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Autore: Sueisfine    23/10/2007    1 recensioni
Questa storia è nata per caso, spinta soprattutto dalla mia grandissima ed insaziabile passione per il gruppo musicale The Cure. Mi sono permessa di prendere spunto dalla storia del gruppo, accumulata attraverso interviste, libri, biografie autorizzate etc., negli anni che vanno dal 1981 in poi, per narrare un po' gli avvenimenti dal punto di vista di Robert Smith, leader del gruppo, e Simon Gallup, bassista.
Diverse situazioni sono frutto della mia ( bacata ) immaginazione, però ho cercato e cerco, nei limiti, di dare una certa contestualizzazione al tutto.
DISCLAIMER : Con questo mio racconto, ovviamente scritto e pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo né diffamare né fornire una rappresentazione veritiera dei fatti accaduti, ma semplicemente rivedere il tutto secondo una mia particolare ( condivisibile o meno ) prospettiva.
Buona lettura ;_;
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Chapter Fifteen

~ Going Home Time

Yeah, this is how it ends
After all these years
Tired of it all
Hopelessly
Helplessly
Broken apart
He finally falls


Ci sono svariate cose che non ricordo di quei giorni.
L’enorme quantità di alcolici che girava era pari solo alla mia voglia di suonare. E di suonare avevo molta, moltissima voglia.
Certe mattine diventava tutto talmente confuso da farmi semplicemente accasciare sul pavimento, aspettando inerme che la sbronza magicamente volasse via.
Se ci penso intensamente, mi tornano alla memoria caotici spezzoni di nottate passate a fare a cuscinate, il sottofondo destabilizzante di alcune canzoni dei Doors, patatine ed altre schifezze mangiate a chissà che ora, perché bere alcool a stomaco vuoto è la cosa peggiore che tu possa fare. Fumo ? Sì, ce n’era parecchio. Ed avevamo a disposizione anche talmente tanto acido che potevamo tranquillamente corrodere l’intero palazzo degli studi Rhino.
Ma non ci interessava. Noi avevamo un lavoro da compiere.
Il problema subentrava, però, nel momento in cui dimenticavamo quale precisamente fosse il nostro lavoro. E ciò accadeva alquanto spesso.
Residui di cibo tra le dita. Aprire gli occhi, piano. Muovere la mandibola, che scatta dolorosamente dal suo torpore anestetico. Trovarsi di fronte una pila di lattine vuote di Heineken. Tante lattine, l’una sopra l’altra, ammucchiate, che troneggiano lì, nell’angolo. Sì, perché ti sei addormentato proprio lì, tu, nell’angolo, e da un po’ di tempo cerchi di combattere il freddo rannicchiato su te stesso come un moccioso nel lettino. Quell’improbabile costruzione è una cosa che inizialmente ti inquieta. Non sai com’è possibile che sia proprio in quel posto, né tantomeno come sia arrivata lì, o chi ne sia responsabile. E rimani a domandartelo per interminabili minuti. Ma poi, gradualmente, ti abitui a quella strana presenza che emana un pesante odore di malto. E la lasci lì, immobile, sovrana indiscussa della sua piccola porzione di mondo, destinata senza dubbio alcuno a crescere.
Scalciai la coperta, o quello che, almeno a prima vista, sembrava essere una coperta, e mi guardai intorno. Era buio pesto lì dentro. L’aria era irrespirabile, pesantissima. Mi venne quasi da tossire.
Stavo tentando a forza di rientrare nella logica e nel susseguirsi degli eventi tipicamente umano, riappropriandomi della mia coscienza, andandola a recuperare nei polverosi antri bui in cui l’avevo lasciata assopirsi la sera precedente.
La bocca impastata mi impediva di produrre suoni che non fossero mugugni. Scrollai la testa, arruffandomi i capelli, e decisi di uscire dalla stanza.
Avevo un bisogno impellente di nicotina. Tastai la moquette intorno a me, alla ricerca di qualcosa che somigliasse vagamente ad un pachetto di sigarette, senza però alcun risultato.
Controvoglia, mi alzai. Dirigendomi verso la porta, andai ad inciampare contro un ingombrante fagotto che si rivelò poi essere Lol, arrotolato dentro il suo cappotto come un baco da seta. Urtandolo sentii un «Ahm» di disappunto, ma fortunatamente il suo sonno era così pesante che non mi riuscì semplice destarlo.
Proseguii fino alla porta e la aprii. Il sole abbagliante delle prime ore del mattino che proveniva dalle finestre del corridoio mi attraversò rapidamente la cornea, arrivando sottoforma di fastidiosi impulsi elettrici alla mia corteccia. Tutta quella luce mi svegliò improvvisamente, facendomi però un male atroce.
Mi incamminai verso la terrazza. Necessitavo di aria fresca, assolutamente.
E non mi stupii affatto di trovare lì anche Robert.
Appigliato al suo cappotto chiaro come unica arma contro la pungente aria del mattino, fumava tranquillamente una sigaretta, appoggiando il peso del suo corpo prima sui gomiti, quindi sul davanzale.
Mi schiarii la voce alle sue spalle, ma lui non si voltò.
Inclinai un po’ la testa per osservarlo meglio. «Rob», mormorai atono, con le corde vocali ancora fuori allenamento.
Mi fece un cenno con la mano, continuando a darmi le spalle. Inalò l’ennesima boccata di fumo, sputandolo nell’aria poco dopo.
Timorosamente mi avvicinai a lui, ed appoggiai anche io i gomiti, il mio sinistro quasi a toccare il suo destro.
Restammo così un po’, rincorrendo le nuvole con lo sguardo, respirando piano, nell’attesa che fosse l’altro a rompere quel fragile silenzio.
Chinai il capo, incastonandolo tra le braccia. Iniziavo a sentire un po’ freddo.
Robert colse questo mio momento di debolezza, esordendo con un «Tutto bene Sim ?».
Buttai fuori a fatica le parole. «Sonno e freddo», borbottai, limitando la risposta allo stretto necessario, con il viso sprofondato ad ovattare la mia voce già flebile.
«Torna dentro allora». L’accendino scattò ancora, pronto ad infiammare un’altra sigaretta.
Alzai la testa. «Tu invece ?». Mi venne spontaneo chiederlo. Anche perché non avevo mai visto Robert fumare così tanto di prima mattina. In generale, le abitudini di Robert non comprendevano molte sigarette giornaliere, anzi, direi tutt’altro. Specie ultimamente.
Sbuffi di fumo dalla sua bocca. «Mh, normale». Non era una risposta convincente. Neanche lui sembrava granché convinto. Lo guardai di traverso. Continuava imperterrito a fissare un qualcosa di imprecisato di fronte a lui. Gli tremavano le dita. Che fosse il freddo ? O qualcosa di più pesante da sopportare delle basse temperature mattutine ?
«Ah, capisco… E’ tutto normale e tu fumi così tanto. Wow». Una sfacciataggine invidiabile, la mia.
Lui si volta, e mi punta addosso i suoi occhi cristallini. Non capisco più nulla quando mi guarda in quel modo.
Imperscrutabile, impenetrabile. Lui è lontano, inarrivabile, irraggiungibile. Prosegue e ti lascia da solo. Uno sguardo che fa razzia delle tue emozioni. Uno specchio. Non ci leggi niente, non puoi leggerci niente. Non vedi che il tuo riflesso, perché lui ha sbarrato tutte le porte.
«Forse faresti meglio a rientrare, potrebbe prenderti un malanno», ribatté lui. Insomma, mi stava mandando gentilmente a quel paese.
«Preoccupati della tua di salute, piuttosto». Mi innervosiva il suo essere così schivo. «Se continui a fumarti una sigaretta dopo l’altra con questo ritmo, i tuoi polmoni tra un paio d’ore se ne partono per l’Antartide».
«Piantala». Fece una smorfia e ritornò al suo cielo.
«Piantarla io ? Se tu evitassi di comportarti come se esistesse solo quel tuo grasso ego che ti porti sempre dietro come un fardello, non sarei neanche qui a chiederti certe cose. Se ti chiedo come va, è perché voglio sapere come stai, e gradirei risposte sincere, non qualcosa che butti lì per zittirmi. Tu piantala, tu.» Ora gli stavo puntando un dito addosso. Stavo cercando di schiacciarlo con la sola forza del mio indice e del mio più genuino disappunto. Ma la mia sfilata di parole poco gentili non aveva intenzione di esaurirsi in così poco tempo. «Perché io esigo che tu mi dica cosa cazzo ti passa per la testa ultimamente, e lo voglio sapere adesso». Una mattinata cominciata nel peggiore dei modi.
Robert mi fissava, allibito. Poi sorrise. «Sei ancora sbronzo, eh ?».
Era solo questo ciò che aveva da dirmi ?
«Porca puttana, Robert, ma che cosa cazzo ti dice il cervello ?», ormai ero fuori di me. Avevo sbattuto un pugno sul cemento con una tale veemenza che più tardi mi accorsi di essermi addirittura procurato un livido. Ma al momento, no, non era nelle mie priorità occuparmi del dolore. Avevo ben altro a cui pensare. Ero inebriato dalla rabbia. La sentivo invadermi, dalla testa ai piedi, espandersi ed occupare tutti i capillari. «Io non sono affatto sbronzo, non sottovalutarmi».
«Figurati se ti sottovaluto, Simon», commentò sarcastico lui. E, con quel sorrisetto beffardo ancora spalmato in faccia, fece per rientrare nel caldo degli studi.
Ma io non avevo ancora finito con lui. Ridisegnai la sua camminata con la mia, fissando indispettito la sua schiena. «Dove diavolo credi di andare !», gli urlai addosso. Lui accelerò la camminata. Ed io, per non rimanere indietro, accelerai la mia. «Non pensare… Non pensare che scappando si risolvano le cose, Robert !». Ma lui sembrava non ascoltarmi. Arrivato dentro percorse un pezzo di corridoio, per poi svoltare ed infilarsi in bagno. Io avevo il fiato corto. Lo seguii.
Spalancai la porta, con l’intenzione di chiarire tutto questo una volta per tutte. Mi ero svegliato da poco, e probabilmente aveva, in parte, ragione lui ad incolpare l’eccesso di alcool per le mie parole a sproposito. Ma la misura si colmò quella mattina in maniera inspiegabilmente celere, come mai prima di allora, e Simon Gallup era in procinto di svuotare l’insieme di fatti e misfatti proprio in testa al suo amico. Il suo amico che, finalmente, si sarebbe preso le dovute responsabilità del caso. Il suo amico che era lì, nel bagno di quegli studi di registrazione ricoperti di moquette, quasi ad aspettarlo, appoggiato con una mano al lavandino di ceramica.
Non poteva trattarmi come un idiota. L’avevo deciso in fretta, in quel preciso istante. Ma non poteva. Non più. E la mia voce si fece squillante ambasciatrice delle mie pene. «Smettila di comportarti come se avessi davanti un deficiente, un minorato mentale, qualcuno da calpestare. Smettila». Stavo sfogando finalmente tutto quello che avevo raggrumato dentro per mesi e mesi.
Lui non sembrava appoggiare la mia tesi. Abbassò lo sguardo, scuotendo la testa. «Sei tu, caro mio, tu e solamente tu a voler essere trattato in questo modo», affermò, con una punta di ovvietà nella sua voce. Come se ciò fosse di un’evidenza allarmante. «E’ sempre stato così, no, Simon ? Sei tu a darmi il permesso di agire così». I suoi occhi nei miei. «Ogni volta».
Una sentenza, la sua, che mi trapassò da parte a parte, come la lama di un fioretto, ben preciso, in direzione del cuore. Stava, in parole povere, esplicando il poco rispetto che aveva per me. Parole che mi raggelarono e mi incendiarono allo stesso tempo.
«Smettila».
E fu l’ultima cosa che riuscii a boccheggiare prima di assalirlo.
Mi avventai su di lui, scaraventandolo sul pavimento freddo del bagno. Le mie nocche contro i suoi zigomi bianchi e perfetti, con una forza che non sospettavo di avere. Sentivo pulsare la mia ira dentro le orecchie. Vibrava assordante per tutta la stanza. E sapevo che anche lui la sentiva. Lui che aveva fatto di me un animale in gabbia. Lui che mi aveva prima sedotto e poi sedato. Lui che anche in quel momento mi fissava come se volesse sfidarmi. Ed io sapevo che in ogni caso avrebbe vinto.
Un calore improvviso si fece strada nel mio corpo, ed iniziai a sudare nonostante l’aria ghiacciata ed il pavimento gelido.
Lui non si muoveva, stava subendo la mia ira, con l’aria di chi sa come andrà a finire. Con una sufficienza detestabile stampata sul volto. E questa sua apparente passività manipulatoria non faceva altro che accrescere la mia rabbia. Ne ero accecato, al punto tale da non riuscir più a distinguere le forme ed i colori. Perché io gli appartenevo, ecco il punto. Il nocciolo della questione.
Io gli appartenevo.
Mi aveva fatto suo dal primo momento. Sin da quando, prendendo una birra dal tavolino di casa di Michael, mi chiese se ero il Simon con cui, da piccolo, aveva fatto a botte diverse volte. Alla mia risposta affermativa, lui mi raccontò di come avesse conosciuto anche il suo migliore amico, Lawrence, picchiandolo. Al che io gli chiesi se per conoscere nuove persone dovesse per forza ricorrere alla forza bruta. Lui rise. E mi offrì da bere.
Era bastata una risata, una risata ebbra di birra, per capitolare ai suoi piedi.
Era tutto perso in partenza, ormai da tempo. Eppure non riuscivo a non lottare, la mia natura era fondamentalmente litigiosa, e ne ero perfettamente conscio. Lui sapeva come calmarmi, ma aveva da sempre intuito anche il modo perfetto ed infallibile per innervosirmi. Per spingermi al limite.
Robert aveva su di me un’influenza terribile. Ed io davo battaglia per ottenere un minimo di autonomia. Non volevo più essere legato in questo modo a lui. Era tutto troppo malato. Era sbagliato. Eravamo sbagliati.
Il suo viso si offuscò ancora, ed i miei occhi si inondarono di lacrime.
Eravamo sbagliati. «Non capisci», mormoravo, confuso, continuando a picchiarlo, «Quello che mi fai mi distrugge». La mia voce era un sussurro. «Tutti i giorni, sempre, tu mi distruggi». Un sussurro che lui però riusciva a captare benissimo. «E mi ucciderai prima o poi, lo sai questo, vero ?». Non avevo più il controllo su parole e pensieri, e nonostante tutto continuavo a dimostrare il mio disagio. «Lo sai ?». Sempre più forte. E sempre più in alto andava la mia voce. «Puoi fare di me ciò che vuoi ! Stavolta hai il mio permesso !» Eravamo sbagliati. «Mi vuoi morto, Rob ?». Le mie lacrime cadevano sul suo viso. «Mi vuoi morto ?». Il mio pugno che torna di nuovo ad aggredirlo. «Mi vuoi morto ?». Un altro. «Mi vuoi morto ?!». Ancora. «MI VUOI MORTO ?!».
Fu Lol a fermare la mia furiosa cavalcata verso quella che sembrava la fine di tutto.
Mi afferrò per le braccia e mi separò da Robert, trascinandomi a forza. Ma io mi dimenavo, non avevo ancora concluso il mio lavoro.
«Cazzo Simon, calmati !», urlò lui dentro le mie orecchie. Riuscii con fatica a riacquistare un po’ di autocontrollo, alzandomi. Le mani mi facevano male. Il freddo e la furia della lotta le avevano come rattrappite. Le articolai con vigore, mentre fissavo il mio oppositore rimettersi, anche lui, in piedi. E mi puntò senza preavviso gli occhi addosso, quegli occhi cerulei senza pietà, che ti denudavano completamente. Non potevo più fuggire adesso.
Ma Robert aveva paura. E questo mi sconvolse, perché finalmente, dopo così tanto tempo, riuscivo a leggere qualcosa lì dentro, in quelle profondità trasparenti io finalmente vedevo.
Ciò che scorsi era terrore, un terrore folle ed insano. Paralizzante.
«Ma che cazzo… Posso lasciarvi da soli per qualche dannato minuto ? Dio». E d’un tratto mi chiesi cosa sarebbe accaduto se Lol non mi avesse interrotto. «Mi spiegate che diavolo è successo ?». La voce di Lol risuonava lontana, rimbalzando sulle piastrelle del bagno, finendo per infossarsi nelle tubature del lavandino e riemergendo in qualche pozza d’acqua, a svariati chilometri di distanza.
Robert distolse gli occhi da me, asciugandosi un rivolo di sangue che scendeva dal labbro superiore, spaccatogli da me poco prima. «Niente Lol», sospirò, alzando le spalle e massaggiandosi lo zigomo destro, «Siamo tutti e due ubriachi marci, come al solito. E quando siamo sbronzi basta un nonnulla per farci uscire dai gangheri». Soffermò il suo sguardo di nuovo su di me, cercando come una conferma. «Vero, Sim ?».
Ma io non sapevo rispondere in quel momento. Perché mi stava giustificando ? Che avesse realmente capito il perché della mia aggressività ?
Provai un attanagliante senso di vergogna.
«Anche io sono ubriaco, ma non vado di certo in giro a picchiare la gente ! Cazzo». Lol si girò di scatto verso di me, facendomi sobbalzare, «Tu comunque sei un proprio un coglione, Simon, lasciatelo dire. Mi hai fatto prendere un colpo». Si portò una mano alla fronte e chiuse gli occhi. «Sempre così voi eh. Neanche foste delle bestie». Poi, riaprendoli, prese a guardarci. Prima Robert e poi me. «Io vado a fumare in terrazza. Guai a voi se vi sento litigare ancora». La mano in cenno di ammonimento. «Altrimenti sarò io a gonfiarvi di botte. Intesi ?». E si passò l’indice sotto il mento. Voltando le spalle ad entrambi, si avviò stizzito di fuori.
«Scusa, Lol», bisbigliai in direzione del pavimento, su cui avevo incollato gli occhi da diversi secondi. La mia rabbia era svanita. Evaporata d’improvviso. Avevo preso a sentire nuovamente freddo, e la pelle delle braccia si stava accapponando. Mi strinsi su me stesso.
Ora sentivo solo un greve disagio. Una colpa che, sottile, mi scavava dentro. L’angoscia per ciò che avrei potuto fare stava lentamente prendendo campo, ed il pensiero di rimanere in quel posto anche solo per altri cinque minuti mi nauseava.
Realizzai quindi che era giunto il momento di levare le tende. Non credevo di dover spiegare ulteriormente la mia improvvisa decisione, per cui scattai, a testa bassa, verso la porta del bagno. Non avevo più niente da dire, più niente da fare. Almeno per il momento. ‘Via da qui’, era il mio unico pensiero.
Una mano calda però mi afferrò il polso, mentre stavo per attraversare la soglia.
Era Robert. La sua stretta era ferma ed irremovibile. Non riuscii a voltarmi.
Così fu lui a tirarmi indietro, piazzandosi di fronte a me.
E lo guardai.
Il viso accaldato e leggermente tumefatto per le botte lo facevano apparire diverso. Come se si fosse privato inaspettatamente di quella patina di semi-divinità con cui viaggiava sempre.
E la sua voce tremava.
«Piuttosto mi uccido io».
Anche se le sue parole erano tremolanti, lui sembrava decisamente convinto di ciò che stava dicendo.
«Piuttosto che fare del male a te, mi uccido io».
Desiderava semplicemente farmelo sapere.
Piuttosto mi uccido io.
Mi lasciò andare. Ed io scappai.
In fondo era quello che volevo. Che lui mi lasciasse andare.
Per poi ritornare di mia spontanea volontà in quella che era diventata per me una consapevole e rassicurante prigionia.
  
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