, ma il piacere soltanto. E il dolore che aveva provato era sfumato d’un piacere intenso, che le era esploso dentro per poi liquefarsi tra le gambe, rosso e vischioso. Adesso don Gregorio avrebbe creduto alle parole di Eclipse.

    La prossima volta sarà anche più bello. Ammesso che ci sarebbe stata, una prossima volta, pensava Javier. La gioia andava colta al volo, ma l’angoscia gli indugiava nella gola, come un cattivo odore. La marea. Quando sarebbe montata, poteva essere troppo tardi.

    -Tieni. Dallo al tuo pescatore, così ci pagheremo la traversata. Giamaica, Haiti...Hai deciso?

    -Il mondo è grande.

    Il bagliore dei diamanti, l’iridescenza della perla laceravano il buio muffito del vecchio affumicatoio.

    -Ma che cosa dirai a don Gregorio, quando si accorgerà che non ce l’hai più?

    -Era largo. Infatti lo è. Mi ballava al dito, e così l’ho perso. Ricco com’è, me ne regalerà  sicuramente un altro.

 

Capitolo ventiquattresimo

   

    Hai perso l’anello? Pazienza, te ne regalerò un altro. Hai ragione, quello era troppo largo per il tuo anulare sottile, sono stato uno stupido a non pensarci. I diamanti valgono più delle perle, gli smeraldi più dei diamanti. Portano fortuna, gli smeraldi, prosperità e amore. Simboleggiano la speranza nel domani, un domani in cui ci saranno tanti bambini, tanti piccoli De Almeida tutti forti sani e belli come la loro madre, la mia discendenza, fitta come polvere di stelle nel cielo,come quella che, nella Genesi, Nostro Signore aveva promesso al Padre Abramo in segno di riconoscenza per la sua fedeltà. E poi gli smeraldi stanno particolarmente bene alle donne bionde e tu sei bella, Flor, lo diventi di più ogni giorno che passa.

    Le avrebbe regalato anche la collana, il bracciale, il diadema da mettersi in mezzo ai capelli. Era giusto che chi la vedeva la invidiasse, doña Flor, la sposa  fortunata dell’uomo più ricco e più potente di tutta Cuba. E anche gli orecchini. Ricordò che alla sua promessa sposa, destinata fin da piccola al convento, non erano state forate le orecchie. Ma avrebbe potuto facilmente porvi rimedio, se lo avesse desiderato. A lui piacevano, i lobi delle donne ornati da lunghi pendenti. Chantal portava le ametiste, Eclipse, una schiava, semplici anelli d’oro liscio. Flor avrebbe avuto gli smeraldi. E sarebbe stata ancora più bella, se questo era possibile. Un sogno, che si sarebbe realizzato quando la vita ripiegava su se stessa e la consolazione veniva dai ricordi. I vent’anni di lei avrebbero guarito il male della vecchiaia, e se da parte sua non ci sarebbe stato amore, che importava? Lui l’amava, avrebbe fatto un paradiso della sua vita. Lei avrebbe finto quello che non provava, ma non  avrebbe osato respingerlo. Gli agi e il buon nome valevano, da parte sua, qualche piccolo sacrificio, e col tempo... Attribuiamo le virtù delle erbe medicamentose, al tempo, e ci sbagliamo, il più delle volte. Flor aveva vent’anni, lui quasi sessantasei. Ma tutto quanto ha un prezzo. Lo aveva avuto Chantal, quando don Vicente l’aveva pagata perché scomparisse dalla vita di suo figlio. L’aveva avuto Eclipse. E Flor non era diversa, malgrado fosse una gentildonna bianca, piuttosto che una schiava africana. In cambio di ricchezza e rispettabilità, mi darai il tuo corpo. Avrò dei figli da te, figli decenti, non un idiota o un bastardo mezzosangue. La stirpe sarà salva e mi avrai fatto felice. E’ un prezzo onesto, più di quello che il Vescovo ha preteso per dispensarti dall’impedimento del lutto vedovile. Già, è facile avere dalla vita quello che si desidera: apri la borsa, cacci fuori denaro sonante e quello che vuoi è tuo, anche una donna, anche la coscienza di un uomo di Dio. Il Vescovo aveva accettato senza batter ciglio la versione di don Gregorio, e non aveva preteso testimonianze, né che Flor fosse costretta a subire umilianti ispezioni corporali atte a verificare la sua presunta illibatezza. Ma che fosse vergine o no, cosa importava? Sarebbe stata sua per la vita, contava quello. Avrebbe diviso con lui casa e letto. Avrebbe generato i suoi figli.

    -Signore?

    Javier, con i conti della giornata. Era stanco, teso, come chi non dorme da diverse notti. Lavori troppo, ragazzo. Riposati, e cerca una donna che divida il letto con te. L’amore fa miracoli, te lo garantisco. O non è che ti sei messo in mente una che non ti vuole, proprio tu? Cercatene un’altra, figliolo, e quella lì lasciala perdere, non ti merita. Ma adesso sparisci, levati dai piedi e non chiedermi d’accollarmi i guai tuoi. L’hai capito, muso nero?

 

 

Capitolo venticinquesimo

 

    -Javier...Ci sei?

    L’ultima luce prima della notte illuminava a malapena la stanzetta vuota di Javier, e l’olio dentro la lanterna accesa si stava finendo di consumare. Aveva lavorato fino a tardi ai conti di don Gregorio, riempiendo fogli su fogli con quella sua calligrafia nitida ed ordinata, prima di uscirsene per andare chissà dove, forse a cercare quella che gli si negava, facendolo soffrire. Eppure era strano che un uomo del genere, con quell’aspetto magnifico e quella mente lucida e raziocinante potesse soffrire per amore. Avrebbe giurato che era immune, lui, da quel genere di malattie, che prendono per il solito i cervelli pazzi, le fantasie facili ad infiammarsi per un gesto, una parola, un’occhiata, un niente, o gli infelici con i quali Madre Natura è stata tutt’altro che prodiga. Un altro, ma non Javier. Eppure...Avrebbe voluto dirglielo, chiodo scaccia chiodo, amico. Cercatene un’altra, nelle senzalas tutte le donne, dalle bambine alle vecchie, spasimano per te. Mandala al diavolo, quella che ti fa soffrire. E’ così che ci si comporta, no? Magari sarà proprio la volta che verrà a cercarti, a sessantasei anni ancora non l’ho capito neppure io, che razza di pesci siano le donne. La vendo, se mi dici chi è. O, se ti va, la costringo: farà quello che vorrai.

    Sicuramente era andato a cercarla, Javier. Lei, o perché no, una delle tante che sarebbe stata disposta a consolarlo, in un angolino buio delle senzalas, in mezzo ai campi o da qualche altra parte. E s’era agghindato con gli abiti della festa, le brache e la casacca da lavoro se ne stavano ammonticchiate disordinatamente ai piedi del letto, a insudiciarsi in mezzo alla polvere del pavimento sterrato. Strano, meticoloso e ordinato com’era, con la sua roba e quella degli altri. Rispetta ciò che costa denaro gli aveva insegnato Eclipse. E ciò che costa fatica. E poi, che bisogno aveva d’agghindarsi a festa per attirare l’attenzione di una qualche puttanella di sangue caldo e dalla bocca buona che sicuramente gli abiti, della domenica o di tutti i giorni che fossero, non vedeva l’ora di strapparglieli di dosso?

    Auguri, bello. Auguri di tutto cuore. Se è vero che hai metà del mio sangue dentro le vene la spunterai, la spunterai com’è vero Dio, e allora riderai dinuovo, con tutti quei  bei denti bianchi sopra la faccia nera e la tua donna a braccetto...

    Qualcosa luccicava, sul pavimento sterrato della baracca: un sassolino venato di mica. O la crocetta d’argento che, per il solito, Javier portava al collo. L’avrebbe spogliata, accarezzata, baciata dappertutto, fatta delirare come una pazza. Se la sarebbe sbattuta come e quanto avesse voluto, l’avrebbe tenuta stretta tra le braccia tutta la notte e, insieme, avrebbero ascoltato la pioggia. Come lui e Flor. Presto, molto presto.

    Don Gregorio si chinò, raccattò da terra la cosa luccicante, insieme con una manciatina di polvere e foglie secche. Oro giallo. Una corona di piccoli brillanti. Una grande perla. L’anello di fidanzamento di Flor.

 

 

Capitolo ventiseiesimo

 

    -Flor. Troia.

     L’aria assorta, stupefatta. Forse era innocente. Forse quel negro era un ladro. Era possibile. Forse aveva trovato chissà dove l’anello di Flor e aveva in animo di restituirglielo. Forse... No, glielo diceva l’istinto. Lo aveva ingannato, con quella faccia d’angelo e quegli occhi limpidi, come aveva ingannato tutti quanti.

    Era bella, bella come la statua della Vergine sull’altar maggiore della Cattedrale, bella come l’amore. Era malvagia come un inganno che regala notti insonni e propositi di vendetta.

    A sessantasei anni, non c’è sentimento che un uomo non possa dire di non aver provato: invidia, collera, felicità, disperazione, orgoglio, vergogna. Anche l’amore, che l’aveva sorpreso e soggiogato con tutta la sua forza proprio quando, di solito, la vita e i pensieri ripiegano su se stessi e le gioie dell’esistenza diventano altre. Con Chantal era stato un impulso del suo sangue giovane, con Isabel un dovere imposto dagli altri, con Eclipse uno sfogo dei sensi. Con Flor era stato amore, amore vero, anche se lei non lo aveva creduto, ma che importava?

    La lunga camicia di seta modellava con grazia le sue belle curve. Non l’aveva mai vista così, semisvestita, il sonno non ancora svanito del mattino, il sonno di un risveglio brusco e inatteso dentro gli occhi stupiti. Un altro se l’era goduta. Un altro che non era lui e non era stato neppure quel disgraziato di don Javier, come quella maledetta cagna di Eclipse aveva tentato di dargli a bere. Forse avevano passato insieme anche la notte appena trascorsa, quella stessa notte che a lui aveva cagionato malessere, insonnia e domande senza risposta. “Fate che sia innocente, Signore, fate che mi sbagli...”Anche se il cuore gli diceva che non sbagliava a sospettare, che Javier quell’anello non l’aveva trovato chissà dove né, tantomeno, rubato. Come aveva fatto a non cogliere l’espressione dei suoi occhi, i suoi gesti languidi e molli non di ragazza che non sa niente ma di donna fatta, che ha conosciuto in maniera totale e appagante il piacere dei sensi?

    -Flor. Maledetta troia...

    Niente l’aveva preparato al dolore terribile che può provocare la gelosia. Aveva conosciuto il dolore del distacco, a venticinque anni, quello della delusione a quaranta. Era guarito, malgrado tutto. Ma Flor... Era come se gli avesse cacciato, mentre fingeva di abbracciarlo, un lungo coltello nella schiena. Lei e Javier avevano ripagato la sua fiducia con la moneta del tradimento.

    -Vieni qui, maledetta...Non ti rifiuterai ad un gentiluomo bianco dopo esserti data a un negro...

    La marea stava montando, le aveva detto Javier, appena poche ore prima. Ho parlato con quel pescatore che ti dicevo. Ce ne andremo, Flor, e presto.

    Forse era una follia, ma da quella follia le sarebbe venuta la forza di guardarlo negli occhi e di mentirgli anche se non le avrebbe creduto, forse perfino di ammazzarlo, pensava Flor mentre don Gregorio avanzava verso di lei, le mani protese, un ghigno minaccioso a distorcergli la faccia. Ma non era mai stata coraggiosa e c’era poco da fare, lui aveva scoperto tutto quanto. E non c’erano armi che potessero offendere, nella stanzetta al quarto piano dell’Osservatorio dove il fidanzato l’aveva collocata, a tutela del suo onore, in attesa delle nozze.

    Fuggire. Spalancò la porta che don Gregorio s’era chiuso alle spalle, a picco sulla stretta scala di pietra. La marea stava montando, ma non c’erano più speranze di salvezza. Né per lei, né per Javier.

    -Non vi ho mai amato, don Gregorio.

    Gli occhi gli si strinsero, la faccia divenne paonazza, poi livida. Fu l’ultima cosa che vide, prima di precipitare,  mentre lui la guardava cadere dalla tromba delle scale, la leggera camicia che fluttuava come un paio d’ali, i lunghi capelli sciolti, proprio come quando si sogna di volare.

    Si schiantò con uno scricchiolio sinistro di ossa che si spezzavano. Eppure era bella, malgrado il corpo grottescamente scomposto, come una marionetta dai fili recisi. Era bella, malgrado tutto quel sangue che le si allargava dietro la testa e le colava dal naso e dalla bocca aperta in una muta richiesta d’aiuto. Non doveva averla cercata di proposito, la morte, era troppo vigliacca per trovare il coraggio di ammazzarsi. O per continuare a vivere dopo quello che sapeva sarebbe stato. Lei e quel negro. Sono stato un idiota a non averci pensato, si diceva don Gregorio da sé solo.

    -Lo rivedrai all’inferno, Flor. Giuro su Dio.

 

 

Capitolo ventisettesimo

 

    -Padrone...

    -Scendi subito dal mio cavallo, figlio di cagna.

    Lo sguardo era freddo, una lama di spada, ghiaccio tra le fessure sottili delle palpebre gonfie. Aveva scoperto tutto quanto, e non lo avrebbe lasciato vivere. Il dito era fermo sul grilletto, la pistola a doppia canna puntata. Era finita.

    -Maledetta carogna...

    Come dire, da te non me lo sarei mai aspettato, dopo che ti ho sempre portato in palma di mano, dato tutta quanta la mia fiducia. Mi hai deluso, ragazzo. Era destino che i miei figli mi deludessero, tutti quanti.

    Lo avrebbe ammazzato lì, di fronte a tutti, perché uno schiavo che tradisce merita  solamente d’essere schiacciato come uno scarafaggio. Il sole accendeva i suoi bagliori sulla canna d’acciaio della pistola e sull’anello di Flor, che gli brillava stretto tra il pollice e l’indice della mano sinistra. Una grossa perla, tanti piccoli diamanti, oro giallo. Sarebbe servito per pagare la traversata al pescatore che doveva portarli chissà dove, lui e Flor. Tieni, è roba tua. Gli aveva gridato, scagliandoglielo contro. Chissà come diavolo l’aveva scovato. Aveva strizzato l’occhio, abbassato la pistola carica, alzato il cane e premuto il grilletto. Era sempre stato un ottimo tiratore, don Gregorio, non lo avrebbe mancato.

    “Pietà della mia anima, Dio. E della mia debolezza. E del mio...” Il proiettile gli si era conficcato dentro come una grossa scheggia, ma non nella testa o nel petto: nel ginocchio.

    Ti ammazzerò, carogna. Ti ammazzerò, ma non subito. Con te, voglio provare quello che prova  il gatto quando gioca col topo. E lui era crollato, a fianco della meridiana, proprio sopra un cespo d’erbacce che da decenni nessuno si curava più di strappare. Flor è morta, quella puttana. Anche tu morirai, ma non subito. Don Gregorio puntò ancora la pistola.

    Gli avevano detto che il dolore delle ossa rotte non si riesce a sopportarlo. Sarebbe svenuto, pensava Javier, e forse sarebbe stato meglio. Con la gamba in quelle condizioni, c’era da pensare che sarebbe rimasto storpio sino alla fine dei suoi giorni, anche se era difficile credere che ce ne sarebbero stati degli altri, dopo quello.

    -Flor...

    -Flor ti aspetta all’inferno.

    E fece fuoco ancora.

     Sarebbe morto, pensava Javier contorcendosi in mezzo alla gramigna e alle ortiche, premendosi il fianco dov’era penetrata la seconda scheggia di fuoco, sparata a bruciapelo, che gli aveva aperto uno squarcio attraverso il quale la vita sarebbe fluita via, col sangue, con gli intestini lacerati, col fegato spappolato ed esploso. E chissà quanto ci avrebbe messo. E’ difficile, morire, quando si è giovani e attaccati alla vita come una conchiglia al suo scoglio. Flor... Si augurò che, almeno lei, se ne fosse andata senza soffrire troppo.

    Il mondo dileguava nella nebbia, i suoni delle voci, le urla e i pianti si stavano facendo vacui e lontani. Strano, la ferita che avrebbe dovuto ucciderlo gli faceva molto meno male del ginocchio spappolato. Sicuramente la gamba è piena di schegge d’osso. Mi verranno gli spasimi, mi verrà la cancrena...Ho sete, una sete terribile. Voglio bere. Qualcuno mi dia dell’acqua...Kwame...Mama Conchita... dell’acqua...

    Vomitò un fiotto di sangue nero, mentre la nebbia, intorno, si faceva più fitta. Don Gregorio stringeva ancora in pugno la grossa pistola a doppia carica. Sua madre urlava. Quando aveva tentato d’avvicinarglisi, il padrone l’aveva presa a calci, come una vecchia cagna petulante.

 

 

Capitolo ventottesimo

 

    -E’ un cristiano battezzato, amo...E’ figlio mio. E anche vostro.

    -Non ne sono poi tanto sicuro, dannata cagna.

    Eppure, quando aveva perso il cervello per lei e se l’era presa, era ancora intatta, ricordò, faticando a reggere lo sguardo dei suoi occhi grandi e pazzi. I cani arrabbiati avevano quegli occhi, si ritrovò a pensare, i cani arrabbiati come quello che era costato la vita a don Rodrigo De Almeida, il primo della sua gente che si fosse trasferito a Cuba dalla Spagna. I cani arrabbiati vanno uccisi, tolti dal mondo, prima che possano arrivare a far danni, e se ti eri affezionato, pazienza.   Eclipse era quello, una cagna matta, anche se se l’era portata a letto, l’aveva fatto godere e gli era piaciuto. Doveva averlo affatturato, con i suoi sortilegi, ingannato con le sue malizie. Dormiva in uno sgabuzzino a fianco della camera di Flor, possibile che non si fosse mai accorta di niente? Oh, ma l’avrebbe spedita all’inferno, lui, a tenere compagnia a quella carogna di suo figlio, e la vita avrebbe ripreso il suo corso normale, come se niente fosse accaduto. Si sarebbe trovato una brava ragazza, non una madonnina infilzata come quella Flor, ma una di sani principi e senza troppi grilli in testa e l’avrebbe resa madre dei suoi figli. O, se era davvero troppo vecchio per l’amore, avrebbe tentato di rintracciare il figlio suo e di Chantal Marchand, avrebbe preso il coraggio a quattro mani e gli avrebbe detto tutto quanto. A quarant’anni suonati, sicuramente avrebbe capito e sarebbe stato felice di ereditare il suo nome e le sue ricchezze. La vita non era finita, con Flor che volava giù dalla tromba delle scale e Javier che moriva dissanguato, con i piedi sopra la meridiana e la testa posata su un cespo d’erbacce. Sarebbe bastato liberarsi della strega, e tutto si sarebbe risolto per il meglio. L’avrebbe venduta a qualcuno disposto a togliergliela di torno, o consegnata all’Inquisizione, all’occorrenza. Non si sarebbe fatto mancare il coraggio d’ammazzarla con le sue stesse mani, se fosse stato necessario, come aveva ammazzato quella carogna di suo figlio, che rantolava e si contorceva ai suoi piedi strabuzzando gli occhi e vomitando sangue. Quanto ci avrebbe messo, a rendere l’anima? Un’ora? Due ore? Un giorno? Da parte sua, non avrebbe lasciato avvicinare chicchessia, perché confortasse i suoi ultimi istanti. Javier il mulatto, la vergogna della sua vita, per quel che aveva fatto, meritava solamente di morire come un cane.

 

Capitolo ventinovesimo

 

 

    -Vieni via.

    Erano passati ventisei anni, da allora, ma né la fisionomia di Mama Conchita né i suoi gesti erano cambiati. Io sono cambiata. Pensava Eclipse.  C’è del bianco in mezzo ai miei capelli, e il niente ha inghiottito Javier. Era mio figlio, Mama. Non puoi chiedermi di non piangere anche questa volta.

    -Non piangere. Non devi.

    La voce era ferma, come ventisei anni prima. Eppure doveva essere vecchia come il mondo, uno scheletro vivente senza età. Ma come poteva pretendere che non piangesse?

   -Stanotte è notte di magia, figlia. E domani il buio inghiottirà la luna, come tanto  tempo fa. Don Jaime... Non se lo sarebbe perso per niente al mondo, uno spettacolo del genere, lui.

    Sorrideva, con quelle labbra secche come un frutto vizzo e piene di grinze. Sembrava fragile come una lisca di pesce, eppure c’era una forza misteriosa che traspariva nello sguardo scintillante dell’unico occhio. E aveva ancora tutti i denti, bianchi e appuntiti come quelli di un gatto, nella caverna nera della bocca. Sarebbe accaduto qualcosa? Javier era  stato seppellito nel cimitero degli schiavi e c’era una pietra su cui qualcuno aveva inciso maldestramente il suo nome, sopra la terra appena smossa della tomba. Doña Flor  l’avevano  messa nella cripta di famiglia, accanto a don Francisco Javier. La colpa di tutto quanto era solamente sua, che fosse maledetta.

    Sapeva quello che sanno tutti quanti  gli uomini, Javier. Anche i bianchi. E valeva più di loro. Era stato un bravo figlio, ubbidiente, amorevole e rispettoso, un figlio di cui ogni madre sarebbe potuta andare giustamente fiera. Ed era bello come il sole, perfino dopo morto. Sarebbe diventato presto polvere e vermi, e non c’era niente di più ingiusto: perfino se non fosse stata sua madre, avrebbe pianto. Come poteva, Mama Conchita, chiederle di non farlo?

    -Due volte cento anni sono passati da quella notte, Eclipse... So che ti piacciono le storie, allora sta a sentire. C’era una donna, nel Vecchio Mondo, una povera vecchia che campava aiutando le altre a partorire e curando i mali di uomini e bestie con le erbe. Qualcuno credeva che quella donna potesse affatturare il grano dei campi e il latte delle vacche con lo sguardo dei suoi occhi, che ti sottraesse un anno di vita per ogni dente che riusciva a contarti dentro la bocca o che potesse trasformarsi in un gatto, nelle notti di luna, e dissero che aveva venduto l’anima al diavolo, in cambio della sua magia. Doveva morire. Fu imprigionata, torturata. Il boia la tormentava col fuoco, la corda ed il coltello, mentre un uomo di Dio la costringeva a mentire e rideva, guardandola soffrire: Padre Juan De Almeida, dell’Ordine di Santo Domingo de Guzman, l’Inquisitore di Siviglia, che possa essere per sempre maledetto. Quando la portarono a morire bruciata, aveva perso un occhio e la ruota le aveva rotto tutt’e due le braccia. Le avevano messo addosso un sacco che grattava come la lana di un caprone, pungeva come le foglie delle ortiche e puzzava di zolfo. Sotto il rogo, pronto a dar fuoco alle fascine, c’era il nipote di Padre Juan, don Rodrigo De Almeida, il capo dei famigli dell’Inquisizione, con gli occhi e la faccia del buon cristiano che sta per togliere dal mondo una strega, possa essere anche lui per sempre maledetto. E dire che, pochi mesi prima, quella vecchia aveva salvato la vita a sua moglie e alla figlia che stava partorendo. Sarebbero morte, non fosse stato per lei. Ma la gratitudine  non è di questo mondo, dicono. La carne bruciata puzza, Dio quanto puzza, forse neanche te l’immagini. E ce ne vuole, a morire: è una gran brutta morte. Se non l’aveva venduta prima per comprare la magia e diventare gatto nelle notti di luna, la vecchia la diede allora, la sua anima al diavolo. Per la vendetta.

    Non si torna dal mondo dei morti, pensava Eclipse, mente le dita scheletrite di Mama Conchita le asciugavano le lacrime dalle guance. Nemmeno il Profeta è tornato.

    -Padre Juan morì un paio di mesi dopo, quando la biblioteca del suo convento prese fuoco. E don Rodrigo, che era venuto a cercare fortuna a Cuba, trovò la ricchezza e un cane arrabbiato, sulla sua strada: una grossa cagna grigia che rassomigliava a un lupo e aveva un occhio solo. Morì rinchiuso in una cella, sbavando e ringhiando proprio come un cane un tre mesi dopo essere stato morso. E dopo di lui, nessun De Almeida è riuscito a morire di vecchiaia nel suo letto...

    I lupi. Come sono fatti? Eclipse non ne aveva mai visto uno. Rassomigliano ai licaoni delle savane africane, le aveva detto Mama Conchita. L’uomo li dice figli del diavolo, creature sanguinarie. Beh, forse sono più belli dei licaoni, hanno corpi slanciati e scattanti, e occhi gialli e obliqui che rassomigliano ai tuoi...Un brivido le fece accapponare  tutta quanta la pelle, dalla radice dei capelli divisi in tante trecce alle unghie dei piedi. Aveva sentito parlare di uomini che diventano animali, e dei morti viventi, gli zombi resuscitati dalla tomba per diventare strumento di vendetta nelle mani dei vivi. La superstizione è peccato, aveva sentenziato il Profeta, e lei non aveva dimenticato i precetti della sua religione, nonostante il battesimo impostole da don Gregorio che aveva a cuore la salvezza dell’anima dei suoi neri. E di certo era peccato anche per i battezzati cristiani, come Javier.

    -Era inverno, faceva freddo, un freddo del diavolo, un freddo che tagliava la faccia. Tu non lo puoi immaginare, un freddo del genere. La brace si stava consumando e della vecchia non restava che qualche osso carbonizzato. Cenere, e il medaglione d’argento che aveva sempre portato al collo. Gli spiriti... Tutti li hanno sentiti gridare e piangere la loro disperazione e i buoni cristiani se ne stavano rinchiusi dentro le loro case, tremando dalla paura…Ma non importa. Lo sapevi che i De Almeida sono tutti quanti morti male? Don Rodrigo l’ha morsicato quel cane che sai, don Joaquim è morto in duello, don Francisco è caduto da cavallo e ha battuto la testa, don Jaime l’ha incenerito un fulmine, don Vicente s’è rotto l’osso del collo ruzzolando dallo scalone, don Javier se n’è andato a neanche venticinque anni col  cervello partito e il sangue putrefatto... Cosa credi che potrebbe aspettarsi dalla vita, don Gregorio, dannata carogna? Non si possono prendere sottogamba le maledizioni di una strega...Tuo figlio sarà vendicato,  Eclipse.

    Per quello che me ne importa. Io so solo che non c’è più.

    -La medaglia che hanno preso dal rogo non gli ha portato fortuna. Adesso ce l’ha il figlio della francese. L’ultimo, se non conti tuo figlio. Ricordi quello che ti avevo detto, tanto tempo fa?

   “Sarai uno strumento del destino.”Le aveva detto così. Ma quando si portano troppi anni sopra le spalle, è fatale che il cervello cominci a non funzionare più come si deve e forse a Mama Conchita stava capitando proprio qualcosa del genere. Morirà, morirà anche lei, finalmente. E troverà la pace.

    -Questa notte qualcuno verrà. Avrai paura, ma non c’è niente da temere. Non fuggire. Osebo...E’ un buon amico.

    Le carezzava la cicatrice profonda sul polso, e il suo tocco era delicato, quasi sensuale. Si sarebbe addormentata, cullata da quelle carezze, avrebbe lasciato che quello che era accaduto si facesse nebbia.

    -Tuo figlio berrà il vino e mangerà la carne, Eclipse. Berrà il vino e mangerà la carne, e sentirà il calore della donna quando don Gregorio e quelli del suo sangue non saranno più nemmeno ossa.

 

Capitolo trentesimo

 

 

 

JAVIER

NATO IL CINQUE DICEMBRE 1775

MORTO A VITA MORTALE IL DODICI MARZO 1801

 

Era sempre stato Kwame, l’Ashanti, ad occuparsi delle sepolture, in quell’angolo recintato che chiamavano cimitero degli schiavi. Un precedente padrone l’aveva addestrato da cavapietre e lui, dotato d’un certo naturale senso artistico, aveva imparato da solo a sbozzare disegnetti, greche, graziosi sghiribizzi con cui decorava le pietre posate a mo’ di lapidi sui tumuli dei negri. Con le mani se l’era sempre cavata ed era possibile che, copiandolo da qualche parte, fosse riuscito a raschiare sulla pietra il nome del figlio di Eclipse, malgrado fosse, come tutti gli schiavi, completamente analfabeta. Ma chi avesse raschiato il resto, con mano ferma e senza un errore...C’era da uscire pazzi, al pensiero che l’unico nero alla Finca Dorada, forse in tutta Cuba, che fosse in grado di fare una cosa del genere era proprio colui che sotto quella lapide avrebbe dovuto giacere fino al Giorno del Giudizio. Da uscire pazzi, già. Don Gregorio tracannò d’un fiato il nono bicchierino di rhum. Erano state poche, per la verità, le volte in cui aveva demandato alla bottiglia il compito di fargli dimenticare i pensieri tristi o di regalargli una notte ininterrotta di sonno senza sogni. Seppelliti senza cerimonie e senza benedizione i fedifraghi, per due giorni e due notti quei maledetti negri  non avevano fatto altro che picchiare sui loro tamburi e urlare come cani. Un modo come un altro di piangere un amico, forse. Perché da quando quella carogna di Javier aveva iniziato ad amministrare la proprietà, si stava bene, lì, si mangiava a sazietà, non ci si ammazzava dalla fatica, le famiglie non venivano smembrate per essere vendute e le fruste s’incartapecorivano nelle rastrelliere. E poi, beh...Nero lui, neri loro. Cane non mangia cane, si dice.

    Il decimo rhum andò giù come acqua, senza che ne percepisse più né il gusto né il bruciore. Stava diventando un maledetto ubriacone, incapace di controllare le sue paure, incapace di cercare da solo una risposta alle sue domande,come sempre succede a chi non ha il coraggio di prenderli di petto, i guai suoi, e allora li annega nel vino, nel rhum, nel liquore, in qualsivoglia porcheria che bruci lo stomaco e ottunda la coscienza.

    La luna  aveva giocato a nascondersi dentro il buio, quando Javier era stato seppellito dalla sua gente. Doveva succedere qualcosa, don Gregorio se lo sentiva nella pelle, dentro le ossa, dappertutto. Qualcosa di brutto. La mattina successiva, un paio di braccianti si erano accorti che qualcuno doveva aver rubato il cadavere, la terra era smossa, la tomba vuota. Facevano cose terribili, i negri, con i cadaveri. Cose che gridavano vendetta al cospetto di Dio. Ma se solo avesse messo le mani addosso a chi... Kwame. Lui. Era forte, quel dannato pezzo di bue. E a Javier aveva voluto bene.

    Undici bicchieri. Dodici. Le gambe gli tremavano, il cuore gli batteva da spaccarsi. Ma non avrebbe chiamato nessuno che lo aiutasse a spogliarsi e a infilare la camicia da notte. Anche quegli animali dei suoi schiavi provavano il misto di  pena e di schifo che provano tutti quanti alla vista di un ubriaco, e non poteva correre il rischio di perdere così stupidamente credibilità ai loro occhi, mostrandosi  per la prima volta a qualcuno in quelle condizioni pietose, lui, Dio in terra, il Padrone.

    Doveva essere stata Eclipse a chiedere a Kwame di farlo. Era come se il dolore l’avesse scimunita, girava mezza nuda e tutta spettinata per i quartieri, urlando, piangendo e ridendo come un’isterica, dicendo cose da pazzi che lui sarebbe ritornato e lei lo avrebbe aspettato. E i negri facevano gli scongiuri di nascosto, incontrandola sul loro cammino. E se fosse stata lei, a scavare con le unghie la terra sopra la tomba di suo figlio? Era più delicata della maggior parte delle schiave, dacché era successo quel che era successo bisognava cacciarle il cibo in gola a forza, ma si sa che la pazzia può moltiplicare all’inverosimile le energie di una persona. L’indomani le avrebbe osservato le unghie, si ripromise. E poi li avrebbe venduti tutti quanti, lei, Kwame, la vecchia...Tutti quanti.

   La luna piena, rotonda, non avrebbe giocato a nascondersi nel buio anche quella notte e si rifletteva, bianca, sui vetri  della finestra  chiusa. Faceva caldo, il sangue acceso dall’alcol gli bolliva nelle vene, ma non era il caso di spalancare le finestre, in quella notte di tregenda, durante la quale i diavoli, evocati dai negri con i loro urli ed i loro tamburi, sicuramente svolazzavano per aria come pipistrelli, pronti ad infilarsi nel minimo spiraglio per entrare nelle stanze e penetrare, attraverso tutti gli orifizi, nel corpo di chi dormiva tranquillo, impossessandosene e causandogli ogni sorta di male o disgrazia. E poi, non bastasse il resto, doveva esserci un morto vivente che vagava nei paraggi assetato di sangue e di vendetta, mentre Eclipse, la strega, con la sua gonna sbrindellata e i capelli arruffati, se ne andava in giro urlando come una cagna e imprecando maledizioni in quel suo ostico dialetto africano. Qualcuno aveva notato un cane, accanto a lei, un grosso cane da presa tutto nero, mai visto prima. Don Gregorio non aveva mai permesso che i suoi schiavi tenessero cani. Ma quello doveva essere un cane del diavolo.

    Quindici bicchieri. A sessantasei anni si può ancora ingravidare una ragazza di venti, ma si può pure morire per una sbronza. Si alzò barcollando dal bordo del letto, aprì l’antina del comodino, afferrò il pitale giusto in tempo per vomitarci dentro la cena e tutto quello che aveva tracannato. La testa gli scoppiava, e sentiva freddo, adesso. Si rannicchiò nel letto, cercando di convincere se stesso che la porta era chiusa, la finestra chiusa, non c’erano pericoli e gli incubi, per quanto spaventosi possano essere, non sono la realtà. Aveva ancora molti anni di vita davanti a sé. Presto avrebbe incaricato qualcuno di sua fiducia di ricercare il figlio suo e di Chantal. L’avrebbe nominato erede universale e i Reyes...Andassero a farsi fottere, i Reyes, tutti quanti.

    La stanza tanfava di chiuso e di vomito. Il sonno non arrivava e la bottiglia era lì, mezza vuota, tentatrice. Doveva resistere, se non voleva diventare un maledetto ubriacone, lo schiavo disgustoso e patetico di un vizio volgare e ripugnante. Si tirò le lenzuola su fino agli occhi, cercò di addormentarsi. Aveva lo stomaco in subbuglio, la testa che gli scoppiava. Il rhum. O il rimorso. Quale rimorso? S’era comportato da uomo d’onore, lavando col sangue il fango che aveva sporcato il suo buon nome. Non doveva provare rimorso, per quel nero e quella puttana.

    Il cane. Gli incubi. Lui. Non era solo. Qualcuno...Nella stanza.

    La luce avrebbe scacciato i fantasmi, pensò mettendosi a sedere e armeggiando sul comodino alla ricerca dell’acciarino e della candela.  

     -I conti della giornata, Señor.

 

Capitolo trentunesimo

 

 

    Forse non lo era, un fantasma. Forse era stato curato ed era guarito anche se ferite come quella che gli era stata inferta ammazzavano sempre. E se era un fantasma, perché la luce delle candele non lo scacciava?

    Avrebbe voluto urlare, ma non gli usciva niente dalla gola. Lui. Eppure gli aveva sparato per ammazzarlo, l’aveva visto con i suoi occhi morire, l’aveva toccato per accertarsi che fosse morto davvero e lo era, accidenti se lo era, freddo e duro come un pezzo di ferro. Che ci faceva, adesso, lì? E come diavolo era entrato, se la porta della stanza e la finestra erano chiuse da dentro?

    Lui.  Impossibile sbagliare, lo conosceva anche troppo bene. E poi c’era abbastanza luce, nella camera, e don Gregorio ci vedeva ancora come Dio comanda, malgrado l’età. L’espressione della faccia era quella che gli conosceva, intensa e intelligente, gli occhi i soliti grandi occhi dolci che stregavano le donne, e non solo le negre, per disgrazia sua, neri e luminosi tra le lunghe ciglia  abbassate. La bella bocca spessa e morbida era ferma, seria, imbronciata come non gliel’aveva mai vista, una narice delicata incrostata appena di sangue secco. La polvere smorzava e ingrigiva il nero lucido dei suoi capelli e gli si appiccicava a chiazze sopra la pelle scoperta del petto e delle braccia. Un bell’animale, un buon metro e novanta di muscoli splendidamente modellati. Denti bianchi e tutti sani. Narici strette. Sguardo intelligente. Qualora avesse deciso di venderlo, poteva spuntare un prezzo da capogiro.

    -I conti. I conti della giornata, Señor.

   Gli porgeva una risma di fogli, com’era stato solito fare tutte le sere, prima che...Dio mio, ma non parlano con voce cavernosa, i fantasmi? Non puzzano di carne marcia?

    -Non volete dare un’occhiata ai conti, Señor? Come tutti i giorni?

    La mano era ancora tesa verso di lui. Bellissima, affusolata. Il dorso scuro era graffiato dai rovi, le unghie bianche e larghe smozzicate e sporche di terra.

    -Io ho fretta. E voi dovreste dormire: è molto tardi.

    La voce era quella di sempre, bassa, ipnotica e calma. Il petto, appena coperto da una peluria leggera, riccia e sottile, s’alzava e s’abbassava al ritmo d’un respiro lento e regolare. Non portava più il crocifisso  d’argento appeso al collo. Già, la  Croce scaccia e dilegua le creature dell’inferno.

    -Vade retro...Vade retro, Satana...

    -Che fate? E’ inutile.

    C’era più malinconia che sarcasmo, nel suo bel sorriso. Inutile, già. Non succedeva nulla. E don Gregorio posò nuovamente sul comodino il grande crocifisso d’ebano e d’argento.

    -Prendete i fogli, controllate i conti. E’ per questo che sono venuto.

    Il suo sorriso era una smorfia di sofferenza, dolore e rancore, la smorfia che storce il muso del gatto infuriato prima di mettersi a soffiare. E gli occhi neri, impenetrabili come sassi di fiume, era come se andassero schiarendosi, sfumando nell’ombra in una tonalità tra verde giada e oro rosso. Scherzi del buio, del buio e della sbronza, come tutto quanto il resto.

    -Che...Che diavolo vuoi, si può sapere?

    Stava tremando. E un rivolo caldo, maleodorante, gli scorreva giù per le gambe. Si era pisciato addosso per la paura, la disonorevole, vergognosa, ridicola paura di qualcuno che non c’era, ma aveva semplicemente immaginato. Lì dentro l’unica cosa vera erano la puzza del suo vomito e del suo piscio,  non Javier che se ne stava piantato di fronte al letto, ben saldo sulle sue lunghe gambe robuste, ma non sarebbe dovuto essere zoppo, dopo che lui gli aveva sparato sbriciolandogli il ginocchio o meglio non sarebbe dovuto essere morto, con quella ferita che l’aveva passato da parte a parte, e invece continuava a porgergli il foglio con la mano tesa, mentre i grossi denti bianchi gli lampeggiavano tra le labbra e gli occhi andavano facendosi sempre più gialli?

    -Sono qui per saldare i conti. Una volta per tutte.

    Ma il foglio che gli porgeva non era fitto fitto della sua grafia ordinata. Era bianco. Di quali conti parlava, quel demonio?

    -Ricordati ... ricordati che metà del tuo sangue lo devi a me...Che sei mio figlio...

    -L’altro giorno alla meridiana, mentre crepavo con le budella a pezzi e mia madre implorava da voi un po’ di pietà non lo ero.

    -Tutti...Tutti possono sbagliare...Javier.

    -Voi avete sbagliato anche troppo, Señor De Almeida.

    Non c’è Javier, di fronte al mio letto. C’è una porta nera. Javier è morto. Se la faceva con la mia fidanzata, e io l’ho ammazzato, come avrebbe fatto chiunque. Javier è solo un incubo, me li sono sognati, lui e i suoi dannati conti che avrebbe da chiudere con me. Ho bevuto troppo, tutto qui. Ma non toccherò più una goccia d’alcol, dovessi...

     -Non...Non ti devo niente, demonio...

    Lo guardò scuotere la testa, sorridergli sarcastico con una mancanza di rispetto che non avrebbe mai potuto permettersi. Hai le mani pulite e la coscienza sporca, don Gregorio. Non devi niente alla donna che hai ingravidato e abbandonato? Chantal, mi sembra. Chantal Marchand. E a quella che non amavi e hai sposato perché ti era stato imposto di farlo? Isabel Già, Isabel. S’è ammazzata per darti un figlio. E a lui, a don Francisco Javier De Almeida non devi niente di niente? Lo disprezzavi e non gliel’hai mai nascosto. Se ti fossi sforzato di amarlo per quello che era,  forse... E’ vero che nasciamo con il destino già segnato e nel suo c’era scritto che sarebbe morto giovane, ma non li avrebbe vissuti così male, i pochi anni che aveva da vivere. E mia madre, dì? Quanto l’hai pagata? Molto, molto meno di quanto vale, una donna come lei. E poi... Che cosa le avevi detto, per convincerla a lasciarsi sbattere da te? Qualcosa, o quello che volevi te lo sei preso senza chiederle niente, tanto ti spettava di diritto? E  a Kwame? Eppure Kwame, il tuo cane alla catena, la tua bestia da fatica, è mille volte meglio di te...

    -E’ tempo, Señor. E’ tempo.

    La voce gli si stava spegnendo in un sibilo. Forse l’alba avrebbe cacciato via quei terrori, e allora don Gregorio si sarebbe vergognato di se stesso. Javier era morto, quello era solo un incubo che si sarebbe dissolto, con la fine della notte. C’era una porta, di fronte al letto, una comune porta borchiata di legno nero, una semplice porta come ce ne sono tante. Javier era morto. Bisogna aver paura dei vivi, non dei morti.

    -Flor...

    A Flor devi tanto. Non c’è giustizia, in quello che le hai fatto. Flor non era in vendita, anche se hai creduto di poterla comprare. Aveva diritto di vivere, lei, di essere felice. L’avrei portata via, quando si fosse alzata la marea, invece...Quando l’odore di salsedine si fa più penetrante, vuol dire che la marea sta montando. Lo sento adesso, lo sentirò anche quando sarò lontano dal mare, perché nelle mie condizioni i sensi diventano così acuti da far male. E mi farà male anche non poter piangere. A quelli come me non è dato di piangere: anche questo mi devi, don Gregorio De Almeida.

    -Flor...Mi vida. C’era amore vero, tra lei e me.

    Faticava a parlare e il suo respiro si andava facendo roco, ansimante. La luce, forse...La luce ha potere contro i fantasmi della notte. Quanto mancava all’alba? Ma Javier, snello e imponente contro quella porta non lo era, un fantasma. Le dita che stringevano il foglio bianco lo avevano sfiorato, e non erano un’illusione. O, forse, stava impazzendo.

    -Javier...Ti prego...

    Don Gregorio si sollevò, tentò di allungare una carezza alla testa ricciuta del mulatto.

    -Non toccatemi i capelli: sono così ruvidi...Potreste pungervi, don Gregorio.

    Portava soltanto un paio di vecchie brache, addosso, come quando lavorava nei campi, ed era scalzo. La ferita sul fianco era incrostata di sangue secco. Gli occhi che lo fissavano erano gialli come oro fuso, freddi e crudeli come quelli di un falco. Non parlava più, era come se il suo respiro fosse sospeso, come se la sua bella faccia sottile dagli zigomi alti  andasse inesorabilmente   deformandosi, con le labbra che si assottigliavano e si ritraevano  sui denti, il naso che si accorciava e si appiattiva...No, era solo il gioco delle ombre, era solo la sua immaginazione, alterata dall’alcol e dalla paura. Non c’era nessuno, in quella stanza, men che meno Javier. Javier era morto da tre giorni, quale che fosse la fine che quei  maledetti negri avevano fatto fare al suo cadavere. Era morto. Nessuno è mai tornato dall’aldilà, e lui non sarebbe stato il primo.

    -Mangerò la carne e berrò il vino, don Gregorio...Mangerò la carne, berrò il vino e sentirò il calore della donna quando tu non sarai più nemmeno ossa...Animale e uomo, senza pace finché il tuo seme e il tuo sangue saranno cancellati per sempre dalla faccia della terra...

    La sua voce s’era affievolita in un sibilo e un odore acre, selvaggio, aveva riempito la stanza, sovrastato il puzzo d’alcol,  d’orina, di vomito e di chiuso. Sovrastando l’odore della sua paura. Don Gregorio urlò con quanto fiato aveva. Non era un incubo, quello, era la realtà, adesso ne era sicuro. Cercò di ripararsi la testa con le braccia alzate, ma non si può sfuggire al proprio destino. Urlò, invocò l’aiuto che nessuno avrebbe potuto portargli. Poi, fu il silenzio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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