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Autore: Iurin    09/04/2013    4 recensioni
La guerra è finita. Voldemort è morto, i defunti vengono sepolti, i feriti vengono curati.
E, a differenza di quanto accade nel settimo libro, Piton sopravvive.
Però è stato comunque morso da Nagini, quindi non se la passa per niente bene, infatti deve essere costantemente seguito da una guaritrice, Serena O'Dampand, che andrà a stabilirsi a Spinner's End insieme al professore.
E Piton, ovviamente, non ne è affatto contento. Ma tanto non sembra soddisfatto di niente, ormai: a cosa gli serve vivere?
Questa storia narra la riabilitazione di Piton, i suoi pensieri, la sua malattia. E chissà che lui non guarisca davvero - da tutto, però.

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«Basta. La tua vita si è conclusa alla Stamberga Strillante. Quello che vivresti d’ora in poi sarebbe solo un… riflesso. Un fantasticare costantemente – e penosamente – su quello che avrebbe potuto essere e che invece non sarà mai.» (Cap. 3)
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Severus Piton
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da VII libro alternativo
Capitoli:
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Capitolo Due

 
 

Le ore sembrano passare troppo lentamente. È sempre stato così, e tutti l’hanno sempre ripetuto fino alla nausea: quando stai facendo qualcosa di estremamente interessante, il tempo vola via in uno schiocco di dita; quando invece la noia riempie l’aria fino a farti mancare il respiro e girare la testa, i secondi si trasformano stranamente in minuti, e i minuti in ore.
Perciò neanche ti sorprendi più di tanto, quando, steso in quello che ormai è ufficialmente il tuo letto, ti rendi conto di quanto ogni secondo sembri diventare più pigro ogni istante di più.
C’è un orologio spartano, appeso alla parete accanto alla porta di ingresso alla stanza, e senti le lancette muoversi, scandendo quel tempo che non passa mai. Ogni ticchettio va esattamente allo stesso ritmo del tuo battito cardiaco, e, più il tempo passa, più quel rumore ti sembra metterci di più a verificarsi.
Sia quello dell’orologio, sia quello del tuo cuore.
Suggestione, certo. Non hai nulla da temere. Ti hanno già detto che il tuo cuore non si fermerà. Ti hanno detto che stai benissimo, in fondo.
Benissimo.
Non hai nulla da fare se non guardare in alto verso il soffitto. A volte ti sembra persino che il suo bianco aumenti anche d’intensità, oppure di vedere tante piccole macchiette nere su di esso.
Stai impazzendo.
O forse no. Forse non sei mai stato tanto lucido in vita tua. Te ne rendi conto ascoltando i tuoi… compagni di stanza: il vecchio accanto a te non ha smesso neanche un attimo di parlare, da quando si è svegliato, e sebbene tu all’inizio abbia cercato di ascoltarlo per trovare un diversivo dal contare gli incessanti secondi che ti separano dalla fine di quell’estenuante giornata… alla fine non ce l’hai fatta più, e hai smesso di prestargli attenzione.
“…E le mosche. Hai mai pensato alle mosche, ragazzo? Fanno molta pena. Sono sporche, e portano malattie. Credo.”
Ne stai avendo veramente abbastanza.
“Però non fanno schifo. Lo sapevi che tempo fa c’era chi dava agli altri dei premi a forma di mosca? Secondo te perché? Secondo il parere comune forse per sottolineare che chi li riceveva in realtà è una merda colossale?” Ride, e la sua risata ti raschia le pareti del cervello “E invece no; glieli davano perché è stato operoso. Lo so, io. Tu lo sapevi, ragazzo?”
L’uomo di fronte a te – o meglio: sdraiato sul letto di fronte a te – invece non parla molto. Quasi per niente, in effetti. Ma non è come te: lui può parlare, non è costretto nel mutismo.
Non che tu abbia niente da dire, comunque.
Ma lui l’hai sentito parlare, quando gli hanno portato il pranzo. ‘Ancora minestra?’ Aveva semplicemente detto con una smorfia disgustata. E disgustosa, dato che gli metteva in evidenza la bocca e tutti i suoi denti mancanti.
È silenzioso, e lo reputi un bene. Un vicino che non fa altro che blaterare di discorsi insensati ti basta ed avanza. L’altro si limita a fissare. A fissarti, più che altro.
È irritante, certo, e anche molto; non hai detto che non lo sia, ma almeno non parla.
Se il vecchio non ha smesso di parlare da quando ha aperto gli occhi, l’altro non ha smesso da guardarti da quando si è messo seduto con i cuscini ben sistemati dietro la schiena.
Ti rendi conto che sei stufo di stare sdraiato come un poppante dalla schiena debole, a proposito.
L’altro non ha smesso di osservarti neanche quando è arrivato il tirocinante per… Beh.
Tutto ciò che ti viene somministrato, tanto le medicine quanto le flebo di vitamine e pozioni e di tutto ciò che riesce a mantenerti in vita – o quella che pare tale – o semplicemente l’acqua, in qualche modo prima o poi dovrai pure… espellerlo.
Sei diventato uno spettacolino di bassa lega, uno di quegli esseri raccapriccianti che si incontrano sul ciglio delle strade di periferia poco trafficate. La gente di passaggio vorrebbe evitarli, ma da lontano quasi non riesce a fare a meno di guardarli comunque.
È l’animo sporco di chi ha sempre lucidato la propria vita di finti perbenismi. A volte ha bisogno di nutrirsi; che sia di un suono osceno, di una storia di sangue, o di tali nauseanti visioni, poco importa.
C’è qualcosa di perverso, in tutto questo.
Ti chiedi se te lo meriti veramente.
Qualcuno – un paio, forse – direbbe di no, asserendo che non hai fatto nulla di male – ah, l’utopia. Altri direbbero che te lo meriti ampiamente, invece, perché nella tua vita hai fatto fin troppo.
Il giusto sta nel mezzo, il giudice imparziale affermerebbe. Tu non ne sei tanto sicuro.
“… Ragazzo, potresti dare qualche segno di vita, ogni tanto, eh. Sbatti almeno le palpebre, così non mi sembra di parlare con una mummia.”
Paragone calzante, non c’è che dire.
Ti volti appena verso di lui, tanto per fargli capire che non sei morto. Non ancora, almeno.
“Sei un ascoltatore, mmh? Uno zelante. A questo mondo è difficile trovare dei buoni ascoltatori. La maggior parte delle persone che dice di ascoltare la gente in realtà è la prima a non farlo. Ascoltano, sì, ma poi dimenticano.”
Quel vecchio sta per cominciare un altro dei suoi ragionamenti infiniti, ne sei praticamente certo. Almeno ha smesso di parlare di mosche… E’ un miglioramento?
Bah, smetti direttamente di chiedertelo, mentre torni a guardare verso l’alto.
“Sei veramente uno dei migliori ascoltatori che io abbia incontrato. E ne ho incontrata parecchia, io, di gente.”
No, non è vero, non lo sei. Tu non ascolti mai, non hai mai ascoltato veramente qualcuno, se non quando la cosa non ti avesse riguardato propriamente e da vicino. Ascolti solo quando è essenziale.
Ma, nonostante ciò, tu non dimentichi.
“Sai la cosa strana, però? Non hai la vitalità di un ragazzo. Insomma, sei un ragazzo, no? Con questo non voglio dire che tu non sia… virile o scempiaggini simili, però tu sei così… A proposito, come hai detto che ti chiami?”
Preghi che il tirocinante, in un momento di inconsueto coraggio, entri e ti dia una botta in testa. O che la dia a quel vecchio, almeno.
Ti rendi conto solo allora che continui nella tua testa a chiamarlo semplicemente ‘vecchio’, così come l’altro paziente finisci per chiamarlo ‘l’altro’, appunto.
Loro non sanno il tuo nome – a quanto pare – e tu non sai il loro. E neanche ti interessa, a dirla tutta.
“Oh, beh. Mi tornerà in mente prima o poi. Sempre che torni. La mente, intendo.”
Chiudi gli occhi, appena offuscati per non aver sbattuto le palpebre troppo a lungo.
“Io lo so come ti chiami.”
Riapri gli occhi, alzando leggermente la testa, con fastidio tuo e del tuo stesso collo, per guardare L’altro, che ha appena pronunciato quelle poche parole.
Ti sta guadando, come sempre ha fatto fino a quel momento, ed è serio; talmente serio che gli angoli della sua bocca finiscono per inclinarsi al di sotto della linea centrale delle sue labbra screpolate. Uno sguardo di disprezzo negli occhi.
Ti chiedevi, in effetti, quand’è che un tale atteggiamento nei tuoi confronti si sarebbe ripresentato. Ciò ti consola più di quanto ti saresti aspettato. Una breccia di normalità e di quotidianità nel tuo devastante risveglio.
“Io lo so chi sei.”
La conferma delle conferme.
“Ah, sì?” Dice subito il Vecchio, puntando gli occhi verso L’altro “E tu come lo sai?”
“Io lo so.”
“Su questo non c’era dubbio.” Fu la risposta soddisfatta del primo.
L’altro chiuse la bocca, e il Vecchio non fece altre domande, riprendendo invece a parlare di quello che ha mangiato a pranzo, sebbene tu lo sappia già.
Nessuno indaga ulteriormente; a nessuno sembra interessare più di tanto l’argomento. Tu non sembri interessare più di tanto, come sempre e nonostante la situazione. Non a loro, almeno. È quasi paradossale.
Continuano a passare le ore, e i respiri regolari.
Improvvisamente avverti il tuo stomaco borbottare, ma lo ignori.
E vieni così assalito da due… emozioni contrastanti: da una parte ti senti flebilmente sollevato, dato che, a quanto pare, il tuo corpo non è totalmente da buttare; gli organi paiono preservare la loro recettività. Dall’altro lato però pensi a quanto il tuo corpo sia stupido: non dovresti aver fame, dato che ciò di cui hai bisogno ti viene comunque fornito per vie trasversali, eppure il tuo stomaco sente comunque la mancanza di qualcosa di solido.
Strano, dato che sono anni che hai un masso proprio lì.
Quasi ti senti una pianta, a proposito, curata ed annaffiata abbondantemente dal suo proprietario.
Estremamente svilente.
La porta si apre, poi, proprio in quel momento, e scorgi le cespugliose sopracciglia di Sherman.
“Buongiorno.” Esordisce “Come stanno oggi i miei pazienti?”
“Oh, non c’è male, non c’è male, lei chi è?” Risponde il Vecchio.
Alzi idealmente gli occhi al cielo.
“Sono il dottore.” Spiega allora Sherman con un sorriso bonario “Quello delle solite chiacchierate, si ricorda?”
“Ah, sì, è vero. Però devo davvero confessarle una cosa.”
“Mi dica pure.”
“Lei non ascolta tanto bene. Ascolta molto meglio il ragazzo, questo qui.”
Ti indica, e tu inarchi un sopracciglio.
“Questo qui ti ascolta quanto lo farebbe un muro.” Si intromette improvvisamente L’altro.
“Un mulo?”
“Un muro, sordo che non sei altro! Sei così intento a parlare che neanche ci senti più!” Esclama alzando un po’ la voce. Vedi qualche schizzo di saliva fuoriuscire dalla sua bocca “Sono stufo di stare qui!” Continua poi, riferendosi direttamente a Sherman “Voi… Voi volete rinchiudermi! Volete che impazzisca, volete farmi fuori!”
Continui a guardare la scena senza cambiare espressione.
“Per favore, per favore.” Interviene Sherman avvicinandosi al letto del L’altro “Qui nessuno vuole fare niente, gliel’assicuro.”
“Bugiardi!”
“Per favore.” Ripete allora Sherman con tono decisamente più serio “Devo forse chiamare quell’uomo?”
“Quale uomo?”
“Quello dalla veste nera?”
E, a quel punto, L’altro pare pietrificato tanto quanto te. Ha gli occhi sgranati, e vedi la paura, dentro di essi.
O forse no. Non è paura: è puro e semplice terrore.
Per un momento quasi credi che Sherman stia parlando di te, ma poi scuoti appena la testa, dandoti dell’idiota.
“No.” Risponde allora L’altro, abbassando quello sguardo atterrito sul proprio lenzuolo verde.
“E allora stia calmo.” Quasi intima Sherman “Per cortesia.”
Un’aggiunta necessaria.
L’altro annuisce con sguardo vitreo.
Il Vecchio si mette improvvisamente a ridere, interrompendo il breve momento di silenzio, portandosi poi una mano davanti alle labbra per soffocare il rumore dei suoi sghignazzi.
Sherman sospira, prima di avvicinarsi al tuo letto con passo quasi stanco. Tu non puoi che guardarlo in maniera interrogativa.
“Poi… Poi le spiego, signor Piton.” Ti risponde non appena incrocia i tuoi occhi.
Senti il Vecchio ridere ancora.
“E…” Aggiunge allora Sherman “Mi dispiace debba… sopportare tali scene, ma l’ospedale è pieno, lei mi capirà. Dopo la guerra…”
Lascia la frase in sospeso, e tu annuisci quasi impercettibilmente.
“Ah, sì, sì, la guerra.” Salazar, ma non stava mai in silenzio, quello lì?! Se tu potessi muoverti non ci metteresti che un paio di secondi scarsi per zittirlo “Me la ricordo bene. Era il 1979. O il ’45. Ah, chi se lo ricorda. E insomma, c’era questo Austriaco che…”
Cerchi di concentrarti sul viso di Sherman per non ascoltare ancora. Forse è il male minore.
“Volevo solo dirle, signor Piton, che fra non molto vorremmo procedere con qualche analisi, per verificare se ci sono dei miglioramenti.” Ti parla nonostante il blaterare continuo in sottofondo “Tanto per metterla al corrente.”
Annuisci, come hai fatto poco prima, anche se vorresti tanto dirgli ti smetterla di parlare con quel tono lacrimevole che tanto male sopporti.
Ma te le puoi ancora permettere cose del genere? Certi pensieri? Certe speranze?
E ha veramente importanza, dopotutto?
“Bene. Allora a tra poco, signor Piton.” Conclude Sherman, e, dopo aver indugiato forse un secondo di troppo, se ne va, uscendo dalla stanza.
L’ennesima risata giunge alle tue orecchie, a quel punto.
“Ora lo so come ti chiami.”
Ti limiti a sbattere le palpebre.
L’altro si limita a far dondolare il proprio corpo, la testa ciondolante.
Odi quel posto.
Odi quella gente, e odi il fatto di non poterti sottrarre a loro. Odi la consapevolezza che nulla ti costringe a rimanere lì, se non una parte di te. Una consistente parte di te. Ti odi da solo.
E odi il non poter esprimere il tuo odio.
Le lancette dell’orologio continuano a scorrere, sempre nello stesso verso, monotone. La luce che entra dalla finestra si specchia nel vetro posto a loro protezione, creando figure inesistenti; un quadrato piuttosto sbilenco si trasforma d’improvviso in un cerchio se solo sposti il capo di neanche trenta gradi completi.
Secondo quelle lancette sei rimasto a fissare quei disegni di luce per più di quanto avresti fatto in una situazione… normale.
E poi, proprio allora, la porta si apre nuovamente.
Credi che si tratti di Sherman, del suo tirocinante, e magari anche di quell’altro guaritore di cui non sei riuscito ad imparare il nome.
Merlino. Speri che la tua memoria non abbia subito qualche danno. Non sembrerebbe, ad una veloce ispezione: ti ricordi tutto, anche ciò che preferiresti persino dimenticare.
Tu non dimentichi mai.
Ma non è il professor Sherman l’uomo appena entrato nella stanza, e questo attira la tua attenzione: è un uomo, sì, forse poco più giovane di te, in effetti, vestito di tutto punto, elegante, in un completo blu scuro.
Come se stesse andando ad un matrimonio; o ad un funerale.
Lo guardi mentre non si cura né di te né del L’altro, che, ora, ha ripreso a fissarti, dopo quel suo momento di panico. E continui a guardarlo, discretamente, mentre si avvicina al letto del Vecchio.
“Ciao, papà.” Dice.
Il Vecchio lo guarda con i suoi occhi acquosi, spostando lo sguardo dal vetro della finestra, situata proprio accanto al suo letto.
“Oh, buon pomeriggio.” Risponde lui.
Immagini che quello non sia il tono abituale di un padre che si rivolge a suo figlio.
Non ne sei certo, ovviamente – tuo padre era ben lontano dal parlarti come si fa ad un figlio – ma lo immagini.
Non che il Vecchio abbia urlato, o abbia parlato come se fosse disgustato dalla presenza di suo figlio, ma semplicemente… Ha parlato come se si stesse rivolgendo all’ennesimo infermiere, o al cameriere di un pub.
Stirata e neutrale cortesia.
“Come stai?” Chiede allora il figlio, rimanendo in piedi e guardando il Vecchio con un sorriso che forse vuole dire tante cose, ma che, concretamente, non è che esprima granché.
Stirata e neutrale cortesia, anche la sua. Quella di chi si è adeguato ad una causa ormai persa.
E tu lo sei, invece? Sei anche tu una mera causa persa, come quel Vecchio rimbambito?
“Molto bene, grazie.”
A questo punto giri gli occhi altrove, tornando a fissare il vetro dell’orologio a muro.
Ti prude un orecchio, e tu imprechi tra te e te.
“…Mi diverto molto.”
“Davvero?”
“Sì, certamente. Come hai detto che ti chiami, ragazzo?”
“Sono Johnathan, papà.”
Pausa.
“Sono contento che non ti annoi.”
“Oh, passo un sacco di tempo a chiacchierare con il mio vicino.” Pausa “Non è molto loquace, però.”
Per un momento nessuno parla, e speri che la cosa rimanga così il più a lungo possibile.
Poi, dei passi. Lenti, in principio, poi decisi. Il tacco della scarpa rimbomba, colpendo il pavimento. Infine si fermano, e quando sposti gli occhi dall’orologio vedi il figlio del Vecchio stavolta ai piedi del tuo, di letto. Tiene le mani sulla ringhiera, a pugni chiusi, e ti guarda. Ti disprezza.
Non c’è una stirata e neutrale cortesia, per te.
Ricambi lo sguardo, infondendo nel tuo, anche tu, tutto il fastidio che sei capace di esprimere.
Se poi lui vorrà saltarti al collo, peggiorando – o risolvendo definitivamente, dipende dai punti di vista – il danno, che lo faccia pure. Non ti interessa.
“Vado un attimo… Vado un attimo a parlare con il dottore, papà.” Dice lui, apparentemente senza riuscire a smettere di tenere i suoi occhi su di te.
Il Vecchio fa un vacuo cenno d’assenso, e il figlio si stacco dal tuo letto con un lieve tremore delle mani, per poi uscire.
Lo conosci? L’hai mai conosciuto?
Non ti ricordi.
“E’ un bravo ragazzo, quello lì.” Commenta il Vecchio “Viene sempre a trovarmi, e ogni tanto mi porta dei cioccolatini. Anche se non so perché.”
“Ora non verrà più.” Dice L’altro, interrompendo quello che sarebbe stato l’ennesimo, infinito monologo.
“Perché dici questo?”
“Perché anche lui sa chi sei tu.”
Sta parlando con te, guardandoti fisso, come al solito.
Magari sarà L’altro a saltarti al collo, prima o poi.
Passano dei buoni tre quarti d’ora, prima che il figlio del Vecchio rimetta piede nella stanza. E lo fa in un modo molto… discreto, non c’è che dire. Vedi infatti la porta che si apre, dapprima, e la sua figura farsi avanti, per poi, però, voltarsi indietro, ancora con la mano sulla maniglia della porta semiaperta.
“No, io non sto affatto calmo!” Esclama rivolto a qualcuno che tu non riesci a scorgere.
La porta si richiude, e lui sparisce.
Senti comunque delle voci, al di là della porta: una è di quel Johnathan, le altre non riesci bene ad identificarle.
Sei praticamente sicuro che lì fuori stiano litigando a causa tua.
Almeno adesso qualcuno ti considera veramente. Hai dovuto aspettare che fosse un estraneo colui che prendesse una tale iniziativa.
Non che Sherman, i suoi… colleghi o il Vecchio e L’altro siano persone a te familiari, certo. Finora hai avuto sempre a che fare con estranei, in effetti; nessuna persona che tu già abbia conosciuto è venuta fin lì, da te.
Magari neanche può. O non vuole.
Lo reputi un bene, nonostante tutto. D’altronde tu per loro – per chiunque, o quasi – sei sempre stato praticamente un estraneo, no? Cosa pretendi?
E comunque non vuoi che l’ipotetico qualcuno venga fin lì, da te. Magari nessuno di accettabilmente interessante sa addirittura dove ti trovi.
Per un istante ti chiedi persino se quello sia veramente il San Mungo.
La risposta è che stai impazzendo anche tu, probabilmente.
La porta si apre nuovamente, però, e la cosa ti distrae ancora. Torni a guardare la sena, scorgendo Johnathan rientrare velocemente nella stanza, seguito a ruota nientedimeno che dal professor Sherman.
“Non si può fare altrimenti, signor Evans, cerchi di capire.” Dice Sherman, perfettamente udibile, avvicinandosi all’uomo decisamente alterato.
Avverti il cuore battere in maniera strana ancor prima che tu ti renda conto di quanto hai effettivamente appena sentito.
Signor cosa?
Il tuo sguardo passa dal Vecchio e suo figlio e viceversa per due, tre volte. E poi, nell’istante immediatamente successivo, ti senti stolto come pochi. La sua famiglia era babbana. Tutti quanti, nessuno escluso. A parte lei. E quelli che in quel momento stai guardando sono maghi, non Babbani. Non c’entrano niente, con lei. Evans è uno dei cognomi più comuni che ci siano, dopotutto.
Non fare il patetico, per Salazar. Se già abbastanza pietoso.
Non che tu desideri la pietà di qualcuno, sia ben chiaro. Renderebbe tutto soltanto più demoralizzante, e te più furioso.
“Non accetto che qui accada una cosa del genere!” Continua, nel frattempo, a sbraitare Johnathan Evans “Che razza di politica sta adottando questo reparto?”
“Se solo lei mi lasciasse spiegare!”
No. Non vuoi che Sherman si spieghi. Per niente.
“Non ho intenzione di ascoltare una parola di più! Mio padre non rimarrà in questa stanza con quello!”
E, detto questo, se ne va via, di nuovo, sbattendo la porta con forza, tanto che scorgi l’orologio quasi tremare.
Sherman, allora, si volta verso di te con uno sguardo sul volto carico di scuse, ma non ricambi.
Voleva spiegarsi, lui. Lui che sa.
Lo mandi mentalmente al diavolo.
Anche lui si ritira, a quel punto, ma sei certo che lo rivedrai di lì a molto poco, per quelle analisi che ti ha annunciato diverso tempo prima, ormai.
Minerva McGranitt gli avrebbe dato del babbuino, se lei fosse stata in te.
E non puoi non chiederti lei dove sia, al momento. Magari si trova al San Mungo anche lei, o magari invece si trova semplicemente a casa propria; ti chiedi se sia effettivamente ancora viva.
E all’improvviso desideri che qualcuno arrivi lì e che ti spenga il sole.
Alla fine, per fortuna, Sherman torna, accompagnato dal suo fedele allievo. Parla subito con te, una volta fatta la sua comparsa.
“Deve perdonare il mio ritardo, ma c’è talmente tanto da fare, in momenti come questi…”
Lo capisci; ma allo stesso tempo è come se tu non riesca a renderti veramente conto che ancora esiste un mondo, fuori da quella porta. Tutto il tuo mondo in questo istante si concentra in quelle quattro mura, e presumi che ancora sarà così per diverso tempo; più del limite della tua sopportazione, presumibilmente.
Eppure quella porta stai per oltrepassarla anche tu, invece.
Oh, non sulle tue gambe. Non c’è pericolo, a riguardo.
L’infermiere, difatti, si accuccia a terra, e lo senti trafficare con qualcosa di metallico sotto il tuo materasso.
“Ora andiamo a fare un giro, eh, signor Piton?” Ti dice Sherman, provando a fare il simpatico.
Non gli riesce.
Ti rendi conto che non hai sentito il tirocinante parlare, finora, in un piccolo momento di disinteresse.
Non dovresti essere disinteressato riguardo quel che ti accade, e lo sai, ma ultimamente ti riesce fin troppo facilmente.
“La porteremo in un’altra stanza adesso, in un’altra area del nostro reparto.” Continua allora Sherman “Effettueremo dei semplici prelievi del sangue, le daremo delle altre pozioni guaritrici, le cambieremo le flebo sostituendole con altre… Insomma, questo genere di cose.”
Ti fa una sottospecie di sorriso di incoraggiamento che gli mette in evidenza le rughe attorno agli occhi, leggermente… strizzati in quella sua nuova espressione.
Tu, semplicemente, ti volti dall’altra parte, guardando il Vecchio Evans che ora ha ripreso a sonnecchiare, sebbene sia palese che non sia completamente addormentato. Preferisci non posare il tuo sguardo su L’altro, mentre il tirocinante inizia a far muovere il tuo letto, dirigendolo verso la porta.
E così, qualche istante dopo, sei fuori.
È un fuori caotico, un fuori veloce, un fuori fatto di passi affrettati, di guaritori che chiedono alle infermiere se sono passate dal paziente Tale e se hanno eseguito tutte le istruzioni. È un fuori rumoroso, fatto di persone che urlano per farsi sentire fino alla fine del corridoio, velocizzando così i tempi di comunicazione, di passi scattanti, di suoni metallici. È un fuori fatto di sguardi indagatori e bocche che si storcono non appena qualcuno posa gli occhi su di te. È un fuori di disapprovazione quando il guaritore di passaggio si sofferma su Sherman che cammina accanto al tuo letto.
È un fuori agitato, così diverso dal dentro della tua stanza, fatto di invece delle chiacchiere sul nulla e delle occhiate malate di un povero pazzo.
È un fuori che non ti appartiene più.
“Ehi, ehi! Fermi un secondo! È lui? È Severus Piton?” Qualcuno urla all'improvviso, non capisci bene da dove.
Sherman guarda il suo tirocinante e quest’ultimo aumenta il passo, e il tuo letto con lui.
Senti la voce di qualcun atro rispondere alla prima.
“Fuori di qui. Chi l’ha fatta entrare? È un ospedale, questo qui, ci sono dei malati e dei feriti!”
“Sono Rita Skeeter, inviato speciale della Gazzetta del Profeta, e non mi dica fandonie, ho visto che quello lì è l’ex Presi--”
“Può essere anche suo nonno, non le deve interessare, per quanto io glielo consegnerei più che volentieri. Ora fuori di qui!
“Ma io devo… Voi non potete nascondere…!”
Fuori, ho detto!”
Il resto del dibattito si perde nella confusione, fino a quando nessun vociare riesce più a raggiungerti, una volta arrivati alla sala che è stata preparata apposta per te, e non appena la pesante porta viene richiusa, lasciando tutto nuovamente fuori, lontano da te.
Senti Sherman sospirare, mentre distrattamente posi gli occhi su quel medico che già hai visto una volta, già presente nella stanza, da prima di voi.
Neanche lui l’hai mai sentito parlare.
“E’ il caos.” Commenta il professore “Non vedo l’ora che tutto torni com’era, e che questo reparto torni a fare ciò per cui è stato destinato. Sa, signor Piton,” Ti dice “il San Mungo non è mai stato così pieno. Hanno portato qui persone bisognose di cure che in realtà dovrebbero trovarsi totalmente ad altri livelli. Il tutto perché non c’è più posto.” Sospira ancora “Il caos, davvero.”
Sì, beh… Immagini che in tempo di guerra – o comunque subito dopo la fine di una di esse – ci sia parecchio lavoro da fare. E non solo negli ospedali, ma su qualunque fronte; come, per esempio, per quanto riguarda la ricostruzione degli edifici danneggiati o completamente distrutti che siano.
Come Hogwarts, per esempio.
Ti dispiace particolarmente pensare a quel castello. Non avresti voluto che subisse un tale… scempio. Ma in quell’ultimo anno la distruzione era solo stato l’apice degli orrori che erano avvenuti al suo interno. Hai cercato di mantenere l’ordine e il controllo; hai cercato di fare in modo che nessuno si facesse del male – non più dell’irreparabile, perlomeno – quindi il fatto che sia stata perlopiù ridotta in macerie non dovrebbe sconvolgerti. Tutto ciò che è marcio prima o poi finisce col crollare. E in ogni caso alla distruzione – almeno a quello – si può porre rimedio. Alle Cruciatus subite dagli studenti del primo anno, no.
Ma nonostante tutto continui a chiederti che ne sia rimasto di Hogwarts, dei sotterranei, del tuo ufficio – quello di quando eri insegnante – domandandoti se qualcuna delle sue torri sia effettivamente rimasta in piedi. I tuoi pensieri però vanno quasi da soli, di propria iniziativa, alla torre di Astronomia, ennesimo palcoscenico di una rappresentazione teatrale sofferta fino all’ultimo; e così smetti di pensare, tornando ad interessarti al presente.
Ti guardi intorno, allora: la stanza in cui ti trovi non è affatto un’altra stanza da letto, bensì assomiglia di più ad un laboratorio. O comunque all’anticamera di un laboratorio. Oltre la seconda porta che vedi in quell’ambiente, presumi che, appunto, vi siano tavoli con calderoni, fiale, provette, bottiglie, ingredienti, appunti ordinatamente sistemati qua e là.  Per un momento vorresti quasi che Sherman ti ci portasse, per poi riflettere sul fatto che ti dovresti sforzare anche solo per fargli capire una misera frase e oltre al fatto che stai formulando gli stessi pensieri di un bambino che è stato troppo a lungo lontano dai propri giocattoli. Ti stai rendendo insopportabile a te stesso.
In quella stanza, comunque, lasciando allora perdere l’ipotetico laboratorio, si trovano giusto un paio di tavoli, con sopra diversi fogli e cartelle che da quella distanza non riesci a leggere; alle pareti si trovano  scaffali e scaffali di pozioni sistemate in ordine alfabetico e a scopo prettamente curativo, sistemate lì e non nel laboratorio – deduci – in quanto sono ormai pronte per essere somministrate ai più.
C’è una grande finestra, sopra ad uno dei tavoli, dai vetri leggermente opachi, ma dalla quale non entra molta luce, a causa della tendina color ocra chiusa per metà.
“D’accordo, dunque, uhm… Le spiego la situazione, signor Piton.” Riprende a parlare Sherman, e allora ti volti verso di lui “Le daremo dell’altra Pozione Rimpolpa Sangue, diluita con della Pozione Dorata, che sistemeremo qui.” Indica la sacca per la flebo sospesa in aria alla tua sinistra “e fin qui nulla di complicato. Dopodiché dovrà mandare giù una dose di Pozione Corroborante” Afferra una bottiglietta posata su un tavolo e la alza per fartela vedere “ed una di Pozione Cicatrizzante per le ferite interne.” Alza anche un’altra bottiglietta, a quel punto “Infine le daremo – uhm, questa.” Prende tra le dita una boccetta un po’ più spartana “È nuova, è… diciamo decisamente recente, come pozione, tanto che ancora non ha neanche un nome. Prodotta giusto stamattina.” Sherman fa una pausa, mentre tu continui a guardarlo attentamente negli occhi “E…” E’ leggermente a disagio, lui, e tu già immagini il perché “Nessuno l’ha mai provata, lei sarebbe il primo. È stata creata per contrastare gli ultimi effetti provocati dal veleno, ovvero la sua paralisi, signor Piton. Siamo ottimisti, solo che per poter effettivamente scoprire se tale pozione ha effetto, beh, deve prima berla. Ah, abbiamo pensato di addizionarla ad un Filtro Anti Pietrificante, in ogni caso, tanto per andare un po’ di più sul… sul sicuro.”
Oh, perfetto. Adesso sei diventato una cavia.
Ma non hai paura, figurarsi. Ti facciano pure quello che reputassero opportuno; tu li asseconderai con inerzia. Quanto hai da perdere, alla fine?
Sherman continua a guardarti, ma stavolta in silenzio, e tu fai altrettanto.
“E’ d’accordo, sì o no?” Dice poi un’altra voce.
È quel… Abner Qualcosa, che parla, spazientito e col tono decisamente infastidito.
Annuisci nella sua direzione.
“Procediamo, allora.” Conferma, dunque, Sherman, mentre l’altro guaritore distoglie subito lo sguardo da te, concentrandosi poi sulle pozioni, che nel frattempo il tirocinante gli passa celermente tra le mani.
Witherington. Ecco come si chiama. Witherington.
Prima pensano alla flebo, in ogni caso, e a quel miscuglio di Pozioni che ti iniettano direttamente nel sangue: sai che Witherington scollegherà la vecchia sacca fluttuante, ormai sgonfia perché praticamente vuota, togliendoti anche l’ago che ti hanno infilato chissà quando nel braccio, per poter sostituire entrambi con un nuovo ago e con la sacca piena che il tirocinante si affretterà a consegnargli al momento opportuno; prima, però, Sherman provvede con gesti precisi a scoprirti il braccio designato, quello sinistro, sul quale tu non puoi non più evitare di posare lo sguardo.
È decisamente più… magro, rispetto all’ultima volta che l’hai visto, e presumi che allora avrai persino il volto scavato, a quel punto, se il braccio è ridotto così. Ma in ogni caso non è quella la cosa principale che attira la tua attenzione. Tutto il tuo interesse è concentrato sul tatuaggio scuro ancora presente lì, a deturparti la pelle e la carne. Non è sbiadito neanche un po’. È giusto un po’ più opaco, rispetto a… rispetto a quando il Signore Oscuro era in vita.
Difficilmente immagini il giorno in cui smetterai di doverlo guardare. Forse perché quel giorno non arriverà mai, probabilmente. La morte sarebbe stata una soluzione interessante, un modo per poter distogliere lo sguardo da te stesso per l’eternità. Ma neanche quella ti è stata concessa, alla fine, dato che ti hanno deliberatamente fatto tornare.
Noti lo stesso fastidio di prima sul volto di Witherington, la paura negli occhi del tirocinante, lo sforzo di Sherman di mantenere la sua espressione il più neutrale possibile, mentre tutti e tre fissano il tuo avambraccio scoperto.
Ti senti quasi nudo, in quel momento, con una parte del tuo corpo tanto gelosamente nascosta per tutti quegli anni che ora, invece, viene improvvisamente messa alla mercé di chiunque, tanto da farti addirittura venire la nausea, per un istante.
Speri che quei tre si diano una maledetta mossa a finire il loro lavoro.
Ti infilano un ago nel braccio, e vedi il tuo sangue riempire un paio di provette; poi l’ormai comune flebo viene di nuovo collegata al tuo braccio, prima che poi venga rimesso sotto il lenzuolo.
E mentre il tirocinante e Witherington si occupano del preparare le pozioni, Sherman ti rivolge ancora la parola.
“Mi sono reso conto di non averle raccontato nulla dei suoi due… compagni di stanza.” Comincia “Come avrà notato sono dei soggetti piuttosto particolari. Oh, niente di estremamente preoccupante, sono perlopiù completamente innocui,” Perlopiù?  “ma con delle singolari storie alle loro spalle. Il più anziano è il signor Evans, ma lo è solo di un paio di anni, rispetto all’altro paziente. Ha subito un incidente, in passato, che l’ha reso completamente… distaccato dalla realtà. Sembra non gli interessi molto ciò che succede intorno a lui, rimanendo costantemente… docile. L’incidente che gli è capitato è ovviamente un’informazione riservata, ma tanto pare che lui l’abbia completamente rimosso dalla propria mente.”
Vedi Witherington avvicinarsi a te, a quel punto, e anche Sherman smette di parlare, mentre il primo ti solleva la testa col mano per farti bere la prima e la seconda pozione.
Ti ripeti che il paragone con la pianta è decisamente calzante.
Quando poi la tua testa tocca nuovamente il cuscino, Sherman riprende il filo del discorso.
“L’altro uomo è il signor Kozlov. È stato… imprigionato ad Azkaban tanti anni fa. Per errore, dicono, ma non ne sono mai stati tanto sicuri neanche loro. Fatto sta che hanno tentato di condannarlo al Bacio del Dissennatore per ben tre volte, e al terzo tentativo erano quasi riusciti a completare l’operazione, ma poi qualcosa è andato storto. È stata un’esperienza traumatica, per lui, e alla fine l’hanno portato qui, in preda al delirio; ha una paura viscerale per i Dissennatori, il signor Kozlov.” Sherman sospira “Come biasimarlo.”
Non riesci neanche ad elaborare l’informazione che Witherington ti alza nuovamente la testa.
Tu cerchi di scrollarti la sua mano di dosso e di tenerti sollevato con le tue forze. Il collo tira, e ti pizzica, ma neanche ti interessa.
Sei soddisfatto quando non senti più la mano di quello lì dietro la tua nuca.
La pozione che ti… offrono, quella nuova, quella… sperimentale, la mandi giù senza battere ciglio. È dolce, quasi smielata, e per un momento fai una smorfia, non piacendoti il sapore. Poi però metti di nuovo giù la testa, lentamente, dato che il collo ti pizzica in un modo infernale, e così rimani fermo, aspettando.
Sarà un eterno attendere, d’ora in poi.
Ti irrigidisci appena – o comunque irrigidisci ciò che ancora puoi irrigidire volontariamente – quando percepisci le tue gambe farsi pesanti.
Non che ciò significhi che una parte di te si sia finalmente data una svegliata, anzi: se prima non sentivi nulla adesso senti i tuoi muscoli tutti inequivocabilmente, profondamente addormentati, e gonfi.
Non è una delle migliori sensazioni.
“Ora non ci resta che aspettare.” Dice Witherington.
Ci eri già arrivato da solo, in ogni caso.
Sherman annuisce, e apre la bocca per dire qualcosa, ma un rumore gli fa cambiare idea, spostando altrove anche la tua, di concentrazione: qualcuno sta bussando alla porta, e proprio per questo, allora, il tuo… unilaterale interlocutore si allontana da te, andando proprio alla porta. La apre giusto di uno spiraglio per poi piazzarsi prepotentemente di fronte ad esso, in modo da impedire la visuale dell’interno della stanza.
Solo che impedisce anche a te di capire che cosa stia effettivamente succedendo, dato che, per quanto tu possa voltarti, tutto ciò che vedi è la schiena di Sherman.
Lo senti bisbigliare, ed istintivamente alzi entrambe le sopracciglia, mentre guardi la scena.
Poi il professore richiude delicatamente la porta, e dopo un momento si avvicina nuovamente a te.
“Chi era?” Chiede allora Witherington.
Sherman non sembra molto propenso a rispondere, all’inizio. Forse si trattava di qualcosa di poco piacevole? Di nuovo Rita Skeeter, magari, riuscita nuovamente ad entrare?
Ma in quel caso dubiti che un lieve bisbiglio abbia potuto farla desistere da suoi discutibili intenti di pseudo-giornalista.
Poi, però, Sherman si schiarisce la voce.
“Era Harry Potter.” Risponde.
Non sai neanche come definire lo stato d’animo che ti pervade.
Guardi i volti degli uomini che hai davanti, l’ammirazione nei loro occhi al sol sentire pronunciare il nome di Potter.
Lui è venuto lì. Ed è probabile che sia venuto per cercare te.
Disagio, ecco cosa provi. Disagio nel ricordare ancora una volta cosa è successo tra di voi non molti giorni prima, nella Stamberga Strillante.
Sei sollevato che Sherman non l’abbia fato entrare, e speri che se ne sia andato. Se non dal San Mungo, perlomeno da reparto in cui ti trovi tu.
Speri che non ritorni.
“Cercava lei, signor Piton.” Continua Sherman – appunto, come pensavi “Ma gli ho detto che al momento avevamo da fare.”
Lo guardi freddamente, senza lasciare trasparire nemmeno un grammo d’espressione. Occlumante fino in fondo, come sempre, anche nei momenti in cui potresti farne a meno, forse.
“Sì, beh… Adesso – er – allora procederemo con la sostituzione della seconda sacca della flebo, le medicheremo la ferita, e poi la riporteremo nella sua stanza.”
Una giornata terminata in bellezza, non c’è che dire.
E così, allora, non fai altro che chiudere gli occhi. E ti prepari.







Angolo autrice:

Buon salve! E' arrivato il nuovo capitolo! (Grazie tante, l'avete appena letto, non c'è bisogno che io ve lo dica.)
Niente di particolare da dire, giusto... Se qualcuno/a se lo sta chiedendo, specifico subito una cosa: il susseguirsi degli eventi sarà sempre più o meno così... lento, se vogliamo usare questo termine. D'altronde, dato l'argomento, mi pare che di azione battagliera non ce ne sia molto bisogno xD Ah, e più o meno i capitoli saranno quasi sempre lunghi così (sto migliorando, sotto questo punto di vista! :D).

Visto che ci sono, come ormai sto facendo ultimamente, vi invito tutti quanti ad aprire questo link di Facebook e a mettere un 'mi piace' al mio racconto che troverete. Vi ci vogliono un paio di secondi scarsi! E' per un concorso, e chi vince riceverà una borsa di studio per un corso di narrativa! Sono sempre seconda in classifica XD
Mi aiutate? Vi ringrazio di cuore <3
Ecco il link:
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In equilibrio

Okay, ora ho ufficialmente finito :)
Mi raccomando, fatemi sapere che ne pensate del capitolo (insomma, recensite, per farla breve xD)!
Alla prossima!

   
 
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