Crazy
Little Thing
Called Love
Capitolo
otto: The Pumpkin King.
“Skeleton Jack might catch
you in the back
And scream like a banshee
Make you jump out of your skin
This is Halloween, everyone scream
Wont' ya please make way for a very special guy
Our man jack is King of the Pumpkin patch
Everyone hail to the Pumpkin King
This is Halloween, this is Halloween,
Halloween! Halloween! Halloween! Halloween!
In this town we call home
Everyone hail to the pumpkin song”
(This is Halloween- da
“Nightmare before Christmas”).
Da
che avessi
memoria ero sempre stata una gran fifona.
Di
notte tenevo sempre una lucina accesa, controllavo gli armadi prima di
andare a
dormire, evitavo di guardare i film dell’orrore e mi tappavo
le orecchie quando
i miei amici raccontavano storie di paura.
Halloween,
perciò, era il periodo dell’anno che
più detestavo. La notte delle streghe, già
dal nome non ne veniva nulla di buono.
In
realtà, adoravo in generale l’idea delle streghe,
ma Halloween riusciva a
rovinarmi pure quella. Mi ricordava qualcosa di inquietante e perfido.
Succedevano
sempre cose strane durante quella festa; era praticamente il via libera
di
tutti gli squilibrati. Come facevo a sapere che dietro quei costumi ci
fossero
persone normali e non serial killer pronti ad uccidere? Dopotutto, era
un’ottima copertura.
Le
mie
amiche continuavano a dirmi che ero troppo paranoica, ma preferivo
definirmi
prudente. Non capivo davvero il senso di andare in giro vestiti da
mostri o
fantasmi, o da creature ripugnanti. Perché Halloween doveva
essere sempre
sinonimo di spaventoso?
In
città ovviamente ero l’unica a pensarla
così. Fell’s Church amava alla follia
Halloween. Incominciava
settimane prima i preparativi,
quasi fosse una festa propria di quella città.
Forse
perché si raccontava che i primi abitanti fossero le streghe
di Salem emigrate
per sfuggire ai roghi. Sapevo solo che ogni anno per una settimana
intera ero
tormentata da zucche, scheletri, pipistrelli appesi non solo per tutti
gli
edifici pubblici ma anche in casa mia.
Certo,
perché mio padre andava pazzo Halloween.
Sembrava quasi si divertisse ad adorare
qualunque cosa che io non sopportavo.
Dopo
anni, avevo imparato a rassegnarmi e avevo smesso di combattere quella
stupida
festività. Ero pure brava: partecipavo alla festa della
scuola, aiutavo con le
decorazioni, intagliavo zucche con mio padre; insomma, dissimulavo come
una
professionista.
La
mattina del 30 ottobre mi svegliai con un terribile mal di testa. Forse
era il
mio corpo che dopo anni di costrizioni, si stava rifiutando di
affrontare
ancora per un altro anno quell’insopportabile tradizione. Non
volevo uscire
dalla mia cuccia di coperte, ma se non mi fossi presentata a scuola,
Caroline
sarebbe come minimo venuta personalmente a stanarmi. Aveva bisogno di
aiuto per
i preparativi.
Così
mi
alzai di forza e mi vestii. Quando arrivai a scuola, non sembrava
nemmeno un
giorno di lezione.
Parecchi
studenti erano fuori dalle classi, portavano grosse scatole avanti e
indietro
per i corridoi. Cercavano di sistemare il più possibile,
prima che suonasse la
campanella.
Mancava
circa un quarto d’ora all’inizio dei corsi e decisi
di prendermi un cappuccino
ai distributori. Ovviamente non potei fare neanche un passo.
“Bonnie!
Credevo non arrivassi più!” esclamò
Caroline saltandomi in spalla “Ho così
tante cose da organizzare che ho paura di non riuscire a preparare
tutto per
domani”.
“Hai
bisogno di una mano?”. Mi costava chiederlo, mi costava
tantissimo.
“Dato
che ti offri così gentilmente” mi sorrise.
Mi
avrebbe obbligata lei comunque.
Mi
trascinò fino alla palestra, dove molti alunni si erano
già messi al lavoro.
Meredith ed Elena stavano cercando di assemblare uno scheletro di carta.
“Allora,
come procede?” le incitò Caroline.
“Più
difficile del previsto” considerò Mere.
“Questi
cosi non stanno insieme” si lamentò Elena
sventolando le due braccia dello
scheletro che non volevano saperne di unirsi al torace.
“Date
qua” sbuffò Caroline “Piuttosto avete
già scelto un costume?”.
“Io
e Stefan
abbiamo deciso di impersonare una coppia di vampiri. Carino,
no?” c’informò Elena
tutta contenta.
“Io
penso che mi vestirò come Hermione Granger”
annunciò Meredith.
Caroline
la guardò di sbieco.
“Che
c’è?!” la ribeccò Mere
“Quando ero piccola, era il mio idolo. È
Halloween,
quindi mi vesto come una strega” spiegò come se
fosse la cosa più ovvia del
mondo.
Caroline
l’accettò di buon grado “E tu,
Bon?”.
“Non
credo di venire quest’anno”.
Non
l’avessi mai detto. Tutte e tre smisero di sistemare quello
scheletro e mi
fissarono severe. Si aspettavano di passare una serata insieme e ci
erano
chiaramente rimaste male.
“Senza
offesa, ragazze, ma non ho proprio voglia
quest’anno”.
“Non
siate così sorprese” s’intromise una
voce alle mie spalle “Non è la prima volta
che la piccola Bon Bon diserta Halloween”.
Caroline
prese un bel respiro e si girò, pronta a difendermi
“Guarda un po’! Mi serviva
giusto una cornacchia da mettere vicino alle zucche” la
fulminò.
Katherine
esibì un sorrisino tirato e fece qualche passo verso di noi.
“Non
ascoltarla, Bonnie” mi consigliò Elena.
“E’
davvero lodevole come tutte accorrete per proteggere la piccolina del
gruppo”.
“Io
non
sono la pic-” era perfino inutile correggerla; tanto valeva
accontentarla e
togliercela di torno “Cosa intendi, Katherine?”.
Si
arricciò una ciocca tra le dita “Sono
l’unica che si ricorda del raduno di
Halloween?”.
Era
una
specie di rito di passaggio dalle medie al liceo. Durante la festa
delle
streghe, gli studenti di terza media trascorrevano una notte tutti
insieme nel
bosco. Era una tradizione e io l’avevo saltata. Il pomeriggio
di quel raduno mi
era venuta una febbre da cavallo e mio padre si era rifiutato di farmi
uscire
di casa.
“Ero
malata” mi giustificai.
“Ah,
sì? Sicura che non fosse solo una scusa perché
avevi troppa paura?” mi provocò.
“Non
avevo paura” replicai piccata “E poi è
una cosa accaduta quasi cinque anni fa”.
“E’
là
che si è fermato il tempo per te” mi disse
“Tu non sei cambiata per niente”.
“Qual
è
il tuo problema?” gli chiesi.
“Mi
sto
solo divertendo. Pare che abbia toccato un tasto dolente,
permalosetta” mi
canzonò.
“Katherine,
sul serio, perché non la lasci stare?”
l’attaccò Elena.
Faceva
davvero senso vederle una davanti all’altra a fronteggiarsi.
“La
lascerò in pace quando mi avrà dimostrato di non
essere una frignona!”
s’impuntò Katherine “Prova a passare una
notte da sola nel bosco. Completa
l’iniziazione di cinque anni fa e ti prometto di non
rivolgerti nemmeno più la
parola”.
“Tu
sei
completamente matta” sbottò Meredith
“Sparisci” mi prese sottobraccio e insieme
ci allontanammo.
“Non
darle retta, Bonnie, tu sei perfetta così come sei. Non devi
dimostrare niente
a nessuno”.
Annuii
poco convinta. Mi sembrava l’esatto contrario, mi sembrava
che il mondo stesse
proprio aspettando una mia prova.
Alla
fine mi ero fatta convincere, anche se avrei voluto essere ovunque
tranne che
lì. Non avevo programmato di andare e fui costretta ad
improvvisare un costume.
Considerando le mie origini celtiche, avevo scelto di vestirmi da
druida. Era
stato piuttosto semplice: una tunica bianca e una coroncina
sottilissima di
fiori intrecciati, che Mary era corsa a comprarmi. Forse sembravo
più una
hippie che una sacerdotessa dell’antica religione.
Caroline
aveva il costume più curato: si era vestita come Sally, la
bambola di pezza del
film ‘Nightmare before Christmas’. Era praticamente
identica.
Non
persi tempo e andai subito a cercare Matt. Era praticamente
l’unica ragione per
cui avevo acconsentito a quella buffonata; altrimenti me ne sarei stata
in casa
ad aspettare che quella terribile notte passasse. Mi aveva chiamato
durante il
pomeriggio, implorandomi di partecipare.
Avevo
un po’ paura d’incrociare Katherine. Ero alla festa
per divertirmi e non per
sentire le sue parole velenose che mi ricordavano quanto fossi ancora
una
bambina.
Come
poteva saperlo lei? Era stata via per tre anni e non aveva la minima
idea di
come fosse la mia vita. Credeva di essere chissà quale donna
matura eppure mi
proponeva uno stupido rito d’iniziazione che facevano i
ragazzini delle medie.
Come
se
una notte nel bosco avrebbe potuto trasformarmi improvvisamente!
Katherine
era veramente l’anima gemella di Damon, senza dubbio. Perfida
e arrogante allo
stesso modo, con l’unico scopo di tormentare la sorella solo
perché era più
amata di lei. Si meritavano a vicenda e si sarebbero anche distrutti a
vicenda.
Erano
uguali, vuoti e senza morale. Nessuno dei due avrebbe tratto qualche
vantaggio
da quella relazione, sarebbero sempre stati fermi al punto di partenza,
perché
non potevano aiutarsi. Alimentavano il loro stesso rancore e la loro
presunzione si duplicava quando erano insieme. Non esisteva via
d’uscita. Era
un rapporto sterile.
Cercai
di non pensare a Katherine e continuai nella mia ricerca. Matt doveva
per forza
essere lì da qualche parte; aveva così insistito
perché lo raggiungessi.
Lo
trovai poco dopo, vicino al banco delle bevande. Stava scherzando con
un suo
compagno di squadra, ma appena mi vide lo salutò e venne
verso di me.
“Alla
fine ti ho convinta” sorrise schioccandomi un bacio sulla
guancia.
“Non
potevo certo perdermi questa fantastica vista” scherzai
indicandolo “Tu vestito
da … da cosa sei vestito di preciso?”.
“Dottore
matto” mi spiegò “Hai presente? Quello
che fa esperimenti folli sui pazienti”.
“Uh,
è
inquietante” commentai.
“E
tu
chi saresti? Una figlia dei fiori?”.
“Smettila!”
lo rimproverai tirandogli una leggera sberla sulla spalla
“Sono una
sacerdotessa celtica”.
“Non
ci
sarei mai arrivato, troppo colto” disse giocherellando con i
miei boccoli rossi
“Comunque sono davvero contento che tu sia venuta”.
“Anche
io” arrossii “Non sembra male questa
festa”.
“E
non
hai ancora visto la camera dell’orrore. Dai,
seguimi” m’incitò prendendomi per
mano e trascinandomi per i corridoio.
“Camera dell’orrore?”
ripetei con voce tremolante
“Non è un nome rassicurare”.
“Sarà
divertente. L’ho fatta prima, ma è sempre
divertente vedere voi ragazze
urlare”.
“Ehi!
È
un commento sessista!” protestai.
“Adoro
che tu sia spaventata” mi confessò
“Così posso difenderti.
Mi piace essere il tuo cavalier servente. Non
ti succederà niente di male, è solo per gioco. Ti
fidi di me?”.
“Beh,
sì ma …” titubai. Ogni mia obiezione
venne bloccata sul nascere quando
giungemmo davanti ad una porta sulla quale spiccava una grande scritta:
camera
dell’orrore.
Continuavo
a non capire per quale motivo uno dovesse entrare in un posto del
genere. Nel
caso in cui la si considerasse una stupidata, diventava inutile
perché non
faceva paura; se invece si era dei gran fifoni, perché
tormentarsi così?
Matt
si
mise dietro di me e mi spinse ad aprire la porta. Superammo la soglia e
ci
trovammo in una stanza totalmente buia. La cosa non mi piaceva, non mi
piaceva
per niente.
Sentivo
la presenza del ragazzo alle mie spalle e mi dava un po’ di
conforto, ma non
avevo il coraggio di muovere un passo.
Udivo
qualche urla ogni tanto senza capire da dove provenisse. Ne intesi,
però,
subito la ragione: davanti a me si accese all’improvviso una
luce e
contemporaneamente comparve un ragazzo travestito da killer sanguinario
che
finse di attaccarmi.
Credo
che raggiunsi le note più alte della scala con il mio grido.
Praticamente
saltai in braccio a Matt e nascosi il viso nel suo petto.
Cominciò
a muoversi, portandomi con sé, un po’ a fatica
dato che mi rifiutavo di girarmi
di nuovo, nemmeno per vedere dove stessi mettendo i piedi.
Da
quello che potei comprendere, era un percorso attraverso varie classi,
studiato
in modo che ogni tot metri qualcuno o qualcosa apparisse a spaventare
gli
studenti.
Alzai
gli occhi solo quando percepii attorno a me un cambiamento di
atmosfera.
Finalmente quel tour da incubo era finito.
Mi
staccai da Matt e lo fulminai “Sei impazzito?! Volevi farmi
venire un
infarto?”.
Lui
mi
scompigliò i capelli e mi passò un braccio
attorno alla vita “Non era così
terribile, dai” si giustificò “Non puoi
partecipare alla festa di Halloween
senza farti un giro là dentro” poi
esitò un attimo “Non sei arrabbiata,
vero?”.
Scossi
la testa “Se mi costringi un’altra volta a farlo,
non ti parlerò mai più”
m’imbronciai.
Mi
posò
un bacio sui capelli “Andata”.
Ritornammo
in giardino in cerca degli altri, ma non trovammo nessuno. Mentre
eravamo
chiusi nella sala delle torture, molti altri studenti erano arrivati ed
era
davvero difficile distinguere qualcuno in tutta quella folla.
“Aspettami
qui, vedo se riesco a rintracciare Stefan e gli altri” mi
disse.
Annuii
e l’osservai sparire nella massa. Presto mi ritrovai a
sogghignare come
un’ebete per quello che era appena accaduto.
Nonostante
avessi odiato quel giro nella camera dell’orrore, mi aveva
davvero fatto
piacere la cura con cui Matt mi aveva stretta lungo il tragitto. Era
stato
molto protettivo e, soprattutto, aveva cercato di portarmi fuori il
più in
fretta possibile, una volta notato la mia paura crescente. Avrei potuto
seriamente abituarmi a quel tipo di abbraccio.
Per
tanto tempo mi ero chiesta che cosa si provasse ad essere coccolata in
quel
modo. Avevo avvertito calore e preoccupazione. Matt era riuscito a
trasmettermi
quelle emozioni non perché mi considerava una bambina da
proteggere, ma perché
teneva a me.
Era
una
bella sensazione.
“Alla
fine hai trovato il coraggio di uscire di casa?” mi
canzonò una voce alle mie
spalle.
Katherine
Gilbert avrebbe potuto scrivere un manuale su come rovinare un bel
momento.
Cercai
d’ignorarla, inutilmente.
“Pensavo
t’inventassi ancora qualche malattia immaginaria”.
“Per
l’ennesima volta: avevo davvero la febbre!”
replicai scocciata “Katherine,
perché continui a rivangare una cosa successa quattro anni
fa?”.
“Sto
verificando una teoria” mi rispose alzando le spalle
“Matt ti ha già piantata
in asso?”.
“E’
andato a cercare gli altri”.
Lei
mugugnò qualcosa divertita e si guardò intorno.
Non
riuscii a trattenermi “Che
c’è?”.
“Niente”
disse vaga “Pensavo solo che è davvero strano come
se le sia filata in fretta”.
“Matt
non se l’è filata” mi trovai a replicare
stupidamente.
“Lo
farà presto” affermò lei sicura
“Prima o poi si stuferà di fare il
babysitter”.
“Sei
veramente un’arpia!” esclamai indignata
“Sei stata via tutti questi anni; tu
non hai idea di chi sono. Smettila di darmi della bambina!”.
“Temo
proprio che tu lo sia, Bonnie” asserì
“Come faccio a saperlo? Non sei cambiata
per niente. Quando sono partita, tu eri la migliore amica di Stefan,
avevi una
cotta per Matt ed eri l’ombra di mia sorella. Adesso sono
tornata e tu continui
ad essere la migliore amica di Stefan e l’ombra di Elena e
hai una cotta per
Matt. Non ti sei mossa di un centimetro”.
“Non
sono la stessa, Katherine. Tu non sai niente”.
“Allora
dimostramelo” mi sfidò lei “Dimostrami
che non sei più la solita Bonnie
McCullough, paurosa e ingenua. Dimostrami che puoi prendere le tue
decisioni
senza ascoltare gli altri, dimostrami che non hai bisogno di essere
protetta”.
“Ti
sei
fissata su quella stupida tradizione di Halloween” intuii
“Perché?”.
“Chiamalo
sfizio” disse “Cos’hai da perdere?
Nessuno ti costringe a rimanere là se la
cosa diventa troppo spaventosa; ma se lo farai, ti lascerò
in pace”.
La
guardai in cagnesco. Quanto avrei voluto staccarle quei capelli
d’oro uno per
uno.
Mi
avevano incastrato un’altra volta.
Ultimamente
avevo l’impressione di aver perso il controllo della mia
vita; in un modo o
nell’altro erano gli altri a prendere le decisioni per me e
la cosa cominciava
ad infastidirmi.
Quando
Katherine mi aveva invitato alla festa di Halloween del Robert E. Lee,
avevo
gentilmente declinato. Non avevo voglia di passare un’altra
serata circondato
dai ragazzini del liceo. Non si era mai visto un universitario che
stanziasse
regolarmente ai party delle superiori; non ci tenevo proprio a fare la
figura
dello sfigato.
Ero
pronto per una bella maratona di film horror quando avevo ricevuto una
telefonata disperata da parte di Alaric: un paio di genitori avevano
rifiutato
il ruolo di ‘controllori’ per partecipare alla
festa del comune e lui si trovava
con la supervisione scoperta.
Non
potevo credere che avesse pensato proprio a me per tenere
d’occhio i suoi
studenti: non ero decisamente in cima alla lista delle persone
più affidabili
di Fell’s Church.
Alaric
doveva essere davvero a corto d’idee.
Mi
ero
trascinato, quindi, fino alla scuola, senza nemmeno preoccuparmi di
cercare un
costume. Normalmente quel genere di feste duravano fino a mezzanotte;
potevo
sopportare per qualche ora di sballo
liceale.
Il
cortile era decorato come tutti gli anni: zucche e scheletri qua e
là,
ragnatele che scendevano dalle colonne e calderoni fumanti ai lati
della scala.
Non faceva ancora particolarmente freddo per cui la maggior parte degli
studenti stava festeggiando fuori.
Durante
il mio ultimo Halloween al liceo, io e Sage avevamo praticamente
distrutto
l’ufficio del preside. Volevamo
vendicarci di tutte le punizioni subite nel corso dei nostri anni. Non
che noi
fossimo mai stati degli angioletti, ma quell’uomo sembrava
accanirsi con una
discreta vena di sadismo.
Così
ci
eravamo intrufolati in presidenza, stando molto attenti a non lasciare
nessun
indizio che potesse ricollegare quello scherzo a noi, e avevamo
imbrattato i
muri di vernici rossa e appeso fili di spago e carta igienica da un
muro
all’altro in modo talmente fitto che non si riusciva nemmeno
ad attraversare la
stanza.
Ci
era
voluta una settimana intera per ripulirla. Il preside era furioso. I
primi
sospetti, ovviamente, caddero su di noi, ma non c’erano prove
e alla fine la
scampammo. Ci tenne d’occhio per tutto l’anno,
nella speranza di incastrarci e
alla consegna dei diplomi, ci porse il pezzo di carta, livido di rabbia
per non
essere riuscito a fregarci.
Forse
un giorno avrei confessato al preside quel mio piccolo scherzetto,
giusto per
sbatterglielo di nuovo in faccia.
Mi
sistemai meglio il giubbotto di pelle e cominciai a guardarmi in giro.
Se
proprio ero costretto a sorvegliare una banda di mocciosi urlanti,
almeno ne
avrei approfittato per passare del tempo con la mia ragazza.
Poco
lontano da me, Stefan stringeva la mano di Elena. Per un attimo la
scambiai per
Katherine: era vestita da vampira, con dei pantaloni molti attillati, i
tacchi
e i capelli mossi, gli occhi pesantemente truccati. Era il tipico
abbigliamento
della sua gemella, fatta eccezione per le lenti a contatto rosse e i
canini
pronunciati.
Il
sorriso di Elena, però, era molto più dolce
rispetto a quello della sorella.
Katherine nascondeva sempre una certa malizia in ogni suo gesto.
Era
difficile capire che cosa passasse per la sua testa, a volte perfino io
facevo
fatica a starle dietro, nonostante fossi la sua versione al maschile.
Ero
rimasto allibito quando aveva dato corda a Tyler con quella storia
della
scommessa. Io ero il re della cattiveria gratuita, mi divertivo sempre
a
scapito degli altri e l’idea di far soffrire un po’
Stefan mi allettava da
matti, ma Katherine quali ragioni poteva avere a parte farsi una bella
risata?
Non
mi
sembrava una ragazza che agiva senza un motivo sotteso. Stava
sicuramente
pianificando qualcosa.
Improvvisamente
qualcuno mi tirò bruscamente per un braccio e mi trovai
nascosto dietro un manichino
vestito apposta da mostro.
Ghignai
sornione quando riconobbi la giovane davanti a me.
“Vuoi
una rinfrescatina alla memoria?” le chiesi alludendo al
nostro incontro di anni
fa.
“Non
nominarlo neanche! Te lo devi dimenticare” mi
ordinò puntandomi un dito contro.
“A
cosa
devo questo avvertimento?”
m’incuriosii “Non ne abbiamo parlato per
anni”.
“Sul
serio, Damon, tieni la bocca chiusa”
m’intimò.
“Potrei
anche offendermi. Non dirmi che ti vergogni?” continua a
scherzare, con il solo
risultato di irritarla ancora di più.
“Damon…”
pronunciò lapidaria.
“Tranquilla,
Meredith” la calmai “Non ho manie da suicida, me ne
guardo bene dal rivelare il
nostro piccolo segreto proibito”.
“A
nessuno?” si accertò lei.
“Possiamo
chiamare questo nessuno con il suo
nome, sai?” la stuzzicai. Mi fulminò con
un’occhiata e aggiunsi “Soprattutto a
quel nessuno. Non approverebbe e probabilmente mi spaccherebbe il naso.
Ho un
bel viso, non ci tengo a rovinarmelo”.
Meredith
si rilassò percettibilmente e soffiò un
‘grazie’ sollevato.
“Figurati”
le risposi “Non sono uno stronzo ventiquattro ore su
ventiquattro”.
“Povera
anima, ti faranno presto santo” ironizzò.
“Sparisce,
Sulez” le ordinai “Prima che decida di rivelare al
mondo che ragazzaccia sei”.
Ci
scambiammo uno sguardo complice e si allontanò.
Più
di
una volta l’avevo definita inquietante; non perché
ci fosse qualcosa di male in
lei, ma perché riusciva a trasmettermi un senso di
autorevolezza incredibile
per una ragazza di neanche diciotto anni.
“Prenditela
con più calma la prossima volta, eh!” mi
rimproverò Alaric apparendo alle mie
spalle “Da che cosa sei travestito? Da te stesso?”.
“Cosa
hanno messo nel punch, frutta e simpatia?” replicai
schioccando la lingua
contro al palato.
Alaric
mi rivolse un sorriso tirato e tornò a guardare la folla di
alunni. Si era
veramente calato nella parte dell’insegnante responsabile.
Nei
pochi giorni duranti i quali ero stato nel suo appartamento, lo avevo
osservato
preparare scrupolosamente sempre le lezioni del giorno successivo,
agitato di
fare un clamoroso fiasco fin dall’inizio.
“Ti
ho
visto parlare con Meredith, che vi siete detti?” mi
domandò.
“Della
tua voglia di portartela a letto” lo provocai.
“Vaffanculo”.
Finalmente
il signorino era sceso tra noi comuni mortali.
Ero
pronto a infierire in perfetto stile Damon, ma mi accorsi che tutta
l’attenzione del mio amico era catalizzata da
un’altra parte.
Seguii
il suo sguardo fino alla figura di Meredith. Sbuffai contrariato
“Datti un
contegno, Alaric. Non riesci nemmeno a toglierle gli occhi di
dosso”.
“Sei
il
solito idiota” mi rimproverò “Non vedi
che è successo qualcosa”.
Meredith
era insieme a Elena e Caroline, il mio fratellino accanto a loro.
Parlavano in
modo concitato, sembravano preoccupati per qualcosa.
Alaric
impiegò un paio di secondi per entrare in
modalità insegnante apprensivo. Si
avvicinò e io lo seguii, più per noia che per
vera curiosità.
“Ragazzi,
va tutto bene?”.
“Sì,
professore” rispose subito Caroline. Era chiaro che
nascondesse qualcosa.
“In
realtà no, signor Saltzman” la contraddisse
Meredith. Mi venne da ridere,
sentendolo chiamare con quell’appellativo, soprattutto da lei.
Le
due
amiche la incenerirono con lo sguardo.
“Ci
può
aiutare” le fece ragionare la mora “Si tratta di
Bonnie” spiegò.
“Cos’ha
combinato sta volta?”. Non riuscii a fermare il mio palese
disappunto.
“Non
la
troviamo più” svelò “Crediamo
sia andata da sola nell’Old Wood”.
“Perché
avrebbe dovuto farlo?” s’informò Alaric.
“Forse
perché quella serpe della sua ragazza”
berciò Caroline indicandomi “La sta tartassando da
due giorni!”.
Alzai
le ciglia scettico “Katherine non sa nemmeno che Bonnie
esiste” la difesi.
“Io
vado a cercarla” dichiarò Stefan, l’eroe
senza macchia e senza paura “E’
inutile stare qui a litigare”. Elena si affrettò
ad imitarlo ed entrambi
sparirono dalla nostra visuale.
Presto
anche Meredith e Caroline si dileguarono tra la folla, forse per
controllare
ancora una volta che Bonnie se ne fosse effettivamente andata.
Alaric
non si muoveva: era sbiancato dall’agitazione.
“Ric!”
lo risvegliai “Che ti prende?”.
“E’
la
prima volta che faccio da supervisore e una ragazza sparisce sotto la
mia
responsabilità”.
“Probabilmente
sarà tornata a casa” tagliai corto senza capire il
problema.
“E
se
fosse veramente nel bosco?”.
“Ha
paura della sua ombra, perché mai dovrebbe fare una cosa del
genere. E comunque
non è colpa tua; gli studenti sono liberi da lasciare la
festa quando
vogliono”.
“Devo
assicurarmi che stia bene” ragionò Alaric,
ignorandomi completamente “Se le
dovesse succedere qualcosa, la mia testa finirà appesa
all’ufficio della
presidenza. Non posso abbandonare la festa ora, il mio turno non
è ancora
finito e …” venne come illuminato da un lampo di
genio e si voltò verso di me.
Intuii
subito i suoi pensieri e mi rifiutai categoricamente “Non
provarci nemmeno”.
Mi
chiesi come avessi potuto essere così ingenua.
Continuavo
a ripetermi che non ero più piccola, eppure ci ero cascata
esattamente come una
bambina capricciosa. Chiunque avesse un minimo di senno non avrebbe mai
acconsentito a una tale sciocchezza.
Andare
nel bosco da sola. Come diamine mi era saltato in mente?
Perché avevo dato
retta a Katherine? Sapevo che era una vipera vendicativa, non avrei
dovuto
nemmeno ascoltarla.
Mi
ero persa, nel bosco,
di notte.
Camminavo
ormai da parecchio tempo, nella speranza di trovare la raduna dei
campeggiatori
e chiedere aiuto.
Il
mio
cellulare era morto, come nella miglior tradizione dei racconti
dell’orrore.
Nessuno
sapeva dove fossi. Dopo l’ennesima provocazione di Katherine,
ero scappata via
dalla festa senza avvertire, decisa a provarle la mia forza. Non ero
più una
bambina, non avevo più paura del buio.
Il
risultato? Stavo girando a vuoto tra gli alberi, circondata dal gelo e
dall’oscurità,
completamente terrorizzata.
Non
che
l’Old Wood fosse dimora di particolari pericoli. Non
c’era motivo di pensare
che non avrei superato la notte indenne, ma non riuscivo comunque a
calmarmi.
Saltavo
per ogni minimo rumore, i tronchi apparivano come figure nascoste
nell’ombra,
la luce della luna donava solo un aspetto spettrale ai contorni.
Strofinai
le mani sulle braccia, in un vano tentativo di scaldarmi. La giacchetta
che
avevo dietro era
davvero troppo leggera.
L’umidità mi entrava nelle ossa e appiccicava i
miei vestiti contro la mia
pelle, in un fastidioso effetto bagnaticcio. Non passò molto
tempo che
cominciai a tremare.
Alla
fine, stanca e rassegnata, mi rannicchiai a terra contro un masso e mi
strinsi
le ginocchia al petto.
Sbuffai
per l’ennesima volta, quando le mie scarpe scivolarono lungo
il terreno
umidiccio. Alaric sarebbe stato la mia rovina con quelle sue assurde
richieste.
Un’alunna
aveva lasciato la festa. E allora?
Non
era
proibito e non era certo responsabilità del mio amico
assicurarsi che non le
fosse capitato niente di male. Tutto doveva filare liscio
all’interno delle
mura scolastiche, ma fuori era territorio di nessuno.
Avevo
accettato solo perché, se l’avessi effettivamente
trovata, avrei fatto bella
figura e sarebbe stato molto più facile conquistarla.
Non
ero
ancora pienamente convinto di questo assurdo piano per sedurre Bonnie.
Le
motivazioni di Katherine non stavano né in cielo
né in terra; mi allettava solo
l’idea di vendicarmi del mio caro fratellino.
Tutti
quegli anni spesi ad odiarlo e non avevo mai pensato che il metodo
più veloce
ed efficace per ferirlo era proprio colpire la sua migliore amica.
Non
che
mi fossi mai comportato come un gentiluomo con Bonnie, ma erano stati
più che
altro scherzetti innocui. Qui si giocava ad altri livelli.
Vagai
un altro po’ senza successo. Non vi era traccia di Bonnie,
tanto che cominciai
a credere che fosse davvero tornata a casa.
Ero
sul
punto di fare dietrofront e andarmene quando mi accorsi di non aver
ancora
controllato l’area dei campeggiatori. Forse Bonnie si era
rifugiata là in cerca
di un po’ di caldo, nella speranza d’incontrare
qualcuno.
Avevo
un buon senso dell’orientamento e rintracciai in fretta la
strada. L’area non
distava molto, una ventina di minuti al massimo. Affrettai il passo.
Sorpassai
un cartello che indicava il sentiero; feci per imboccarlo, ma un rumore
dietro
una fila di alberi, catturò la mia attenzione.
Mi
avvicinai con prudenza e alla fine la vidi: rannicchiata a terra, con
la
schiena contro una roccia. Era addormentata.
Probabilmente,
aveva pensato di cercare proprio l’area riservata al
campeggio, senza trovarla.
Eppure ci era andata così vicina.
Mi
piegai per svegliarla. Le toccai un braccio e notai che era gelata. La
scossi
con forza, inutilmente: non dava segni di volersi svegliare.
“Che
razza di stupida” digrignai tra i denti. Voleva forse morire
di ipotermia?
Eravamo solo a fine ottobre, non faceva così tanto freddo,
ma Bonnie era
davvero molto piccola di costituzione; la sua sopportazione alle
intemperie era
più bassa rispetto alla media normale.
Mi
tolsi la giacca e gliela posai sulle spalle, poi la presi in braccio.
Era
più
pallida del solito, cattivo segno. Percorsi a ritroso la strada, fino
alla mia
macchina, camminando più veloce possibile. Bonnie non mosse
le palpebre nemmeno
una volta.
L’adagiai
sul sedile di destra e mi misi al volante. Se l’avessi
portata in ospedale, si
sarebbe scatenato un putiferio. Suo padre l’avrebbe segregata
in casa fino alla
fine del college come minimo e probabilmente anche Katherine si sarebbe
ritrovata nei casini in quanto istigatrice.
Per
evitare a tutti dei grossi problemi, mi diressi verso casa sua. Frugai
nella
sua borsa in cerca delle chiavi e, dopo aver aperto la porta, la
sollevai di
nuovo di peso e la trasportai fino alla sua camera, poggiandola sul
letto.
Andai
in bagno e girai il rubinetto dell’acqua. Dovevo riscaldarla
in qualche modo.
Mentre la vasca si riempiva, tornai nuovamente in camera. Iniziai a
svestire
Bonnie e la lasciai in biancheria. Se fosse stata sveglia,
probabilmente mi
sarebbe saltata al collo con l’intento di uccidermi.
Non
indugiai molto a guardare il suo corpo. Avevo visto decine di ragazze
nude, una
in più non avrebbe fatto la differenza.
Le
passai un braccio intorno ai fianchi e l’altro sotto le
ginocchia e raggiunsi
il bagno. Lentamente la feci scivolare nell’acqua calda e con
una mano chiusi
il rubinetto.
Lei
ebbe
un fremito e cercò di ribellarsi, nel sonno. La tenni ferma,
premendo saldamente
sulle sue braccia.
“Troppo
…caldo” sussurrò con un gemito e poi,
con calma, si rilassò.
Solo
allora mi accorsi di quanto fosse scomoda quella posizione: ero
inginocchiato
sul pavimento di piastrelle, con un braccio a sorreggere la rossa. Non
potevo
mollare, altrimenti sarebbe finita sott’acqua. Ero bloccato.
Poggiai
la testa sul bordo, imprecando a bassa voce. A fatica e con una mano
sola, mi
tolsi le scarpe e tutto quello che avevo nelle tasche, poi le sollevai
il busto
ed entrai sedendomi dietro di lei. L’acqua era veramente
calda, forse un po’
troppo.
La
pelle di Bonnie si era arrossata parecchio, ma non sembrava niente di
grave. La
tenni stretta al mio petto, per passarle il mio stesso calore corporeo.
Da che
ricordassi, quello era il primo contatto fisico che condividevamo.
La
situazione era paradossalmente ironica: non l’avevo neppure
mai abbracciata e
adesso eravamo a mollo, nella stessa vasca, appiccicati uno
all’altra, lei
praticamente nuda.
Sentivo
i suoi fianchi minuti premere in mezzo alla mie gambe, coperte
fortunatamente
da jeans neri. Le sue spalle riposavano contro il mio torace e la sua
testa era
ricaduta all’indietro, poggiandosi contro al mio collo.
Constatai
che il suo fisico non era proprio quello di una dodicenne come avevo
sempre
sostenuto. Non aveva delle grandi forme, di seno arrivava a mala pena a
una
seconda, però era ben proporzionata e tonica, forse un
po’ troppo magrolina per
i miei standard. Non era certo un corpo che mi sarei girato a guardare
per
strada, ma nel complesso si presentava bene. Provare a sedurla,
dopotutto, non
sarebbe stato così male.
Mugugnò
qualcosa e si mosse leggermente. Mi sporsi per guardarla oltre i
capelli rossi
e notai che le sue guance avevano ripreso un po’ di colore.
Sebbene
si stesse finalmente svegliando, continuai a tenerla tra le braccia per
accertarmi che non scivolasse con la testa sott’acqua.
Le
sue
gambe si stiracchiarono e le sue dita sfiorarono e accarezzarono,
inconsapevolmente le mie mani. La lasciai fare piuttosto divertito.
Sarebbe
stato un risveglio col botto.
Infine,
alzò il capo e lo girò a destra e a sinistra,
chiaramente spaesata. Non aveva
ancora realizzato la mia presenza alle sue spalle.
“Bentornata
nel nostro mondo, uccellino” le mormorai
all’orecchio.
Un
secondo dopo, era schizzata dall’altra parte della vasca,
sgusciando via dalla
mia presa, e mi fissava inviperita e allibita nello stesso tempo.
“Che
diamine ci fai tu qui?”
sibilò.
Ghignai
mentre il mio sguardo scivolava sul suo corpo in bella vista.
Si
accorse di indossare solo il reggiseno e le mutande. Si
affrettò a
rannicchiarsi ancor di più e a coprirsi come meglio
poté con le braccia.
“Perché
siamo in una vasca? Perché sono nuda?” mi chiese a
raffica “Se stavi cercando
di approfittartene, ti giuro che …”.
“Frena
la fantasia, rossa” troncai subito “So che
impazziresti per uno dei miei
tocchi, ma non è questo il caso. Ti ho trovata svenuta nel
bosco, eri gelata.
Tentavo solo di scaldarti” le spiegai. Mi tirai in piedi,
uscii dalla vasca
gocciolando per tutto il pavimento e agguantai un asciugamano. Glielo
porsi.
Lei
lo
afferrò un titubante. M’imitò,
abbandonando l’acqua diventata ormai tiepida, e
si avvolse nella stoffa.
Le
sue
gambe tremavano ancora; mi avvicinai per aiutarla, ma si
scostò bruscamente.
Era chiaramente a disagio e non voleva essere toccata.
“Sei
sempre così dannatamente cocciuta”
l’apostrofai seccato.
Bonnie
mi lanciò un’occhiata di fuoco che non
sortì certo l’effetto sperato. Voleva
trasmettermi il suo fastidio, ma più che altro mi
suscitò tenerezza.
Cominciava
a risultarmi veramente difficile arrabbiarmi con quella ragazzina;
così
indifesa nel suo asciugamano bianco, con i capelli rossi per
metà bagnati e
l’equilibrio ancora instabile.
“Come
mi hai trovata?” mi domandò con voce pacata.
“I
tuoi
amici stavano andando fuori di testa. Blateravano qualcosa riguardo al
bosco”.
“E
hai
deciso di venirmi a cercare?” alzò le sopracciglia
scettica “Ma come, Damon,
non hai forse detto che io non sono nessuno?”.
Tipico
delle donne: rigirati addosso le tue stesse parole in circostante del
tutto
inappropriate. La mia testa mi suggerì di dissimulare
l’irritazione e di
giocarmi bene le mie carte. Mi sarebbe bastato mormorare qualche parola
dolce
per tranquillizzarla e avrei fatto dei passi da gigante nel mio piano
di
seduzione.
Eppure
le cose degenerarono davvero in fretta. Quella piccola peste sapeva
mandarmi il
sangue al cervello come nessun altro al mondo, neppure mio padre era
così
bravo.
Le
avevo appena salvato la vita e lei doveva per forza comportarsi da
acida, da
altezzosa, come se il mio gesto non valesse niente in paragone alla sua
persona.
“Perché
faccio cose stupide, Bonnie*!” esplosi “Come fare
il boyscout di notte, in
cerca di una ragazzina capricciosa o infradiciarmi i vestiti per
tenerla al
caldo, dato che è stata così furba
da
vagare nei boschi senza portarsi dietro qualcosa con cui coprirsi. Idea
geniale, tra l’altro, degna di te!” la feci notare
rimarcando ancora una volta
quanto fosse insignificante “Forse hai ragione, forse avrei
davvero dovuto
lasciarti là a congelare. A chi mai importerebbe se
sparissi?” conclusi con una
nota velenosa.
L’avevo
colpita nel suo punto più debole e improvvisamente mi sentii
un verme. Non mi
era mai capitato; normalmente stavo benissimo dopo averla umiliata un
po’, ma
quella volta mi resi conto di aver oltrepassato il limite.
Bonnie
distolse lo sguardo e si morse il labbro “Credo che dovresti
andartene”.
“Non
potrei essere più d’accordo” risposi
impassibile, agguattando le mie scarpe. Me
le infilai e uscii veloce come il vento.
Benché
avessi desiderato rimangiare le mie stesse parole, non riuscivo a
calmare la
mia rabbia. Io ero stato uno stronzo, ma lei era solo una mocciosa
ingrata e
piagnona.
Me
la
figuravo già a lamentarsi con le sue amiche, a darmi
dell’insensibile e della
carogna, dimenticandosi ovviamente di raccontare l’altra
parte della storia.
Alla
fine della fiera, ero sempre io il cattivo, anche quando provavo a
comportarmi
da eroe. Ma nessuno avrebbe mai conosciuto quel lato di me,
perché faceva
sempre comodo avere qualcuno da incolpare.
Ogni
favola, dopotutto, aveva la sua bestia.
Il
mio
spazio:
Allora,
ragazze, parto subito con i ringraziamenti perché sono
davvero contentissima
della reazione positiva che ha suscitato lo scorso capitolo.
Amo
i
vostri commenti, davvero! E poi siete state carinissime ad augurarmi
buona
fortuna per l’esame, quindi grazie tantissimo!!
Che
pensate di questo capitolo?
Beh,
sicuramente avrete riconosciuto la scena della vasca, la più
famosa tra Damon e
Bonnie nei libri originali. Mi è sempre piaciuta e volevo
rivisitarlo un po’,
anche se, ovviamente, quella della Smith è insuperabile.
Come
nei libri, anche qui Bonnie non si risveglia pronta a ringraziare
Damon, anzi. È
molto a disagio per la situazione imbarazzante e un po’
intima, ed è ancora
ferita per le parole del ragazzo dello scorso capitolo.
Damon poteva segnare un gran centro e invece si è fatto trasportare ancora dall’impulsività e ha rovinato il momento. Il titolo vuole ovviamente smentire la sua ultima affermazione: il re delle zucche, inteso come il re di Hallowee, colui che ha salvato la situazione, benché Bonnie non sia disposta ad ammetterlo.
Colpa
di
tutti e due, non c’è dubbio.
Le
cose
comunque si smuoveranno, ho un paio di idee ma se avete suggerimenti,
scrivetemi pure. Se avete una scena in mente e vorreste vederla in
questa
storia, farò il possibile per accontentarvi, con i dovuti
crediti ovviamente =)
Dobbiamo
comunque ancora vedere la scena dal punto di vista di Bonnie, nel
prossimo
capitolo leggeremo anche il suo pensiero.
Poi
ho
due comunicazioni: mi trovo in un momento davvero produttivo e ho un
sacco d’idee
in testa, quindi…
- Settimana
prossima pubblicherò quella storia
rossa di cui avevo accennato (non mi ricordo più se nelle
note di questa ff o
di Ashes&Wine). Mi ero ripromessa che l’avrei fatto
solo dopo aver concluso
tutti e dieci i capitoli e invece ne ho scritti solo tre; ma proprio
non riesco
a trattenermi. Credo che l’alternerò con questa,
così avrò il tempo di scrivere
e più o meno tutte le settimane avrete qualcosa.
- Nei
prossimi giorno posterò anche una
fanfiction nel fandom della serie tv di TVD, su Damon nel suo periodo
buio
negli anni ’70. S’intitola "A
beast about
to strike". Vi lascio sotto l’introduzione. Se vi
va, fateci un salto.
Bene,
ora vi lascio andare!
Grazie
mille ancora a tutti!!
Il
banner è sempre di Bumbuni.
Bacioni!
*Battuta
di Damon, presa dalla 3x21 di TVD.
A beast about to
strike. Nessuno
sano di mente si sarebbe mai
addentrato negli anfratti scuri della City quando la luna era alta nel
cielo;
la notte non era un luogo rassicurante, fatta eccezione per gli
ubriachi, per
gli sprovveduti e gli squilibrati, e ovviamente per lui.
Non
c’era più spazio per i buoni sentimenti, niente
più giustizia, niente più
compassione, niente più umanità. Non quando le
paure aumentavano e la pazzia
trovava spazio.
E il
vampiro era ben contento dell’appellativo disumano,
perché voleva essere considerato un qualcosa di
superiore; uno spietato assassino,
senza limiti, senza scrupoli; voleva incutere terrore con il suo
comportamento
inumano.
Per
questo adorava passeggiare per i vicoli immersi nelle tenebre e nel
silenzio;
perché quella era la New York che amava: malvagia, amorale,
ambigua, sfacciata e
disinibita; la New York che gli calzava a pennello, la New York della
notte.
E lui, Damon
Salvatore, ne era il padrone indiscusso.