Dei
giorni che seguirono mi restano solo ricordi confusi e sbiaditi.
Stavo male.
La febbre andava e veniva senza un’apparente logica.
Per un paio di ore mi divorava ferocemente e poi spariva. Quelle
piccole incursioni di malattia mi indebolirono ulteriormente e il mio
stomaco pareva essere diventato improvvisamente intollerante al cibo,
perché ormai vomitavo almeno un pasto al giorno. E i pasti
erano
due. Così cominciai ad avere anche fame e a fiaccarmi
ulteriormente.
Le torture di Durza si erano intensificate e si
erano fatte ancor più fantasiose. Lo Spettro pareva
utilizzare ogni
istante di tempo che aveva a disposizione per martoriare il mio
corpo, al punto che alcuni giorni fui legata alla lastra di pietra
della stanza delle torture all’alba e vi rimasi fino a che
non fece
buio.
Se avevo creduto che le frustate fossero la cosa peggiore
che poteva capitarmi, capii di essermi sbagliata quando Durza
iniziò
ad immergere la mia testa in un secchio d'acqua e a trattenermi fino
a che non cominciavo a vedere nero e sentivo la morte soffiarmi sul
collo.
A quel nuovo tormento seguirono incubi di inondazioni e
cominciai a provare una sorta di avversione per la bacinella d'acqua
gelida che giaceva vicina alla porta, tanto che anche lavami il viso
divenne una sorta di sottile tortura.
La mia mente stava
vacillando. Un giorno mi alzai dal letto di scatto, credendo di avere
visto Fäolin nell’angolo opposto della cella, per
poi cadere a
terra un istante dopo, vista l’incapacità delle
mie gambe di
sorreggermi. E ovviamente Fäolin non c’era mai stato.
Un altro
paio di volte vidi l’occhio bianco, sempre quando le guardie
mi
lasciavano per il cambio serale. Si affacciava dallo spioncino,
grande e spaventoso, le sue palpebre si abbassavano due o tre volte e
poi svaniva. Cominciai a considerarlo una semplice allucinazione
della mia mente instabile.
Venne a trovarmi Rohat, il giovane
soldato che aveva quasi rischiato la pelle per impedire a Durza di
torturarmi. Mi parlò -dalla fessura dello spioncino- per
quel breve
arco di tempo che concedevano le guardie quando si davano il cambio.
Mi parlò della sua infanzia, di sua madre che viveva sola in
una
casa ai confini di Gil’ead, fuori dalle mura. Del suo lavoro
come
soldato, che odiava ma che era costretto a svolgere se voleva
procurare un minimo di dote alla sua sorellina e fare in modo che un
giorno potesse sposarsi con dignità. Disse anche che ero
bella, e
che il suo padrone era senza cuore.
Prima di andarsene fece
scivolare una rosa bianca sotto la porta e io la contemplai da
lontano, attraverso le lacrime che mi appannavano gli occhi ma che
rifiutavo di fare scendere.
Dallo stelo privo di spine partì un
intero ramo, che si diffuse in tutta la stanza. La rosa crebbe, i
suoi rami verdi privi di spine si insinuarono tra le fessure delle
pietre, rompendole, risalendo ancora, distruggendo tutte quelle
pareti grigie e raggiungendo il cielo, la luna, attorcigliandosi su
se stessi come a formare una gigantesca torre. Potevo fuggire.
Sì,
bastava solo alzarmi. Se mi fossi alzata sarei andata via di
lì per
sempre, Durza sarebbe rimasto un ricordo, il dolore anche e avrei
ritrovato i canti dolci della mia gente. Sarei andata nei giardini
del palazzo di
Tialdarí
ad Ellesméra con Fäolin e lui, sorridendo, avrebbe
colto per me una
campanula nera, chiusa, dicendo dolcemente che io ero come quel fiore
e che dentro di me di nascondeva una bellezza infinita.
Dovevo
solo alzarmi.. ma non ce la facevo. Ordinai ai miei muscoli il
movimento, più e più volte, invano.
Quando la porta si aprì
bruscamente, spazzando via la rosa e gli occhi cremisi di Durza si
puntarono su di me, mi resi conto di essere rimasta confinata in quel
pensiero utopistico per delle ore. E che purtroppo la realtà
era di
natura totalmente diversa.
La rosa bianca mi parve all'improvviso
un maligno monito alla mia morte imminente.
Durza dovette
sollevarmi di peso dalla branda perché io non ero in grado
di farlo.
E anche quando poggiai i piedi sul pavimento mi sarei afflosciata a
terra se lo Spettro non mi avesse tenuta saldamente in piedi, quasi
sollevandomi. Da un lato ne fui felice, perché da quando il
mio
nemico mi aveva tolto gli stivali per ustionarmi la pianta dei piedi,
se ne era definitivamente appropriato, ed erano gelidi al contatto
con il pavimento umido.
«Ti stai distruggendo con le tue mani»
mi informò.
«Tu mi stai distruggendo» la mia lingua era pesante
e quelle parole scivolarono fuori dalla mia bocca come macigni spinti
faticosamente a rotolare.
Da quando aveva perso la pazienza, lo
Spettro aveva smesso di parlare. Ormai si limitava a torturarmi,
torturarmi e torturarmi.
«Non sei nemmeno in grado di stare in
piedi, piccola Elfa».
Ebbi comunque la forza di squadrarlo
severamente e -mi augurai- con un pizzico di sfida.
Oromis, quando
mi aveva istruita tra un mio viaggio e un altro come ambasciatrice
affinché potessi difendermi meglio dal mondo, mi aveva detto
che a
volte dalla rabbia e dall’irritazione possono scaturire
energie
insospettabili. Bene. Non mi era mai piaciuto farmi chiamare
“Piccola” -era lo stesso nomignolo che mi davano i
cortigiani di
Ellesméra quando ero bambina, “Piccola
Arya”- e odiavo
Durza.
«So camminare» ribattei risoluta.
Ma non appena le sue
mani si scostarono nuovamente, traballai pericolosamente.
Durza
sorrise a fior di labbra «Non male».
Puntò l’indice al centro
del mio torace e mi diede una lieve spinta all’indietro, che
bastò
a farmi perdere l’equilibrio. Gli schiaffeggiai furiosamente
la
mano, ma lo Spettro si affrettò ad afferrarmi e, incurante
delle mie
proteste, mi sollevò da terra e mi portò nella
stanza delle torture
come un corpo morto.
La tavola di pietra della sala delle torture
era ancora più gelida, ma in maniera quasi piacevole.
Probabilmente
avevo un altro attacco di febbre.
Guarì alcune delle mie ferite
più gravi prima di afferrare il ferro arroventato e
accingersi a
procurarmele nuovamente.
Il fuoco mi stava dilaniando lo sterno
quando un ticchettio insistente scosse la porta, passando sopra ai
miei lamenti.
Qualcuno aveva bussato. Nessuno aveva mai bussato
prima di allora, ma lo benedissi, chiunque fosse.
«Hillr devo
ricordarti quali sono le mie disposizioni mentre mi sto occupando dei
prigionieri?» chiese Durza con voce pericolosamente
calma.
«Perdonami mio signore ma si tratta di una cosa urgente.
Posso entrare?»
«Mi auguro per te che sia veramente
così».
Arricciando pigramente un dito, lo Spettro fece scattare
la serratura e la porta si aprì.
Un uomo con i capelli ingrigiti
sulle tempie e gli occhi tondi come quelli di un pesce entrò
rapidamente e si inchinò in direzione di Durza.
«Lascia perdere
i convenevoli e parla».
«Signore, Lord Barst è sulla strada per
Gil’ead con il suo seguito. Arriverà in
città tra un paio
d’ore».
«Cosa viene a fare a Gil’ead?»
L’uomo si
tormentò la barba. «Non lo sappiamo signore. Uno
dei nostri uomini
è appena tornato dal suo giro di ricognizione ed
è sicurissimo che
si tratti di lui. Ed è il migliore della squadra, non si
sbaglia
mai».
L’espressione del mio nemico divenne una maschera di
irritazione. «Di’ a tutti gli uomini di dare una
mezza ripulita a
quelle topaie che chiamano dormitori; se tra un’ora trovo
anche
solo l’ombra di una bottiglia di idromele me la pagheranno
cara. E
poi date una scrollata alle vostre casacche -sono più grigie
che
rosse ormai- schiera tutte le forze in giro per la città e
il
castello e informa la popolazione».
Seguii l’intera
conversazione come se le voci venissero da un altro mondo, desiderosa
solo di ritornare ai miei sogni di rose e giardini. Non potei
però
impedirmi di notare che lo Spettro era preoccupato e capii che quel
Lord Barst doveva essere un uomo di una certa importanza a giudicare
dall’impressione che voleva fare Durza su di lui.
Hillr uscì e
Durza ringhiò, frustrato. Fece un rapido giro della stanza,
andando
a raccogliere la mia camicia e i miei pantaloni da terra, che mi
aveva sfilato per potermi torturare.
«Mi spiace informarti che
dovremo rimandare il nostro incontro a domani, Elfa».
Fece
sparire una mano in una piccola bisaccia di velluto che portava in
vita e ne estrasse qualcosa che si affrettò a fare sparire
tra le
labbra e a masticare nervosamente.
«Saprò contenere
l’impazienza» replicai asciutta.
Durza sogghignò e sciolse le
catene, porgendomi i miei vestiti. Dall’odore che mi
arrivò alle
narici quando si chinò su di me capii che probabilmente
stava
mangiando delle foglie di menta. E che per farlo aveva trasformato i
suoi denti da quelli di un felino a quelli dritti e regolari di un
essere umano. Purtroppo il suo aspetto non perse nulla dello
spaventoso che gli apparteneva.
Mi prese nuovamente in braccio
come una malata per condurmi nei miei alloggi, come li chiamava
lui.
Quando se ne andò portò le quattro guardie, che
erano ormai
fisse da tempo davanti alla mia porta, con sé.
A quel punto avrei
tanto voluto sapere chi fosse quel Lord Barst.
Tossii sputando
sangue.
Mi afflosciai sul mio giaciglio e scivolai nelle immagini
confuse del mio sonno.
Ero
ad Ellesméra e gli Athalvard cantavano magnificamente sul
sentiero
che si snodava sotto l’albero su cui ero seduta io. Era tutto
caldo, luminoso, sereno, così bello che faceva quasi male.
Poi
arrivò Durza, parlottando qualcosa di incomprensibile
riguardo ad un
certo Lord Barst. E tutto divenne freddo e gelo.
Il
rumore di ferraglia era molto vicino. Aprii gli occhi nello stesso
istante in cui la chiave della mia cella fece l’ultimo giro
nella
serratura e l’uscio si aprì.
Mi puntellai sui gomiti e mi tirai
a sedere. Due soldati mi si avvicinarono e mi misero in piedi senza
troppi complimenti, trascinandomi con loro. Mi dibattei debolmente ma
bastò uno schiaffo ben assestato per confondermi. Non
riuscivo più
a contrastare nemmeno degli umani.
I due mi portarono fino alla
stanza delle torture e mi incatenarono al tavolo.
C’era qualcosa
che non andava. Dov’era Durza? Di solito non lasciava nemmeno
che i
soldati varcassero la soglia della porta nera di quella stanza.
Un
uomo basso e tarchiato entrò e diede ordine di chiudere bene
a
chiave la porta. Allungava curiosamente il suono della
“R” tanto
da pronunciarla moscia. Tra il mio popolo nessuno aveva mai quei
problemi nel parlare, invece qualcuno tra gli uomini a volte
pronunciava le lettere in modo strano o balbettava senza la minima
capacità di controllarsi. In quel caso bastava mettersi un
pugno di
sassi in bocca ed allenarsi a dire l’alfabeto tutto di fila,
magari
anche al contrario. Peccato che gli uomini non riuscissero proprio ad
arrivarci da soli.
L’uomo in questione mi si avvicinò e mi
scrutò con evidente curiosità, gli occhi da
cerbiatto sgranati e
attenti. Mi scostò i capelli sudici dalle orecchie.
«Non avevo
mai visto una della tua razza» disse. «Siete
veramente belle come
si dice».
Restai impassibile, in attesa che mi spiegasse il
perché fosse lì. Ma non pareva avere alcuna
fretta. Si sfilò con
calma i guanti bianchi candidi e li porse ad uno dei suoi soldati.
Dalla stazza e dalla muscolatura si poteva dedurre facilmente che
fosse un guerriero, eppure le sue mani erano morbide e lisce, indice
del fatto che non si togliesse i guanti quasi mai mentre maneggiava
una spada. Al contrario di Durza, le cui mani erano grandi, con dita
lunghe, agili e inquiete, che sembravano nate per impugnare
un’arma
ed erano rovinate, scorticate, irruvidite dai calli tipici di un
combattente.
Dove era finito Durza? Per un assurdo istante mi
ritrovai a desiderare che fosse lì con me, a tenere
d’occhio
quell’uomo che non conoscevo e dal quale non sapevo cosa
aspettarmi. Mi disprezzai profondamente per la mia debolezza.
«Sono
il conte Barst, figlio di Berengar» si presentò,
confermando i miei
sospetti. «Sono uno dei secondi di sua maestà il
re Galbatorix e
sono qui in missione per conto suo. Da quando la sua pietra
è stata
rubata da quei villani dei Varden il mio signore non dorme
più sogni
tranquilli. E se non gli è ancora stata restituita
è solo perché
ha fatto affidamento sul servo sbagliato. È evidente che lo
Spettro
non ha saputo essere abbastanza convincente con te». Mi mossi
lievemente sul tavolo, inquieta. «Quindi io sono qui per
riuscire
dove lui ha fallito. Vorrei proporti una soluzione diplomatica: se tu
mi indicherai il luogo dove si è schiuso l’uovo
allora saprò
ricompensarti con la libertà e con la garanzia che il re
lascerà il
tuo popolo fuori dalla guerra imminente. Galbatorix stima e ammira
gli elfi più di ogni altra creatura al mondo e non vorrebbe
mai
arrecarvi danno».
Non era affatto uno stupido, Lord Barst. Ma
l’arte oratoria dello Spettro era di gran lunga superiore, e
non
era bastata. Il conte sembrava più un uomo dalle maniere
rozze, che
un diplomatico.
Sbattei le palpebre e lo guardai in
silenzio.
L’uomo sospirò, scuotendo lentamente la testa.
«Non
vorrei mai dovere usare delle maniere forti su una fanciulla».
La
sua affermazione era ridicola considerando che il mio corpo era
ridotto a un grumo di carne sanguinolento. Che fossi una fanciulla o
meno, le maniere forti non mi erano state
risparmiate.
«Rispondimi».
Illuso.
«Oh
e va bene!» esclamò affabilmente.
«Accendete quel braciere e
arroventatemi un ferro».
I soldati eseguirono, mentre lui
continuò ad insistere per un altro paio di minuti, prima di
arrendersi all’evidenza che non avrei parlato e aspettare che
il
ferro fosse pronto.
Lo aveva appena impugnato quando la serratura
scattò e la porta si aprì, senza che nessuno da
fuori avesse usato
la chiave, dato che in effetti era incastrata nella parte
interna.
Durza entrò nella stanza come un tornado, i capelli
rossi scomposti. «Mi pareva di averti chiesto di farlo solo
in mia
presenza, Barst» osservò gelidamente.
Il mio carceriere
indossava un lungo ed inquietante mantello di pelli di serpente che
lo faceva sembrare ancora più alto e minaccioso, accanto a
lui il
conte sembrò improvvisamente piccolo. E ovviamente i denti
aguzzi
erano tornati al loro posto.
Barst iniziò a parlare con aria di
sufficienza, ma la sua espressione appassì mano a mano che
continuava a guardare gli occhi cremisi dello Spettro.
«Sono un
funzionario mandato direttamente da sua maestà il re in
persona. E
come tale devo rispondere direttamente e solo a lui, senza
interferenze intermedie. Io ritengo che tu abbia trattato
l’elfa
con troppa grazia e quindi voglio accertarmi che tu abbia provato
ogni tipo di torture possibili per estorcerle la
verità».
Durza
sollevò un angolo della bocca in un sorriso beffardo.
«Perché non
lo chiedi direttamente a lei?» annuì nella mia
direzione.
«Si
rifiuta di parlarmi» dovette ammettere l’uomo.
Mi divertì il
trionfo che deformò i lineamenti dello Spettro. «E
sono già un
passo avanti a te, caro Barst. Ma prego». Si
poggiò con la schiena
contro la parete in fondo alla stanza, le braccia conserte.
«Rimarrò
qui a supervisionare e ad accertarmi che tu non la uccida»
Dal
modo in cui il funzionario del re serrò la mascella dedussi.
che
fosse molto arrabbiato, ma che la paura di Durza superasse
l’ira.
L’espressione che assunse il suo viso largo era grottesca,
assomigliava vagamente ad un Urgali imbronciato.
Barst giocherellò
con il ferro su di me fino a che quello non diventò freddo,
senza
ottenere nulla se non i miei muscoli irrigiditi dal dolore, che
però
mi parve più lieve del solito, come se mi ci fossi abituata.
Poi
posò l’attrezzo e si deterse la fronte con la
manica della
veste.
La mia lucidità non era normale, considerata la condizione
in cui versavo fino a poche ore prima. Capii il perché
quando Durza,
dal suo angolo avvolto nella semioscurità, mi
strizzò un occhio con
aria complice e la situazione mi parve così ridicola che per
poco
non scoppiai a ridere. Mi ritrovavo coinvolta in una faida tra due
servi del re ed entrambi volevano dimostrare all’altro di
essere
migliore. Lo Spettro mi stava probabilmente regalando delle energie e
proteggendo dal dolore perché io riuscissi a resistere e a
non
rivelare nulla al Lord. Era stupido e maledettamente
infantile.
«Desideri risolvere il tuo dubbio con altri
esperimenti, Barst?» chiese Durza con un tono così
ossequioso da
parere offensivo.
La mascella quadrata dell’uomo si contrasse
nuovamente. «Non ho bisogno che tu mi aiuti a svolgere il mio
compito Spettro. Questa cagna di un’elfa parlerà,
in una maniera o
nell’altra».
Durza sollevò un sopracciglio, squadrando i due
soldati che erano con noi nella stanza. «La presenza di lei
qui era
un’informazione riservata. Quindi o i tuoi uomini tengono la
bocca
cucita o mi premurerò di cucirgliela io. O di tagliargli la
lingua,
se preferiscono».
I due impallidirono ma riuscirono
coraggiosamente ad annuire.
Barst si concentrò nuovamente su di
me. «È molto graziosa» disse, rivolto
allo Spettro.
Lui si
strinse nelle spalle. «Forse».
«Non sai proprio come goderti le
cose belle della vita tu, eh?» La sua mano liscia
sfiorò la pelle
scoperta del mio collo.
Mi irrigidii immediatamente.
«Dovresti
farle un bagno» disse Barst.
«Sono il suo carceriere, non la sua
balia».
I denti storti del funzionario del re si scoprirono in un
sorriso. «Deduco quindi che tu non abbia avuto modo di..
divertirti
con lei».
«No» fu la secca replica.
«Peccato. Forse non sai
che la tortura psicologica e il totale annientamento fisico
può
spingere anche il più tenace a cedere. Ma forse ad uno
Spettro non
vengono in mente idee di un certo tipo».
«Semplicemente perché
ho altri modi per sfogare le mie frustrazioni, non mi è
necessario
farlo sulle prigioniere».
Le dita di Barst scivolarono sul mio
petto. «Che razza di uomo sei?»
Gli sputai in faccia,
costringendolo a togliermi le mani di dosso per asciugarsi la
fronte.
«Non sono un uomo. E forse non ti ho avvertito»
ridacchiò Durza, «che questa è una
gatta feroce. Non si lascerà
domare tanto facilmente».
Il sorriso osceno sul viso del
funzionario del re mi fece inorridire. «Sarà solo
più
divertente».
Tirai furiosamente le catene che mi bloccavano sul
tavolo, ma non riuscii ovviamente a smuoverle di un pollice.
Disperata, cercai istintivamente il viso di Durza e gli scoccai uno
sguardo implorante.
«Non credo che la fanciulla ne sarebbe molto
felice» disse lo Spettro, restituendomi uno sguardo
indecifrabile.
Barst agitò una mano. «Ha importanza? Non
è
nemmeno umana, non merita la mia pietà. E se non sbaglio tu
non
l’hai mai avuta la pietà, giusto?»
Le sue parole mi
indignarono profondamente. Capii che il potere aveva eccitato il
carattere di quell’uomo al punto di fargli credere di poter
fare
tutto secondo le sue regole e la sua volontà, con il pieno
diritto
di calpestare gli altri senza farsi scrupoli. Era sprofondato nel
pozzo nero della depravazione, trasformandosi in un animale.
Le
sue dita giocarono con l’orlo della fascia di stoffa che mi
copriva
il seno. Chiusi gli occhi, sul punto di vomitare.
«Barst scopri
un altro pollice della sua pelle e non sarò più
padrone delle mie
azioni» lo informò lo Spettro affabilmente.
L’uomo parve
infastidito dall’insistenza di Durza. «Il mio
signore, il nostro
signore, mi ha dato la più ampia libertà di
azione. Posso fare ciò
che voglio, senza alcun limite. E se è ciò che
desideri, potrai
farlo anche tu una volta che avrò finito con lei».
«Una cosa è
fare di tutto per strapparle informazioni, un’altra
è costringerla
nel tuo letto per poterti vantare dell’impresa. Se vuoi una
donna
vattela a cercare, in questo castello ci sono certamente un paio di
belle servette che sarebbero ben liete di concederti i loro
favori».
Con un movimento agile delle dita, Durza aprì le mie
catene e io mi alzai a sedere così velocemente che il mondo
mi
vorticò intorno.
«Per oggi direi che hai verificato abbastanza,
Barst. Continuerai domani».
Mi afferrò per il gomito e mi
sostenne fino all’uscita.
«Resterò a Gil’ead solo tre
giorni, poi tornerò a fare rapporto al mio re» lo
richiamò l’uomo,
«e userò tutti i mezzi possibili per ottenere
ciò che lui mi ha
ordinato, non sarai certo tu ad impedirmelo».
Durza lo guardò
beffardo da sopra la spalla. «Prova a sfidarmi se ne hai il
coraggio. Sappi solo che te ne pentirai amaramente».
«Non puoi
uccidermi Spettro. Il re lo verrebbe a sapere e ti
punirebbe».
«Allora diciamo che non vorrei proprio che ti
capitasse uno sfortunatissimo
incidente,
sono stato abbastanza chiaro?»
«Trasparente» dovette abbozzare
Barst, la voce ridotta ad un sibilo rabbioso. «Ma guardati le
spalle».
Mi accorsi di stare tremando violentemente solo quando
Durza dovette sollevarmi da terra per permettermi di proseguire nel
corridoio fino alla mia cella.
«Avrei dovuto darmi da fare a
sfigurare anche il tuo bel faccino, piccola Elfa».
Annuii
distrattamente, nascondendo automaticamente il viso contro il suo
collo, fuggendo al mondo. La sua pelle era calda e lo trovai strano.
Avevo sempre pensato che fosse gelida come lo erano le sue mani, e
magari anche viscida come quella di un serpente. Invece no, era..
umano. E sapeva di un qualche olio da bagno. Non seppi
perché ma lo
trovai tremendamente rassicurante.
Mi scostai immediatamente non
appena sentii il suo corpo irrigidirsi contro di me.
Il fatto che
proprio lui mi avesse difesa da un uomo del re, stonava
incredibilmente. E il fatto che io gli fossi così
profondamente
grata per la sua azione, stonava ancora di più.
«Perché lo hai
fatto?» chiesi quando lo Spettro mi depositò a
sedere sulla mia
branda.
Gli occhi seri di Durza si assottigliarono. «Me lo hai
chiesto tu».
«Magari il suo metodo avrebbe funzionato».
Fece
un gesto spazientito. «Se era ciò che volevi posso
sempre scortarti
da lui. Non credo che il caro Barst ti respingerebbe».
«Non ho
detto questo!»
Sospirò rumorosamente. «Lo so. Devo almeno
riconoscere a quel maiale che in pochi minuti è riuscito a
spaventarti quasi quanto ho fatto io in più di due
mesi».
Mi
tormentai nervosamente le unghie. «Che ne sai tu?»
L’angolo
sinistro della sua bocca si sollevò leggermente.
«Lo so Elfa». Si
avviò alla porta. «Non credere che d’ora
in poi cambi qualcosa.
Ho impedito ad un uomo che odiavo di compiere un’azione
indegna
solo per mio personale interesse. Quando finalmente leverà
le tende
tornerà tutto come prima».
«Non c’era bisogno di
puntualizzarlo».
Esitò sulla soglia. «Meglio di sì,
invece».
«Non ho mai pensato che sarebbe cambiato qualcosa»
lo
informai.
«Lo hai sperato» disse, prima di chiudere la
porta.
Continuavo a rifiutare fermamente una verità che
però
premeva sul mio cervello da troppo tempo. Il fatto che Durza sapesse
sempre con esattezza che sentimenti provassi non poteva essere
casuale. Le barriere della mia mente erano pressoché
inattaccabili
ed era impossibile che le mie espressioni fossero così
rivelatrici,
sapevo perfettamente come fare per rimanere impassibile e mi riusciva
piuttosto bene, ne ero sicura.
A quel punto l’unica soluzione
possibile era che Durza fosse capace di creare un contatto con la
parte più profonda delle persone e riuscire a carpirne gli
stati
d’animo. Probabilmente era un potere che derivava dal fatto
di
essere uno Spettro ed avere legami così profondi con degli
spiriti.
Mi chiesi fino a che punto lui potesse leggermi e
all’improvviso mi sentii vulnerabile. Avevo passato tutta la
vita a
nascondere i miei sentimenti alle persone che mi circondavano -era il
fulcro su cui ruotava tutta la mia forza- e il fatto che qualcuno
riuscisse a portare alla luce con una tale facilità i
segreti della
mia anima mi faceva sentire in qualche modo violata.
Debole.
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Lord Barst! Perché? Perché era una figura che mi interessava approfondire, dato che Paolini lo ha presentato in modo molto superficiale.
Per quanto riguarda la possbile capacità di Durza di leggere i sentimenti, la cosa mi è sembrata plausibile da come si comportava con Eragon mentre era prigioniero a Gil'ead, nessuno lo ha mai fatto presente, ma nemmeno negato, giusto?
Ciao a tutti! (: