La
canzone “Schiavo d’amore” qui citata
è di Piero Mazzocchetti e non è
riportata alla lettera. I protagonisti della storia sono di mia
invenzione, e i
fatti descritti non si riferiscono ad avvenimenti realmente accaduti.
Schiavo
d’amore – Il
sorriso del cielo
“Oggi
sono solo
come lo
è soltanto un folle o uno straniero
un leone
chiuso in una gabbia
dalla
quale scruta il cielo.”
Sono
solo.
Solo.
E’ una
sensazione terribile.
Non solo
l’essere solo.
Solo come
un folle o uno straniero.
Un folle…
Un folle
che da oltre tre ore se ne sta seduto sul divano di casa sua, con un
album di
fotografie aperto poggiato sulle ginocchia.
Lo guardo,
lo riguardo, ma non lo vedo.
Sfoglio
sempre la stessa pagina. Passo avanti, torno indietro, vado di nuovo
avanti.
Andrò mai
avanti… per davvero?
E vedo
solo lei. Non perché abbia la sua fotografia piantata
davanti agli occhi da tre
ore.
La sua
immagine è piantata nei miei occhi. Nel
mio cervello, nel mio cuore, in
ogni singola cellula.
Chissà se
si sta ancora chiedendo perché l’abbiano portata
via, perché io gliel’abbia
permesso.
Chissà se
mi odia perché non ho potuto fare altro che sorriderle,
sfiorarla con una
carezza e sussurrare un ipocrita “Non preoccuparti,
andrà tutto bene.”
Lei non è
capace di odiare.
Non lo è
mai stata e mai lo sarà.
E’ stata
proprio questa sua incapacità a segnarla.
Ma anch’io
sono segnato. Per sempre.
Forse lo
ero già prima. Quando l’ho incontrata. Ma allora
non lo sapevo, non potevo
immaginarlo.
Se
l’avessi saputo… Ma no, se l’avessi
saputo non sarebbe cambiato nulla, e ora
sarei sempre qui, su questo divano, con questo album che fissa nella
mia
memoria ricordi e sensazioni che non sbiadiranno mai.
E adesso
fa male essere consapevole.
e
s’infittisce il mistero
coprendo
come di un velo
ma senza
far rumore
pian
piano il mio cuore.”
Se ci
ripenso, quasi me ne vergogno. Anzi no, non quasi. Me ne vergogno.
Lì, seduto
su quella panchina, in fibrillazione per un imminente esame del sangue.
Sì, ridete
pure. Fatelo voi per me, io non ne ho la forza.
Ho sempre
odiato il sangue. Non potevo sapere che presto la mia vita sarebbe
stata
sconvolta e non avrebbe lasciato più posto per quei sciocchi
giochi della mente
chiamati “paure”.
Ero così
agitato da non essermi accorto che su quella panchina c’era
anche un’altra
persona.
Lei.
- Tu non
devi avere paura. – Mi voltai di scatto. Una voce di bambina.
Voce
cristallina. Voce bella. La sua voce.
Non era
una bambina.
Era lei.
- C-come
dice? –
- Dice
chi? L’ho detto io… -
Era
strana, quella ragazza. Se ne stava lì, rannicchiata su se
stessa, il mento
appoggiato sulle ginocchia, come se avesse freddo. I capelli biondi
tirati
indietro in una stretta coda di cavallo scoprivano un visetto pallido e
smagrito, su cui spiccavano due pezzi di cielo.
Quegli
occhi. Tutta la profondità dell’oceano in due
occhi sorridenti e vacui allo
stesso tempo.
Anche la
sua voce aveva un qualcosa di… non umano. Parlava
lentamente, con voce
monotona, come se stesse ripetendo una lezione.
La guardai
senza capire. Quegli occhi non mi dicevano nulla.
Quello era
il cielo in cui mi sarei avventurato e perso, ma in quel momento non
era altro
che un bel panorama da guardare affacciato alla finestra. Un cielo
troppo
lontano perché potessi comprendere i suoi segreti.
- Non
capisco di cosa sta parlando… -
Il suo
sorriso-non-sorriso si trasformò in un’espressione
di vaga sorpresa. La sua
voce si ridusse a un sussurro.
- Sta
parlando? Chi è che parla? –
Non lo
capivo neanch’io, chi stesse parlando.
Se lo
avessi saputo, non mi avrebbe fatto così paura.
- Io e
lei… no? –
Ora
guardava fisso davanti a sé, le sopracciglia aggrottate, gli
occhi privi di
espressione.
- Lei…
lei… chi è lei? –
Non era a
me che si stava rivolgendo. Parlava con i suoi diavoli interiori, ma
anche
questo, ancora, non lo sapevo.
- Ehm…
scusa, volevo dire… io e te. – Il suo viso si
distese. Non sorrideva, ma
sembrava come sollevata.
- Io e te…
-
Sembrava
una bambina spaventata.
Era una bambina
spaventata.
Più
spaventata di me.
-
Comunque, non è niente di grave. Devo fare solo un esame del
sangue. Non sono
così spaventato. –
Bugiardo.
Dovetti
esserlo per una volta, prima di scoprire che con lei non avrei
più potuto
esserlo.
- Non devi
avere paura. Avere paura della paura è la cosa
più… più… più
peggiore.
Perché non guarisci mai. Poi loro fanno finta di aiutarti,
ma non lo fanno. –
C’era una
strana aria attorno a quel volto. Qualcosa che mi impediva di staccarle
gli
occhi di dosso.
- Loro
chi? –
- Loro.
Quelli che dicono che ti aiutano e poi non ti aiutano. Loro non
vogliono che tu
stai bene. Non vogliono perché non vuole nessuno, per
nessuno, e allora neanche
loro vogliono. –
mi tiene in suo
potere.
La mia
tristezza è dolce
ma
talvolta è come un altro carceriere.”
Quella
frase mi risultò incomprensibile.
Forse
perché avevo due anni meno di adesso, ma lei era molto
più adulta e allo stesso
tempo molto più piccola e indifesa di me.
E non ci
volle molto tempo per capire quale astratta coincidenza ci avesse
spinti lì, su
quella panchina di quel
parco di quell’ospedale.
Per me era
un caso, per lei una casa.
Neanch’io
capivo.
Neanche
quando cominciai davvero a… capire.
Oh, no,
non sono pazzo. O forse sì. Non lo so più.
Forse lo
sono diventato per amore suo.
Ma non
siete gli unici a non comprendere, sapete?
Nessuno
l’ha mai capita. Nessuno ha mai capito cosa si celasse dietro
quei due pezzi di
cielo. Quel mare era troppo profondo, i suoi misteri erano troppo
nascosti, le
sue meraviglie erano celate ben più in fondo di
quanto… loro…
riuscissero ad afferrare.
Chissà…
magari sono io, con la mia presunzione di “sapere”,
a ignorare quello che credo
di conoscere.
perfino
dentro il dolore
ti vedo
nel tuo splendore.
Agli
altri ti nascondi,
ma qui
appari
avanti a me
come un
incanto che
m'imprigionerà.”
Quante volte
li ho pregati di lasciarla stare. Di non usare quelle maniere forti con
lei. Di
considerare che anche lei aveva dei sentimenti e dei valori, ben
più retti di
quelli di molte altre persone.
Era solo
confusa, smarrita in quel mondo che non le apparteneva.
- Perché
fanno così? Perché non riescono a volersi bene?
–
Si poneva
interrogativi troppo grandi per lei, per me, per chiunque. E io non
seppi mai come
risponderle.
- Non lo
so, tesoro. Ma forse non lo sanno neanche loro. –
Lei mi
guardava insoddisfatta. Frustrata. E quel cielo si oscurava.
- Non è
possibile. Se fai una cosa, sai perché la fai. Forse sono
matti. –
Io
sorridevo. Non potevo farne a meno.
- Già,
forse sono matti. –
Ogni tanto
quel cielo minacciava pioggia. E poi venivano giù certe
burrasche, certi
temporali che solo più tardi imparai a domare.
- No, non
passa. Non passa. Non passa! –
Era
difficile interrompere quella cantilena, quel lamento straziante.
- Sì che
passa. -
- C-cosa
mi succede? Perché sono così? C-chi sono io?
–
Una
risposta apparentemente insignificante bastava a rivoluzionare
l’idea che lei
aveva di sé stessa.
- Tu sei
tu. E non puoi desiderare di meglio. –
Due
finestre si chiudevano, il cielo scompariva. Un’ultima goccia
di pioggia
scivolava lungo la guancia morbida e arrossata.
Posava la
fronte sul mio petto e restava così, ferma, per minuti, ore.
Era
terribile vederla prendere coscienza di sé e di quello che
era.
O meglio,
di quello che tutti pensavano che lei fosse.
Quante
persone mi hanno guardato con disprezzo.
- Sei
pazzo anche tu. Sei diventato come lei. Come hai potuto ridurti
così? –
che non
ci sia che tu
a
condannarmi e poi a salvarmi
sempre
più.”
Gliel’avevo
detto, a loro.
Loro, che
si illudevano di farla stare meglio, erano talmente orgogliosi della
loro
presunta opera di bene da non accorgersi che la stavano distruggendo,
ogni
giorno di più.
- Mi dia
retta, la lasci stare dov’è. E’ la cosa
migliore per lei. –
- Questo
lo credete voi. –
- Lei è
troppo coinvolto. Non è nelle condizioni di giudicare
razionalmente cosa è
giusto fare. –
- Sì,
forse è vero che sono troppo coinvolto. Ma voi non lo siete
per niente. E’
questo il guaio. –
- E’
inutile insistere. Tanto più che non ho nemmeno capito bene
dove vuole
arrivare. –
- Voglio
che la facciate uscire di qui. –
Un bieco
sorriso. Un ghigno saccente ed egoista.
- Certo,
per poi lasciarla in mezzo alla strada, in balia degli eventi. Mi sa
che lei
non si rende conto di quello che sta dicendo. Ma lo sa di chi stiamo
parlando?
–
- Proprio
perché lo so vi chiedo di permettermi di aiutarla. -
- Ti piace
qui? –
- E’…
bello. E’ aperto, c’è tanta luce.
–
- Certo
che c’è luce. E’ casa tua. –
- Casa
mia… - mormorò lei, chinando il capo. Percorse
tutto il locale con lo sguardo
prima di puntarlo nuovamente su di me. – Casa nostra.
–
- Sì. –
Abbracciare
quel corpo sottile, con la paura che potesse rompersi da un momento
all’altro.
- Casa
nostra. –
E quel
cielo tornava a sorridere.
io non
mi libererò
e già lo
so che soffrirò…”
Poi quel
giorno.
Quel
“titolo di presa per i fondelli” non
durò a lungo.
A volte le
crisi erano difficili da sostenere. E non potevo fare altro che alzare
la
cornetta, digitare quel numero e rivolgermi a loro.
Loro che,
dopo un po’, mi misero di fronte alla verità.
Alla loro
verità.
- Non si
può andare avanti così. Lei non è in
grado di aiutarla. Non è all’altezza della
situazione. –
Quella
convinzione andò oltre, distrusse tutto quello per cui avevo
sudato e penato.
- Non è il
caso di farla così tragica. Tornerà a stare
dov’era prima. –
- Ah…
Potrò venire a trovarla, allora. –
Lo sguardo
che ricevetti in risposta non era certo paragonabile a un sì.
- Penso
che sia meglio evitarlo. –
- Cosa…
evitarlo… perché? –
- Non
vogliamo che sorgano ulteriori complicazioni. Il periodo che ha passato
con lei
di certo le ha fatto bene… per un po’. Ma poi,
rivedervi, ricordare, cerchi di
capire… le farà più male che altro. Sa
com’è. –
- No, non
so com’è. –
Me ne
andai sbattendo la porta, ma non potei sbattere via i problemi.
- Sono…
sono venuti qui per te. –
- Per me?
Chi sono? –
Non ho
saputo rispondere. Così ho sviato.
- Ti
porteranno in un posto dove starai bene. Un posto nuovo, migliore di
questa
casa. –
Bugie.
Quel posto non era per niente nuovo. E lei non avrebbe faticato a
capirlo.
- Ma io
sto bene qui. Sto bene con te. Perché devo andare da
un’altra parte? –
Già,
perché?
- Andrà
tutto bene, piccola. Te lo prometto. -
perché è
con te che inizia
e
finirà.”
Ma se mesi
e mesi di amore e fatica non sono serviti a niente, perché
mai sarebbe dovuta
servire una corsa dietro il tempo che fugge e ti lascia sempre indietro?
Perché
avrei dovuto sforzarmi di spiegare cose che non si possono spiegare?
Sembra
proprio che niente serva a niente, eh?
E’ triste
fare considerazioni del genere quando puoi appena definirti
“adulto”.
Che lei
fosse più adulta di me? Sicuramente.
Perché si
poneva interrogativi a cui nessuno si è mai sforzato di
rispondere.
Perché non
le importava di tutte quelle cose che la gente comune etichetta come
“essenziali”.
Perché non
ha mai chiesto niente alla vita, quando avrebbe avuto il diritto di
pretendere
molto di più.
Perché
viveva giorno per giorno, senza mai aspettarsi niente.
Cavolo,
parlo di lei come se fosse morta.
Forse sto
morendo io.
E allora
vai, idiota, alza la cornetta, chiama l’ospedale. Oppure,
ancora meglio,
infilati in macchina e vai, vai a trovarla, vai a vedere come sta.
Ma sento
che non sarebbe la cosa giusta da fare.
Se venissi
a sapere che sta meglio, giungerei alla conclusione che non sono
davvero
servito a nulla. E sarebbe insopportabile convivere con questa
consapevolezza.
Se
scoprissi che sta peggio di prima, mi odierei perché non mi
sono opposto quando
me l’hanno portata via.
Me
l’hanno portata via… Come se fosse
un oggetto di mia proprietà…
Invece lei
è libera. E’ unica. E’ vera.
Ma non
sarà mai sola.
Un piccolo
pensiero, ecco cosa le manderò… Qualcosa di
intoccabile, irripetibile. Sarà lì
con lei e non l’abbandonerà mai.
Lancio
un’occhiata fuori dalla finestra. Il cielo è
sereno, non c’è una nuvola. Sembra
quasi che sorrida…
ti
penserò
e il mio
pensiero forse ti raggiungerà
perché
nessuna forza mai
lo
fermerà.”