Libri > Harry Potter
Segui la storia  |       
Autore: Iurin    02/04/2013    4 recensioni
La guerra è finita. Voldemort è morto, i defunti vengono sepolti, i feriti vengono curati.
E, a differenza di quanto accade nel settimo libro, Piton sopravvive.
Però è stato comunque morso da Nagini, quindi non se la passa per niente bene, infatti deve essere costantemente seguito da una guaritrice, Serena O'Dampand, che andrà a stabilirsi a Spinner's End insieme al professore.
E Piton, ovviamente, non ne è affatto contento. Ma tanto non sembra soddisfatto di niente, ormai: a cosa gli serve vivere?
Questa storia narra la riabilitazione di Piton, i suoi pensieri, la sua malattia. E chissà che lui non guarisca davvero - da tutto, però.

______
«Basta. La tua vita si è conclusa alla Stamberga Strillante. Quello che vivresti d’ora in poi sarebbe solo un… riflesso. Un fantasticare costantemente – e penosamente – su quello che avrebbe potuto essere e che invece non sarà mai.» (Cap. 3)
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Severus Piton
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da VII libro alternativo
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo Uno

 
 
Nonostante ancora i tuoi occhi siano chiusi, senti comunque di essere sveglio. Non di star sognando; sei veramente sveglio, cosciente: senti i rumori, senti il vorticare dei tuoi pensieri, il suono del tuo stesso respiro.
Sei sveglio.
E la cosa ti sorprende più di quanto tu stesso avresti mai ammesso. Eppure, ancora, non hai neanche aperto gli occhi. Non ti va proprio di aprirli, per il momento. Dietro le tue palpebre, tutt’intorno a te, all’interno di quel buio che vedi – ma che in realtà vero buio non è – c’è solo una cosa: l’ignoto. Perché… Beh, tu sei morto. Sai di esserlo, te ne rendi conto. Quindi il fatto di poter ancora provare qualcosa, come il tepore di un raggio di sole che proprio in quel momento ti scalda un lato del viso… semplicemente ti sorpren--
Il sole. C’è il sole che ti scalda una guancia.
È possibile che all’Inferno ci sia il sole?
Strano come va il mondo, a volte: tu non hai mai creduto in un’altra vita; non hai mai avuto motivo di credere che ci fosse un aldilà, una misericordia divina, persino un Dio. Nessuno te ne ha mai parlato, nessuno ti ha mai insegnato niente, a riguardo, e semmai un giorno tu ti sia interessato in qualche modo all’argomento, la tua stessa vita ti ha suggerito che – no – è improbabile che esista Qualcuno. Altrimenti non avrebbe permesso che succedesse tutto quello.
Hai sempre avuto un dubbio, ma poi hai finito con lo smettere di pensarci.
E ora… Ora invece che sei sveglio, dopo essere morto, pensi che forse avresti dovuto informarti un po’ di più. Anche se sarebbe servito bene a poco, dato che, qualora fosse esistito un aldilà – e ormai ne sei praticamente certo, dato che sei sveglio – quante possibilità avresti avuto di godere del lato migliore dell’eternità?
Forse il sole che senti sul viso non è altro che il riverbero delle fiamme dell’Inferno. E non sai ancora, allora, se vuoi aprire gli occhi o meno. Potresti cullarti nell’oscurità della tua mente per tutta l’eternità, ma già sai che un simile atteggiamento porterebbe a ben poco.
Sei all’Inferno. Bene. Te lo sei meritato, dopotutto. Tanto vale mettersi in piedi e cominciare ad abituarsi a tutto l’infinito che hai davanti.
E piano, lentamente, allora, apri gli occhi, un millimetro alla volta.
La prima cosa che vedi, però, è una flebile luce bianca.
L’Inferno te lo immaginavi buio, nero, e forse rosso. Non bianco.
Forse è il Paradiso, allora.
Dentro di te ridi della tua ingenuità. Sciocchezze. Non sei in Paradiso.
Continui ad aprire gli occhi, allora, e la luce bianca si fa più intensa. Forse ci speri; una minima parte di te forse ancora immagina di aver salvato quanto basta della tua anima, ma alla fin fine non ne sei così tanto sicuro. Quel bianco, però, ti spiazza. E quando finisci di aprire gli occhi, il bianco non se ne va. Anzi, si modella, si trasforma, smette di essere una luce, e, semplicemente, diventa un… colore. Ti sembra di trovarti in una stanza bianca; riesci a vedere nettamente l’angolo formato dal soffitto che si unisce alle pareti. Quella è una stanza.
Non è l’Inferno.
L’Inferno non ha stanze bianche. Certo, nell’immaginario comune l’Inferno potrebbe essere un’enorme fossa di pietra nera avvolta dalle fiamme, e, anche se con molta probabilità non è affatto così, sei quasi sicuro di poter affermare che – no – non sarà stata una fossa, l’Inferno, ma di sicuro non è una stanza bianca. Così luminosa, poi.
Poi, all’improvviso, senti un sussurro.
È stato un attimo, ma sei sicuro di averlo sentito.
Senti il cuore sobbalzare dalla sorpresa e di scatto ti volti verso sinistra, verso il punto in cui ti è sembrato sentire qualcuno parlare sottovoce.
Ma non fai in tempo a stupirti ancora per quello che vedi, che richiudi nuovamente gli occhi. Con forza. E il tuo viso assume una non tanto lieve espressione di puro dolore.
Nell’esatto momento in cui ti sei voltato – bruscamente, come se non bastasse – hai sentito la pelle del collo tendersi, tirare. Ti è sembrato quasi che ti si stesse lacerando proprio in quell’istante, che il collo ti si stesse strappando come quando un brutale macellaio strappa a mani nude un filamentoso brandello di carne. La testa ti scoppia, senti ogni nervo in tensione, e torni a guardare il soffitto all’istante, sperando che il dolore svanisca. Hai il fiatone, e la cosa ti agita. Ma pian piano il dolore si attenua, anche se non sparisce completamente, e ti calmi, chiudendo ed aprendo gli occhi in continuazione, e respirando profondamente.
Non sei all’Inferno, no.
Ma non sei neanche in Paradiso.
C’era sempre il Purgatorio, come ultima opzione, ma sai già di poter scartare anche quella.
Lentamente ti volti di nuovo verso sinistra, senza movimenti bruschi. Senti la pelle del collo pizzicare, ma stavolta è più o meno sopportabile.
Ed eccolo lì, chi aveva sussurrato, facendoti, peraltro, quasi mancare il respiro.
Un uomo – un vecchio – steso su un letto, coperto da un lenzuolo verde sin sotto al mento. Dorme, ma ogni tanto le labbra gli si muovono, e qualche sibilo gli esce dalla bocca. Sta dormendo.
Sta sognando.
Abbassi la testa per guardare il tuo corpo, notando così solo allora che anche tu ti trovi su una specie di branda, con lo stesso lenzuolo verde menta che ti arriva all’altezza dello stomaco. Di fronte a te, un altro letto, con un altro uomo steso su di esso, ma non riesci a vederlo in viso.
Hai capito dove ti trovi.
Sei in un ospedale.
Sei vivo.
La bocca ti si schiude nell’ennesimo segno di sorpresa. Perché… Beh, questo che è sorprendente. Avevi una quantità di veleno nel corpo che avrebbero ucciso un elefante, forse, eppure sei lì.
Vivo.
È… singolare. Sul serio. Poche volte in vita tua ti sei sentito così, senza poter avere la situazione sotto controllo o capire cosa stesse succedendo con esattezza.
Non sai perché sei lì, né come ci sei arrivato, né perché.
Dovresti essere morto.
Il morso di Nagini non è stato una cosa da poco… Senza contare che deve averti irrimediabilmente rovinato il collo in un modo niente affatto gradevole da vedere.
E, pensandoci, ti rendi conto di essere rimasto fermo tutto il tempo, senza neanche muovere un muscolo, se non quelli doloranti del tuo collo ferito.
Allora ti porti una mano lì dove senti ci sarebbe dovuto essere perlomeno un taglio profondo, per tastare com’è la tua situazione.
O almeno… Ci provi. Vuoi toccarti il collo con una mano, o con entrambe, non fa molta differenza, ma… non puoi.
Ad un’altra veloce occhiata sul tuo corpo capisci di non essere legato, e che nulla impedisce un tuo movimento. Sei libero, eppure… non ti muovi. Non ce la fai.
Il tuo corpo non risponde agli impulsi.
Vorresti muoverti, ma non ci riesci.
Provi con l’altro braccio, con le gambe, con la schiena.
Niente.
Senti il respiro accelerare.
Non riesci a muovere nulla, se non il collo, l’unica parte del corpo che ti fa veramente male. Ironia della sorte.
Ma devi stare calmo, o almeno devi provarci. Dopo tutto quello che hai passato, almeno ora non stai correndo un pericolo mortale. Anzi, sei appena scampato al più pericoloso che tu abbia mai affrontato. Calma. Sei in un ospedale, quindi qualcuno ha reputato opportuno portarti qui e non lasciarti morire nella Stamberga Strillante.
Oh.
Potter.
Chi, altrimenti?
Senti un moto di rabbia agitarti in fondo alle viscere.
Potter.
I ricordi.
Avresti preferito essere morto sul serio, piuttosto che renderti conto di dover affrontare Potter, che ti guarderà con i suoi occhi verdi, e con chissà quale espressione sul viso.
Ti ripeti che se solo si azzarderà a guardarti in un modo diverso da come ha fatto per sette lunghi anni, gli darai un ceffone.
Ah. No.
Se Potter ha visto tuoi ricordi, però, e se si è comportato di conseguenza, come credi, questo può voler dire solo una cosa: è morto.
Potter è morto.
E tu sei vivo.
Non ne gioisci, per quanto tu abbia detestato quel petulante e arrogante ragazzino. Anzi, senti il tuo stesso respiro accelerare ulteriormente.
Hai sempre detto che la vita con te non è stata giusta. Beh, la vita non è giusta anche con altri. Non lo è stata neanche con Potter, forse, al quale hai rivelato tu stesso, anche se indirettamente, ciò che avrebbe dovuto fare per sconfiggere il Signore Oscuro. E continua a non essere giusto neanche quello che tutt’ora sta succedendo con te.
Tu sei vivo – vivo, per l’amor del cielo – e Potter è morto.
E il Signore Oscuro?
Non lo sai, ma pensi che se ti trovi in un ospedale, presumibilmente perché qualcuno sta tentando di salvarti la vita – ci riuscirà? Non ha molta importanza – allora ciò vuol dire che non è Lui, che ha vinto.
Almeno Potter non è morto invano.
Ma è morto, per il Bene Superiore, e a te sembra lo stesso una stupidaggine trovarti in un letto, con una flebo attaccata ad ogni tuo braccio – te ne sei accorto solo ora – mentre lui, e chissà quanti altri, si trovano sottoterra.
Ti senti svuotato.
Avevi promesso che l’avresti protetto, dopotutto, e l’hai fatto, fino a quanto non è arrivato l’inevitabile. Era necessario che lui accettasse di morire, che il Signore Oscuro in persona provvedesse a ciò, altrimenti la guerra non sarebbe mai finita, ma… Senti lo stesso di aver sbagliato qualcosa.
Suo figlio è morto. E dopotutto non volevi che andasse a finire così. Non hai capito bene se fosse veramente indispensabile che Potter venisse trapassato da un secondo Avada Kedavra, non sai se effettivamente quella fosse stata l’unica soluzione plausibile, ma avresti preferito, dopotutto, che non fosse successo. Potter avrebbe dovuto continuare a vivere. Lontano da te il più possibile, era ovvio – fondamentale, più che altro – e non avresti più voluto avere a che fare con lui per tutto il resto della tua inutile vita, ma… Non sarebbe dovuta andare così. Lei non avrebbe voluto.
Lo supponi, almeno, e pensi di avere ragione.
In un moto di ribellione da tutto… questo, vorresti quasi staccarti le flebo, fare uscire il sangue dagli ulteriori tagli che provocheresti sulle tue braccia, ma non riesci a muoverti. E la cosa è più che frustrante.
Che senso avrà una vita così?
Ma allo stesso tempo… sei stufo: vuoi sapere che diamine sta succedendo, a te e al mondo, vuoi sapere come sono andate le cose, come hai fatto a salvarti, perché non riesci neanche a muovere un dito. Ti hanno fatto ingerire qualche pozione che ha avuto un tale effetto collaterale? Oppure sei stato preso dalle convulsioni e quindi quell’immobilità è uno stato in cui sei stato costretto deliberatamente?
Pretendi di sapere.
Così apri la bocca, e parli.
E parli, ancora; più forte, più deciso, più arrabbiato, ma nessuno ti ascolta. Nessuno ti sente. Il vecchio alla tua destra continua a dormire e a sospirare tra sé e sé, e nessun altro, nella stanza, dà segno ti averti in qualche modo udito. Tu parli. Senti le tue corde vocali vibrare furiosamente… invano. Così come prima hai scoperto che il tuo corpo ha ripudiato il suo padrone, ora scopri che la tua voce se n’è andata.
Ora sì che ti stai preoccupando. La tua voce poteva essere considerata l’unico tuo vanto prettamente fisico, e l’unico strumento… più o meno innocuo per ridurre in soggezione gli individui più disparati. Ti era sempre bastata una sola parola pronunciata con un determinato tono di voce e riuscivi ad azzittire ogni interlocutore più o meno molesto. E ora se n’era andata anche lei.
Senti un sottile senso di panico iniziare a svilupparsi nel tuo petto.
Parli di nuovo, con un tono che sarebbe ben più alto di quello solito, ma, come prima, non succede praticamente nulla.
Poi, improvvisamente, la porta della stanza in cui ti trovi viene spalancata; subito ti volti verso quel rumore girando il collo, ed ignorando la consecutiva fitta di dolore che attanaglia i tuoi muscoli. Non te ne vuoi curare, del dolore; in quel momento, ti sembra veramente il male minore.
Così vedi un guaritore entrare in quella che a quanto pare è la tua camera, ma, invece di dirigersi verso di te, lo vedi andare di fianco al letto che ti è stato posto di fronte. Il nuovo arrivato sembra poco più di un ragazzo, quindi ti viene in mente che è più che probabile che in realtà non sia neanche un vero e proprio guaritore, lui, ma un mero tirocinante. O qualcosa del genere.
Una fortuna, ritrovarsi a fare tirocinio dopo la fine della guerra.
Ma non ti importa: vuoi delle spiegazioni, delle risposte, e di conseguenza vuoi – e devi – catturare in qualche modo la sua attenzione.
Una bella impresa, considerando che non riesci né a muoverti né a parlare.
Allora alzi la testa, e, semplicemente, inizi a fissarlo. Prima o poi si girerà dalla tua parte, e guardandoti si avvicinerà. Sempre che non si tratti del solito scansafatiche inefficiente. Ma è appena finita una guerra – presumi – perciò non c’è il tempo, o lo spazio, per i fannulloni inutili, in un simile frangente.
Lo osservi, mentre studia la cartella del paziente in questione e apre con le dita le palpebre dell’uomo, una alla volta, illuminandogli gli occhi con la luce della sua bacchetta.
Ti chiedi dove sia finita la tua, di bacchetta.
Poi, finalmente, il tirocinante – o qualsiasi sia il suo ruolo – si volta, e ti guarda. Lo vedi sgranare gli occhi, ed assumere un’espressione quasi… spaventata.
Non sai se è perché è sorpreso di vederti sveglio, o se perché ha soltanto paura di te, il riesumato braccio destro del Signore Oscuro, oppure se perché, semplicemente, i tuoi occhi riescono a parlare quasi meglio della tua stessa voce. E non gli stai dicendo cose molto gentili.
Vuoi sapere. Subito.
“Signor… Signor Piton?” Ti chiede.
Ti verrebbe voglia di rispondere piccato se per caso conosce qualcun altro col suo stesso viso, ma, per forza di cose, puoi soltanto inarcare scocciato un sopracciglio.
“Io… Vado a chiamare il professor Sherman.”
Non sai chi sia questo Sherman, ma il fatto che sia un professore – ergo qualcuno che perlomeno si presume sia un po’ più qualificato di un mero tirocinante, o quel che è – tende a soddisfarti un po’ dell’esito della tua occhiata.
Sebbene sia difficile provare un po’ di soddisfazione, in una situazione cotale.
Il tirocinante – per te ormai quello lì è uno studente impacciato, ormai – lascia la stanza, e tu rimani nuovamente da solo. In realtà ci sarebbero altre due persone, nella stanza, il che ti dovrebbe rendere meno solo, ma loro stanno dormendo, e dubiti che anche qualora fossero svegli per te sarebbe di un qualche tipo di utilità. Sicuramente inizierebbero a fare domande, o, nella migliore delle ipotesi, ad insultarti. Meglio così, dunque.
Anche se ti sembra strano che tutti stiano lì a dormire, dato che, per quanto almeno puoi vedere, fuori è giorno. Ti chiedi che ore della mattina siano.
Nella tua testa inizi a contare i secondi passati da quando l’apprendista se n’è andato, ma una volta arrivato a pronunciare nella tua testa il numero trecento, senti già di esserne stufo.
Sei un malato di guerra, per Salazar, non un comune mago bisognoso di qualcuno che lo curi da una banale Fattura Pungente.
Dopo altri cento secondi, però, ti senti persino stanco. Improvvisamente. Pensi solo in quell’istante a quanto il tuo inutile corpo deve essere debole, al momento.
Ti addormenti senza neanche riuscire a finire di formulare un nuovo pensiero.
“Signor Piton.” Senti poi improvvisamente dire da una voce proveniente dal buio “Signor Piton.”
Ti rendi conto che qualcuno ti sta scuotendo una spalla. In realtà non senti nulla, sulla spalla, ma capisci cosa sta succedendo perché anche la tua testa ciondola un po’, a causa di quel movimento. E ti svegli, allora, appurando così di esserti momentaneamente addormentato, quasi senza accorgertene.
“Signor Piton.” Ripete quella voce, e allora ti volti verso chi sta parlando, ma con cautela, stavolta.
Ti ritrovi davanti un ometto con una gran quantità di capelli grigi sulla testa e le sopracciglia folte, nere. Ti sta sorridendo, ma tu non ricambi. L’uomo, almeno, allora capisce di poter smettere di scuoterti in quel modo.
“Signor Piton, sono il professor Amadeus Sherman.” Ti dice subito, sedendosi compostamente su una sedia accanto al tuo letto, che prima non c’era. Neanche il tirocinante impaurito c’è più. Saggia scelta, da parte sua, non tornare.
“Sono il responsabile del quarto piano del San Mungo,” Continua “ovvero dei Reparti Lesioni da Incantesimo e Janus Thickey. In base a quanto le è accaduto non sapevamo, all’inizio, se affidarla al Reparto Ferite da Creature Magiche, tre piani sotto di noi, ma poi abbiamo pensato fosse meglio tenerla qui, in Janus Thickey; è la zona più riservata e controllata dell’ospedale, così… beh, avrà più privacy, almeno.”
Oh, ne dubiti. Sicuramente per te ‘privacy’ ha altri significati.
E così adesso sai di trovarti al San Mungo, e non sperduto chissà dove. E sai anche di essere stato affidato al Reparto Janus Thickey.
Comprensibile, dopotutto, che abbiano deciso di confinarti nel posto in cui sono stati praticamente internati e chiusi a chiave coloro che hanno subito un danno magico permanente e non curabile. Non molto confortante, ma sicuramente comprensibile, sì.
Continui a guardare Sherman, allora, attendendo che lui continui a parlare.
“Ha dormito per quattro giorni interi. Iniziavamo a preoccuparci.” Ti fa un lieve sorriso, ma tu non ricambi neanche stavolta “Come si sente, ora?”
Per un momento pensi che quell’omuncolo ti stia prendendo per i fondelli… Ti sta veramente chiedendo come stai?
Quella che gli lanci è probabilmente una delle occhiate più eloquenti della tua – e sua, probabilmente – esistenza.
“Faremo degli esami.” Continua lui, quando capisce che non otterrà alcuna risposta alla sua domanda “Ne abbiamo già fatti, ma continueremo con le analisi. Ci sono diverse cose che vanno… verificate; non sono molto chiare, sa.”
Quali cose, esattamente?
Ciò, perlomeno, spiegherebbe perché non sei stato portato al reparto in cui sai che tempo fa venne ricoverato Arthur Weasley; sempre per un attacco di Nagini, oltretutto. Lui, però, guarì in pochissimo tempo, e non ti era sembrato, all’epoca, che avesse accusato uno strano effetto collaterale come, per esempio, la paralisi. O il mutismo.
Ironia della sorte, per l’ennesima volta.
A quel punto, in ogni caso, vedi Sherman sedersi in una posizione leggermente differente, aprendo le gambe, e farsi più vicino a te, strusciando a scatti la sedia sul pavimento.
“Prima però di procedere,” Ti dice con un tono di voce un po’ più basso del precedente “sarebbe opportuno se lei mi raccontasse come sono andati davvero i fatti. Almeno in questo modo potrebbe aiutarci a far luce su alcuni punti interrogativi… Noi, fino ad adesso, abbiamo potuto soltanto affidarci a quanto ci ha detto il giovane Harry Potter. Non che non gli crediamo, sia ben chiaro! Ma avere un’ulteriore versione dei fatti direttamente da lei forse potrebbe essere utile.”
Sgrani gli occhi, ascoltando quello che ti ha appena detto, anche se è probabile che lui neanche se ne sia accorto, tanto il tuo ‘sgranare gli occhi’ è davvero impercettibile.
Potter è vivo. Come è possibile, una cosa del genere? Non era stato più necessario che si sacrificasse? Aveva trovato una soluzione alternativa?
Suo figlio era ancora vivo, allora.
…Dovresti gioirne? Non lo sai. Dentro di te vi sono più emozioni contrastanti, in questo momento: sai di dover in qualche modo essere lieto che Potter non sia morto; in questo modo, almeno, le cose sono andate proprio così come sarebbero dovute andare. D’altra parte, però, se Potter è veramente vivo, non dubiti che non passerà non molto tempo prima di ritrovartelo tra i piedi.
Lui sa tutto di te, adesso.
Quasi ti esce un lamento dalle labbra, al pensiero.
“…Allora, signor Piton?” Ti richiama proprio allora Sherman, che nel frattempo è rimasto a fissarti “Può parlarmi di cosa le è successo?”
Lo guardi anche tu per un momento, prima di scuotere lentamente il capo.
“No?” Ti chiede, sorpreso.
Ripeti il gesto, ma lui ti osserva ancora con sguardo perso.
Non riesco’ dici, muovendo solo le labbra.
È più difficile ammettere una cosa del genere in questo modo che se tu avessi avuto la facoltà di parlare normalmente.
“Oh.” Ti fa Sherman, allora, afferrando presumibilmente il concetto “Non può parlare?”
Lo guardi male, dato che, se ha capito, trovi stupido ripetere la domanda. Ma lui continua a guardarti con quella faccia, quindi devi per forza fare un altro cenno di diniego col capo.
Ma chi è che aveva reso responsabile di quel reparto quell’uomo?
“Capisco.” Alla buon’ora “Allora faccio portare subito della carta e dell’inchiostro. Sarà più lunga, come operazione, ma almeno potrà comunicare.”
Perché ti sei dovuto svegliare? Perché?
Vedi Sherman alzarsi, ma inizi di nuovo a scuotere il capo, cercando di fermarlo. Ti viene da tossire più volte.
“Cosa?” Ti fa lui.
Non posso.’
“Non può cosa? Scrivere?”
Annuisci.
“Perché?”
Ti umetti le labbra.
Non riesco. Muovermi.
“Non riesce a far cosa?”
Muo-ver-mi.
“Oh.” Dice lui, per la seconda volta.
Ti senti umiliato come poche volte in vita tua, e in quel momento vuoi solo che quell’idiota di Sherman se ne vada e che ti lasci da solo. Non ti importa che ancora non ti abbia riferito come hai fatto a salvarti e se è stato veramente Potter – come credi – a portarti lì. Non vuoi più saperlo, adesso. Vuoi solo tornare a dormire in pace, e con un po’ di fortuna, magari, neanche ti sveglierai più.
Ma non puoi parlare, è ormai assodato, questo, e Sherman non pare essere un Legilimens, dato che, invece di andarsene come avrebbe dovuto, si siede nuovamente, fissandoti. E tu, non appena lo guardi negli occhi, senti la rabbia montarti dentro. Riconosci quello sguardo. È triste per te, Sherman. Anzi, no: non triste, ci mancherebbe. Quello è uno sguardo di pietà. Vorresti urlargli in faccia tutta la tua frustrazione ed umiliazione, se potessi.
“Allora faremo in un altro modo.” Ti dice poi Sherman, e tu non puoi che ascoltarlo per forza, sebbene l’espressione sul suo viso sia mutata solo di poco “Io le racconterò cosa mi è stato riferito e, una volta che avrò finito, se lei avrà qualcosa da aggiungere, ci penseremo. È d’accordo fino a qui?”
Annuisci, non potendo fare altro.
“Bene.” Prosegue allora lui “Dunque… Non che ci sia molto da dire, ma proverò ad essere il più preciso possibile.”
Lo speri, dato il fatto che non è che tu possa alzarti ed andare in giro a chiedere spiegazioni a qualcuno che sembri più competente di quello lì.
“Lei è giunto qui, signor Piton, quattro giorni fa, svenuto e… beh, insomma, non era propriamente un bello spettacolo. Sa, in quel momento ci stavano arrivando tutti i feriti di guerra, e non ci è sembrato troppo insolito vedere Harry Potter accompagnare qualcuno affinché venisse curato. Era già la… quinta, o sesta volta, che faceva avanti ed indietro. Poi, però, quando l’abbiamo vista, tutti noi ci siamo un po’… sorpresi.”
Nel pronunciare quell’ultima parola la sua voce scema, fino a spegnersi del tutto, per un momento; probabilmente perché ha capito troppo tardi di starsi avventurando per un sentiero minato.
Ti immagini la scena: Potter che arriva portandoti su una barella o qualcosa di simile, chiedendo che venissi curato dopo che stranamente sei stato ritrovato ancora vivo; ti immagini Sherman e il suo tirocinante tuttofare sgranare gli occhi e dire ‘che cosa? Dobbiamo prenderci cura di Severus Piton? L’ultimo Preside di Hogwarts? L’assassino di Albus Silente?’ ed altre sciocchezze simili. Pensi che lui ti abbia accettato come paziente con molta riluttanza, ma pensi anche che, ovviamente, non avesse potuto rifiutare un simile incarico, dato gli era stato chiesto per favore da chi aveva appena sconfitto l’Oscuro Signore.
Ti ritrovi a ghignare, guardando Sherman che fissa il pavimento in difficoltà.
“In ogni-In ogni caso” Riprende poi lui, e alza lo sguardo per puntarlo di nuovo su di te, in un patetico tentativo di imparziale professionalità, mentre tu, invece, non ci pensi assolutamente a cambiare espressione, ora che la cosa si è perlomeno fatta un minimo interessante. Non propriamente piacevole, ma sempre interessante.
“In ogni caso Harry Potter ci ha spiegato quello che le è successo. Ci ha detto che è stato morso dal serpente di, ehm- Lei-Sa-Chi, e che è passato qualche minuto, prima che arrivassero i soccorsi. Ci ha detto che un suo amico – uno di Harry Potter, intendo – le ha fatto bere una cosa, e questo deve aver fermato l’avanzare del veleno del serpente.”
Non puoi fare a meno di inarcare un sopracciglio.
“Ci ha detto che le è stata somministrata una dose di Elisir di Lunga Vita.” Fa una pausa, e cerchi di elaborare l’informazione, ma lui continua a parlare quasi immediatamente “Io non ho idea di dove siano riusciti a trovare una tale pozione, ma questo ha poca importanza. Quell’Elisir ha fatto sì che lei non morisse, signor Piton, anzi, ha fatto anche sì che lei si riprendesse, dato che quasi temevamo che non si sarebbe affatto risvegliato dalla sua incoscienza.”
‘Riprendesse’? ‘Riprendesse’?
Forse la tua idea di ‘riprendersi’ è leggermente differente da quella del professor Sherman.
E poi temevano che non ti saresti svegliato. Oh, che cari. Magari ci speravano, invece.
Come dar loro torto, dopotutto.
“Probabilmente, però, ora che lei mi ha fatto capire che non riesce a parlare o a… muoversi, dovrei aver capito cosa è successo. E’ passato del tempo, dopo il morso del serpente, prima che lei ingerisse l’Elisir di Lunga Vita, e per questo il veleno che già circolava nel suo corpo deve aver fatto in modo di causarle questa… immobilità di cui lei è affetto, al momento. Per quanto riguarda la voce, invece… Non è stato a causa del veleno; è stato proprio il morso – le zanne del serpente, insomma – a crearle un danno talmente profondo da andarle ad intaccare le corde vocali. Le abbiamo ricostruite” Precisò subito lui “ma forse occorrerà del tempo prima che, beh, lei riprenda a parlare normalmente.”
E, quando lo farai, pensi proprio che gli enuncerai tutti i motivi per cui un paziente non si sente molto rassicurato nell’ascoltare una lunga frase piena di ‘probabilmente’ e di verbi al condizionale.
Dal canto suo, invece, Sherman si limita a guardarti – ancora – come se fosse in attesa di qualcosa che tu invece non puoi dargli.
“Ha qualcosa da aggiungere, rispetto a tutto quello che le ho detto io, signor Piton?”
No, affatto. Anzi, è stato proprio lui a renderti più chiare le idee, e il contrario, purtroppo, non è possibile.
Oltre che malato ora ti senti anche più inutile di quanto tu al momento non sia.
Fai un cenno di diniego con la testa, guardandolo serio, e finalmente lui si decide a smettere di parlare, o quasi. Perlomeno si alza dalla sedia, segno che sta per uscire dalla stanza.
Prima di far questo, però, ti poggia una mano sulla spalla, un gesto che forse vuole essere di… conforto? È un tentativo piuttosto scarso.
“Lei guarirà, signor Piton. È una promessa, questa.”
Oh, per favore.
È patetico.
Ma lo guardi comunque, mentre ti sorride con una strana piega delle labbra, e ti chiedi perché ti stia dicendo una cosa del genere, dato che ti conosce come uno degli uomini peggiori del mondo. Non che tu non lo sia fino in fondo, precisi tra te e te.
Poi, però, non appena lo guardi negli occhi, capisci.
Lui sa. Ecco perché si comporta così, ecco perché ha davvero accettato di aiutarti, di fare questo grande favore a Potter.
Lui sa.
In questo momento lo detesti come non l’hai mai veramente detestato fino a quel momento, e lo guardi in una maniera che avrebbe fatto accapponare la pelle a chiunque.
Sherman capisce di aver detto qualcosa di sbagliato, o, almeno, che la sua presenza non è più così gradita, e si allontana, fino a sparire fuori dalla porta della stanza, richiudendola poi dietro le proprie spalle.
Tu non smetti di guardarlo con la stessa luce negli occhi fino a quando la porta non si chiude con uno scatto della serratura.
Ora sei solo – più o meno. E ti senti stanco, nonostante tu non abbia veramente fatto un granché. Hai solo appurato di essere ancora vivo e per mano di chi, dopotutto. E che non hai più la privacy mentale di cui godevi in passato.
Capisci di aver bisogno di dormire, e, come prima, sprofondi nell’oblio non appena chiudi gli occhi.
Proprio però come era successo prima, anche stavolta vieni svegliato. Ti esce dalle labbra un sibilo che sarebbe stato un borbottare infastidito, in altre circostanze, dato che, evidentemente, da quando ti sei miracolosamente svegliato, pare che nessuno voglia farti riposare più di tanto.
Quando apri gli occhi, allora, ti ritrovi davanti il professor Sherman, proprio come prima.
Ti ricordi anche del fatto che lui sia a conoscenza dei tuoi segreti, e allora non fai nulla per reprimere l’espressione infastidita che ti nasce sul volto. Sì, è vero, non hai la certezza che lui sappia – sei troppo debole per fargli un Legilimens tramite il mero contatto visivo – ma lo supponi. Ed è capitato poche volte che le tue supposizioni fossero totalmente errate.
Accanto a lui, però, è tornato il tirocinante con la sua espressione sottomessa, e stavolta è presente un altro guaritore, poco più giovane di Sherman, probabilmente.
“Signor Piton, perdoni il disturbo, ma ho preferito svegliarla, dato quanto stiamo per fare.” Iniziò subito Sherman, attirando allora la tua attenzione “Quando si trovava nell’incoscienza ovviamente procedevamo senza remore, ma ora… Sì, beh, stiamo per medicarle la ferita, quindi capirà… E’ meglio che lei sia sveglio, durante la procedura.”
Ah.
In effetti è meglio così: se tu ti fossi svegliato perché in preda a più dolorosi spasmi, la cosa ti avrebbe di certo… irritato.
“Va bene, allora, signor Piton?” Ti chiede Sherman, come se mai ti avesse medicato o  toccato, fino a quel momento.
Ma annuisci, cosa che pare dargli conforto.
“Oh, lui è Abner Witherington, uno dei nostri più esperti guaritori. Mi assisterà nell’operazione.”
Come è giusto che sia, non lo degni di uno sguardo.
A questo punto, però, Sherman smette finalmente di parlare, e si avvicina ulteriormente a te; inizia a scioglierti le bende che senti avvolte intorno al collo, e quando le rimuove anche il minimo alito di vento – e in una stanza come quella, qualora ci sia, è veramente minimo – ti provoca una spiacevole fitta di gelo. Vedi le bende nelle mani del professore, e pensi che un tempo devono essere state bianche, anche se ora, invece, sono macchiate di qualcosa di scuro, sul marrone – sangue, di certo. Il tuo – ma anche di qualcosa di giallognolo. Non indaghi. Non ne hai il tempo. Certo, preferiresti sapere cosa diamine ti spalmeranno sul collo, ma nelle tue condizioni sai che qualsiasi tentativo di chiarimento sarebbe praticamente vano.
Dannazione.
O magari qualsiasi cosa ti daranno, invece che spalmartela addosso te la inietteranno?
Vedi Sherman passare le bende a Wither… Withar… quell’altro, e segui i movimenti di quest’ultimo: afferra la stoffa delicatamente, ripiegandola su se stessa, per poi posare tutto sul comodino accanto al tuo letto. Quando guardi in direzione del mobile, vedi tante ampolle poggiate su di esso. Ma non puoi guardare bene, perché anche solo un lieve movimento adesso ti fa bruciare letteralmente la carne.
“Uhm, d’accordo allora.” Senti dire da Sherman, e lo vedi prendere un batuffolo di quello che doveva essere cotone, imbevuto in una qualche sostanza trasparente, dato che alla luce era leggermente… lucido.
Sherman assume un’espressione concentrata, a quel punto, e poi avvicina il cotone – o quel che è – al punto in cui deve necessariamente trovarsi la tua ferita, posandolo poi direttamente su di essa.
Brucia.
“Sto togliendo il residuo della precedente medicazione, signor Piton.” Ti spiega lui, e tu chiudi gli occhi, concentrandoti.
Più passa quel… coso sul tuo collo, più senti il bruciore aumentare d’intensità, ma rimani impassibile, tu. Se qualche spettatore esterno osservasse la tua espressione in questo momento, direbbe che non stai provando nulla. D’altronde hai affrontato di peggio; un po’ di dolorosa infiammazione è più che sopportabile.
Il problema è che questo è nulla in confronto a ciò che viene subito dopo. Una volta finita quella semplice operazione, infatti, Sherman prende una di quelle ampolle che hai adocchiato prima, e ne versa il contenuto su una piccola spatola. È giallo e piuttosto denso, più simile ad una crema che ad una pozione, difatti Sherman inizia con il ricoprirti la ferita di quella sostanza.
Brucia, di nuovo.
Ma è un bruciore differente, un bruciore molto più… intenso: ti sembra che il dolore penetri all’interno del tuo collo, che vada a contagiare il sangue, che si espanda attraverso di esso per tutto il tuo corpo, fino ai piedi, e oltre le punte dei capelli. Stringi i denti quasi fino a digrignare, ma speri che gli altri non ne odano il suono. Non puoi mostrarti debole. Il tuo vigore, sia fisico che morale – e la tua voglia di esso – è ai minimi storici, ma mai ti sei mostrato debole, e mai lo farai.
Stringi gli occhi ancora di più, mentre il tuo respiro accelera per l’ennesima volta. Ti sembra che Sherman ti stia medicando da ore, mentre di sicuro sono passati solo pochi minuti.
Il tempo alterato dalle sensazioni fisiche sarebbe un’interessante materia di studio psicologico.
Ti concentri su questi pensieri – pensieri esterni – per non venir sopraffatto dal dolore; anche se ti verrebbe da stringere i pugni fino a romperti le dita. Peccato che non puoi.
Fortunatamente, almeno, la ‘tortura’ finisce relativamente presto – relativamente – di modo da riuscire a ritrovare la capacità di respirare in maniera un po’ più normale.
“Abbiamo finito, signor Piton.”
E’ Sherman.
Li senti metterti delle bende pulite intorno al collo, ma non riesci neanche a guardarli: rimani con gli occhi fissi sul soffitto bianco, respirando profondamente di continuo, aspettando che passi. Alla fine i guaritori smettono di toccarti, e ti sembra che ti salutino pure, ma tu non dai loro l’importanza che invece forse si meriterebbero, dato che stanno cercando di… riabilitarti.
Ma già sai che ti interessa abbastanza poco qualunque cosa loro stiano facendo; proprio perché ti interessa poco che tu venga salvato. O riabilitato. Non fa molta differenza.
“Ti posso capire.” Ti dice improvvisamente, poi, qualcuno.
Ti volti piano verso la tua sinistra, lentamente, dal momento che ti dole ovunque, come se ti stesse ardendo la carne viva. Il vecchio che avevi visto addormentato sul letto accanto al tuo ora è sveglio, e ti sta guardando con un sorrisetto apatico. Ha gli occhi semiaperti, grigi: un colore particolare, ma che non dà ai suoi occhi tutta la dovuta lucentezza, perché sembrano irrimediabilmente spenti. E… acquosi.
Sembra che quell’uomo si trovi in quella stanza ma che allo stesso tempo sia altrove.
“Anch’io provo dolore, sai, ragazzo.”
Nessuno ti chiama così da… da neanche ti ricordi più quanto.
Ti limiti a guardarlo, come hai fatto fino a quel momento.
Non sei in vena di alcuna conversazione, sinceramente. Certo, se tu potessi partecipare ad una di esse. Ma tanto anche solo il rimare lì ad ascoltare ciò che quell’uomo sicuramente ti dirà ti annoia, quindi il problema, almeno in quell’unico momento, non ti si pone.
“Ti posso capire benissimo.” Continua lui “Ho visto come cercavi di far finta di niente. Ormai lo riconosco quando qualcuno ci prova; con me fanno sempre finta di niente.” Fa una breve pausa, mentre intanto continua a guardarti con quel suo sorriso annacquato “La mia è una sofferenza continua.” Si mette più dritto con la schiena, quasi seduto “Qui dentro. Ecco perché ti capisco.” E con un dito indica la propria tempia.
Poi si lascia andare ad una breve risata, e a quel punto tu torni a guardare verso il soffitto, disinteressandoti completamente del tuo… vicino.
Ti ci mancava che capitassi nella stanza di un matto.
Sospiri.
Vorresti che tutto finisse all’istante.
E sono passate solo poche ore dal tuo risveglio.









Note:

Salve a tutti! Il primo capitolo è arrivato abbastanza presto, come avrete notato, dato che, in fondo, avevo postato solo il prologo. Quindi... Ecco qua! Spero che vi sia piaciuto, o che comunque vi abbia incuriosito: c'è stato il cambio di persona, come avete visto, e così anche il cambio del punto di vista. D'ora in poi tutta la storia sarà dal punto di vista di Piton, quindi, e l'uso della seconda persona mi piace molto, devo dire! A proposito, un piccolo appunto: se, da adesso in poi, troverete che i pensieri di Piton siano un po'... incoerenti tra loro, il tutto è così perché, semplicemente, è come se fossimo nella sua testa. Chiunque, quando riflette, formula così tanti pensieri così istintivi, che è piuttosto impossibile che siano tutti coerenti; qualcosa sfugge sempre. Certo, a meno che non si tratti di questioni importanti. Ma Piton è in uno stato - diciamocelo - alquanto 'pietoso' e anche la sua mente è provata - almeno, è questo che provo ad esprimere - perciò... non stupitevi se a volte i suoi pensieri vi sembreranno 'strani' XD

Detto ciò... Vi saluto, ci ribecchiamo al prossimo capitolo!

Oh, prima di chiudere, chiedo a tutti voi - vi supplico, sul serio D: - di aprire questo link di Facebook e di mettere un 'mi piace' al mio racconto che troverete. Vi ci vogliono un paio di secondi scarsi! E' per un concorso, e chi vince riceverà una borsa di studio per un corso di narrativa! Sono seconda in classifica, ma la ragazza che sta vincendo è agguerrita come non mai! (Del tipo: ogni ora che passa riceve almeno uno o due 'mi piace' in più .-.)
Mi aiutate? Vi ringrazio di cuore.
Ecco il link:
cliccate qui ---> 
In equilibrio

   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Harry Potter / Vai alla pagina dell'autore: Iurin