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Autore: Sissi Bennett    05/04/2013    7 recensioni
Bonnie McCullough ha diciassette anni, i capelli rosso fuoco, il viso a forma di cuore ed è sempre stata considerata da tutti la classica ragazza dalla porta accanto. Circondata da amiche più popolari e speciali di lei, non si è mai distinta tra la folla e nemmeno ha mai desiderato farlo. La sua esistenza in fondo è tranquilla e ha tutto quello che una ragazza possa desiderare, compreso un migliore amico premuroso, affettuoso e piuttosto figo: Stefan Salvatore. Tanto è legata a quest’ultimo quanto non sopporta il fratello, Damon. I due Salvatore hanno sempre avuto degli attriti, ma ultimamente le cose si sono fatte più tese: Stefan è riuscito a conquistare il cuore della bella Elena, la giovane per cui Damon ha sempre avuto un debole. Ma cosa succederebbe se la gemella di Elena, Katherine, ricomparisse a Fell’s Church dopo anni trascorsi a Parigi?
E se Bonnie, dopo un’estate in Spagna, tornasse più matura, più bella, più affascinante, insomma più donna e iniziasse ad attirare gli sguardi dei ragazzi? Damon continuerebbe a considerarla solo come la migliore amica di suo fratello o cercherebbe di aggiungere il suo nome alla sua già lunghissima lista di ragazze con cui è stato?
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, Katherine | Coppie: Bonnie McCullough/Damon Salvatore, Elena Gilbert/Stefan Salvatore
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Crazy Little Thing Called Love

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Capitolo otto: The Pumpkin King.

 

“Skeleton Jack might catch you in the back
And scream like a banshee
Make you jump out of your skin
This is Halloween, everyone scream
Wont' ya please make way for a very special guy
Our man jack is King of the Pumpkin patch
Everyone hail to the Pumpkin King
This is Halloween, this is Halloween,
Halloween! Halloween! Halloween! Halloween!
In this town we call home
Everyone hail to the pumpkin song”

(This is Halloween- da “Nightmare before Christmas”).

 

Da che avessi memoria ero sempre stata una gran fifona.

Di notte tenevo sempre una lucina accesa, controllavo gli armadi prima di andare a dormire, evitavo di guardare i film dell’orrore e mi tappavo le orecchie quando i miei amici raccontavano storie di paura.

Halloween, perciò, era il periodo dell’anno che più detestavo. La notte delle streghe, già dal nome non ne veniva nulla di buono.

In realtà, adoravo in generale l’idea delle streghe, ma Halloween riusciva a rovinarmi pure quella. Mi ricordava qualcosa di inquietante e perfido.

Succedevano sempre cose strane durante quella festa; era praticamente il via libera di tutti gli squilibrati. Come facevo a sapere che dietro quei costumi ci fossero persone normali e non serial killer pronti ad uccidere? Dopotutto, era un’ottima copertura.

Le mie amiche continuavano a dirmi che ero troppo paranoica, ma preferivo definirmi prudente. Non capivo davvero il senso di andare in giro vestiti da mostri o fantasmi, o da creature ripugnanti. Perché Halloween doveva essere sempre sinonimo di spaventoso?

In città ovviamente ero l’unica a pensarla così. Fell’s Church amava alla follia Halloween. Incominciava settimane prima i preparativi, quasi fosse una festa propria di quella città.

Forse perché si raccontava che i primi abitanti fossero le streghe di Salem emigrate per sfuggire ai roghi. Sapevo solo che ogni anno per una settimana intera ero tormentata da zucche, scheletri, pipistrelli appesi non solo per tutti gli edifici pubblici ma anche in casa mia.

Certo, perché mio padre andava pazzo Halloween. Sembrava quasi si divertisse ad adorare qualunque cosa che io non sopportavo.

Dopo anni, avevo imparato a rassegnarmi e avevo smesso di combattere quella stupida festività. Ero pure brava: partecipavo alla festa della scuola, aiutavo con le decorazioni, intagliavo zucche con mio padre; insomma, dissimulavo come una professionista.

La mattina del 30 ottobre mi svegliai con un terribile mal di testa. Forse era il mio corpo che dopo anni di costrizioni, si stava rifiutando di affrontare ancora per un altro anno quell’insopportabile tradizione. Non volevo uscire dalla mia cuccia di coperte, ma se non mi fossi presentata a scuola, Caroline sarebbe come minimo venuta personalmente a stanarmi. Aveva bisogno di aiuto per i preparativi.

Così mi alzai di forza e mi vestii. Quando arrivai a scuola, non sembrava nemmeno un giorno di lezione.

Parecchi studenti erano fuori dalle classi, portavano grosse scatole avanti e indietro per i corridoi. Cercavano di sistemare il più possibile, prima che suonasse la campanella.

Mancava circa un quarto d’ora all’inizio dei corsi e decisi di prendermi un cappuccino ai distributori. Ovviamente non potei fare neanche un passo.

“Bonnie! Credevo non arrivassi più!” esclamò Caroline saltandomi in spalla “Ho così tante cose da organizzare che ho paura di non riuscire a preparare tutto per domani”.

“Hai bisogno di una mano?”. Mi costava chiederlo, mi costava tantissimo.

“Dato che ti offri così gentilmente” mi sorrise.

Mi avrebbe obbligata lei comunque.

Mi trascinò fino alla palestra, dove molti alunni si erano già messi al lavoro. Meredith ed Elena stavano cercando di assemblare uno scheletro di carta.

“Allora, come procede?” le incitò Caroline.

“Più difficile del previsto” considerò Mere.

“Questi cosi non stanno insieme” si lamentò Elena sventolando le due braccia dello scheletro che non volevano saperne di unirsi al torace.

“Date qua” sbuffò Caroline “Piuttosto avete già scelto un costume?”.

“Io e Stefan abbiamo deciso di impersonare una coppia di vampiri. Carino, no?” c’informò Elena tutta contenta.

“Io penso che mi vestirò come Hermione Granger” annunciò Meredith.

Caroline la guardò di sbieco.

“Che c’è?!” la ribeccò Mere “Quando ero piccola, era il mio idolo. È Halloween, quindi mi vesto come una strega” spiegò come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

Caroline l’accettò di buon grado “E tu, Bon?”.

“Non credo di venire quest’anno”.

Non l’avessi mai detto. Tutte e tre smisero di sistemare quello scheletro e mi fissarono severe. Si aspettavano di passare una serata insieme e ci erano chiaramente rimaste male.

“Senza offesa, ragazze, ma non ho proprio voglia quest’anno”.

“Non siate così sorprese” s’intromise una voce alle mie spalle “Non è la prima volta che la piccola Bon Bon diserta Halloween”.

Caroline prese un bel respiro e si girò, pronta a difendermi “Guarda un po’! Mi serviva giusto una cornacchia da mettere vicino alle zucche” la fulminò.

Katherine esibì un sorrisino tirato e fece qualche passo verso di noi.

“Non ascoltarla, Bonnie” mi consigliò Elena.

“E’ davvero lodevole come tutte accorrete per proteggere la piccolina del gruppo”.

“Io non sono la pic-” era perfino inutile correggerla; tanto valeva accontentarla e togliercela di torno “Cosa intendi, Katherine?”.

Si arricciò una ciocca tra le dita “Sono l’unica che si ricorda del raduno di Halloween?”.

Era una specie di rito di passaggio dalle medie al liceo. Durante la festa delle streghe, gli studenti di terza media trascorrevano una notte tutti insieme nel bosco. Era una tradizione e io l’avevo saltata. Il pomeriggio di quel raduno mi era venuta una febbre da cavallo e mio padre si era rifiutato di farmi uscire di casa.

“Ero malata” mi giustificai.

“Ah, sì? Sicura che non fosse solo una scusa perché avevi troppa paura?” mi provocò.

“Non avevo paura” replicai piccata “E poi è una cosa accaduta quasi cinque anni fa”.

“E’ là che si è fermato il tempo per te” mi disse “Tu non sei cambiata per niente”.

“Qual è il tuo problema?” gli chiesi.

“Mi sto solo divertendo. Pare che abbia toccato un tasto dolente, permalosetta” mi canzonò.

“Katherine, sul serio, perché non la lasci stare?” l’attaccò Elena.

Faceva davvero senso vederle una davanti all’altra a fronteggiarsi.

“La lascerò in pace quando mi avrà dimostrato di non essere una frignona!” s’impuntò Katherine “Prova a passare una notte da sola nel bosco. Completa l’iniziazione di cinque anni fa e ti prometto di non rivolgerti nemmeno più la parola”.

“Tu sei completamente matta” sbottò Meredith “Sparisci” mi prese sottobraccio e insieme ci allontanammo.

“Non darle retta, Bonnie, tu sei perfetta così come sei. Non devi dimostrare niente a nessuno”.

Annuii poco convinta. Mi sembrava l’esatto contrario, mi sembrava che il mondo stesse proprio aspettando una mia prova.

 

Alla fine mi ero fatta convincere, anche se avrei voluto essere ovunque tranne che lì. Non avevo programmato di andare e fui costretta ad improvvisare un costume. Considerando le mie origini celtiche, avevo scelto di vestirmi da druida. Era stato piuttosto semplice: una tunica bianca e una coroncina sottilissima di fiori intrecciati, che Mary era corsa a comprarmi. Forse sembravo più una hippie che una sacerdotessa dell’antica religione.

Caroline aveva il costume più curato: si era vestita come Sally, la bambola di pezza del film ‘Nightmare before Christmas’. Era praticamente identica.

Non persi tempo e andai subito a cercare Matt. Era praticamente l’unica ragione per cui avevo acconsentito a quella buffonata; altrimenti me ne sarei stata in casa ad aspettare che quella terribile notte passasse. Mi aveva chiamato durante il pomeriggio, implorandomi di partecipare.

Avevo un po’ paura d’incrociare Katherine. Ero alla festa per divertirmi e non per sentire le sue parole velenose che mi ricordavano quanto fossi ancora una bambina.

Come poteva saperlo lei? Era stata via per tre anni e non aveva la minima idea di come fosse la mia vita. Credeva di essere chissà quale donna matura eppure mi proponeva uno stupido rito d’iniziazione che facevano i ragazzini delle medie.

Come se una notte nel bosco avrebbe potuto trasformarmi improvvisamente!

Katherine era veramente l’anima gemella di Damon, senza dubbio. Perfida e arrogante allo stesso modo, con l’unico scopo di tormentare la sorella solo perché era più amata di lei. Si meritavano a vicenda e si sarebbero anche distrutti a vicenda.

Erano uguali, vuoti e senza morale. Nessuno dei due avrebbe tratto qualche vantaggio da quella relazione, sarebbero sempre stati fermi al punto di partenza, perché non potevano aiutarsi. Alimentavano il loro stesso rancore e la loro presunzione si duplicava quando erano insieme. Non esisteva via d’uscita. Era un rapporto sterile.

Cercai di non pensare a Katherine e continuai nella mia ricerca. Matt doveva per forza essere lì da qualche parte; aveva così insistito perché lo raggiungessi.

Lo trovai poco dopo, vicino al banco delle bevande. Stava scherzando con un suo compagno di squadra, ma appena mi vide lo salutò e venne verso di me.

“Alla fine ti ho convinta” sorrise schioccandomi un bacio sulla guancia.

“Non potevo certo perdermi questa fantastica vista” scherzai indicandolo “Tu vestito da … da cosa sei vestito di preciso?”.

“Dottore matto” mi spiegò “Hai presente? Quello che fa esperimenti folli sui pazienti”.

“Uh, è inquietante” commentai.

“E tu chi saresti? Una figlia dei fiori?”.

“Smettila!” lo rimproverai tirandogli una leggera sberla sulla spalla “Sono una sacerdotessa celtica”.

“Non ci sarei mai arrivato, troppo colto” disse giocherellando con i miei boccoli rossi “Comunque sono davvero contento che tu sia venuta”.

“Anche io” arrossii “Non sembra male questa festa”.

“E non hai ancora visto la camera dell’orrore. Dai, seguimi” m’incitò prendendomi per mano e trascinandomi per i corridoio.

Camera dell’orrore?” ripetei con voce tremolante “Non è un nome rassicurare”.

“Sarà divertente. L’ho fatta prima, ma è sempre divertente vedere voi ragazze urlare”.

“Ehi! È un commento sessista!” protestai.

“Adoro che tu sia spaventata” mi confessò “Così posso difenderti.  Mi piace essere il tuo cavalier servente. Non ti succederà niente di male, è solo per gioco. Ti fidi di me?”.

“Beh, sì ma …” titubai. Ogni mia obiezione venne bloccata sul nascere quando giungemmo davanti ad una porta sulla quale spiccava una grande scritta: camera dell’orrore.

Continuavo a non capire per quale motivo uno dovesse entrare in un posto del genere. Nel caso in cui la si considerasse una stupidata, diventava inutile perché non faceva paura; se invece si era dei gran fifoni, perché tormentarsi così?

Matt si mise dietro di me e mi spinse ad aprire la porta. Superammo la soglia e ci trovammo in una stanza totalmente buia. La cosa non mi piaceva, non mi piaceva per niente.

Sentivo la presenza del ragazzo alle mie spalle e mi dava un po’ di conforto, ma non avevo il coraggio di muovere un passo.

Udivo qualche urla ogni tanto senza capire da dove provenisse. Ne intesi, però, subito la ragione: davanti a me si accese all’improvviso una luce e contemporaneamente comparve un ragazzo travestito da killer sanguinario che finse di attaccarmi.

Credo che raggiunsi le note più alte della scala con il mio grido. Praticamente saltai in braccio a Matt e nascosi il viso nel suo petto.

Cominciò a muoversi, portandomi con sé, un po’ a fatica dato che mi rifiutavo di girarmi di nuovo, nemmeno per vedere dove stessi mettendo i piedi.

Da quello che potei comprendere, era un percorso attraverso varie classi, studiato in modo che ogni tot metri qualcuno o qualcosa apparisse a spaventare gli studenti.

Alzai gli occhi solo quando percepii attorno a me un cambiamento di atmosfera. Finalmente quel tour da incubo era finito.

Mi staccai da Matt e lo fulminai “Sei impazzito?! Volevi farmi venire un infarto?”.

Lui mi scompigliò i capelli e mi passò un braccio attorno alla vita “Non era così terribile, dai” si giustificò “Non puoi partecipare alla festa di Halloween senza farti un giro là dentro” poi esitò un attimo “Non sei arrabbiata, vero?”.

Scossi la testa “Se mi costringi un’altra volta a farlo, non ti parlerò mai più” m’imbronciai.

Mi posò un bacio sui capelli “Andata”.

Ritornammo in giardino in cerca degli altri, ma non trovammo nessuno. Mentre eravamo chiusi nella sala delle torture, molti altri studenti erano arrivati ed era davvero difficile distinguere qualcuno in tutta quella folla.

“Aspettami qui, vedo se riesco a rintracciare Stefan e gli altri” mi disse.

Annuii e l’osservai sparire nella massa. Presto mi ritrovai a sogghignare come un’ebete per quello che era appena accaduto.

Nonostante avessi odiato quel giro nella camera dell’orrore, mi aveva davvero fatto piacere la cura con cui Matt mi aveva stretta lungo il tragitto. Era stato molto protettivo e, soprattutto, aveva cercato di portarmi fuori il più in fretta possibile, una volta notato la mia paura crescente. Avrei potuto seriamente abituarmi a quel tipo di abbraccio.

Per tanto tempo mi ero chiesta che cosa si provasse ad essere coccolata in quel modo. Avevo avvertito calore e preoccupazione. Matt era riuscito a trasmettermi quelle emozioni non perché mi considerava una bambina da proteggere, ma perché teneva a me.

Era una bella sensazione.

“Alla fine hai trovato il coraggio di uscire di casa?” mi canzonò una voce alle mie spalle.

Katherine Gilbert avrebbe potuto scrivere un manuale su come rovinare un bel momento.

Cercai d’ignorarla, inutilmente.

“Pensavo t’inventassi ancora qualche malattia immaginaria”.

“Per l’ennesima volta: avevo davvero la febbre!” replicai scocciata “Katherine, perché continui a rivangare una cosa successa quattro anni fa?”.

“Sto verificando una teoria” mi rispose alzando le spalle “Matt ti ha già piantata in asso?”.

“E’ andato a cercare gli altri”.

Lei mugugnò qualcosa divertita e si guardò intorno.

Non riuscii a trattenermi “Che c’è?”.

“Niente” disse vaga “Pensavo solo che è davvero strano come se le sia filata in fretta”.

“Matt non se l’è filata” mi trovai a replicare stupidamente.

“Lo farà presto” affermò lei sicura “Prima o poi si stuferà di fare il babysitter”.

“Sei veramente un’arpia!” esclamai indignata “Sei stata via tutti questi anni; tu non hai idea di chi sono. Smettila di darmi della bambina!”.

“Temo proprio che tu lo sia, Bonnie” asserì “Come faccio a saperlo? Non sei cambiata per niente. Quando sono partita, tu eri la migliore amica di Stefan, avevi una cotta per Matt ed eri l’ombra di mia sorella. Adesso sono tornata e tu continui ad essere la migliore amica di Stefan e l’ombra di Elena e hai una cotta per Matt. Non ti sei mossa di un centimetro”.

“Non sono la stessa, Katherine. Tu non sai niente”.

“Allora dimostramelo” mi sfidò lei “Dimostrami che non sei più la solita Bonnie McCullough, paurosa e ingenua. Dimostrami che puoi prendere le tue decisioni senza ascoltare gli altri, dimostrami che non hai bisogno di essere protetta”.

“Ti sei fissata su quella stupida tradizione di Halloween” intuii “Perché?”.

“Chiamalo sfizio” disse “Cos’hai da perdere? Nessuno ti costringe a rimanere là se la cosa diventa troppo spaventosa; ma se lo farai, ti lascerò in pace”.

La guardai in cagnesco. Quanto avrei voluto staccarle quei capelli d’oro uno per uno.

 

Mi avevano incastrato un’altra volta.

Ultimamente avevo l’impressione di aver perso il controllo della mia vita; in un modo o nell’altro erano gli altri a prendere le decisioni per me e la cosa cominciava ad infastidirmi.

Quando Katherine mi aveva invitato alla festa di Halloween del Robert E. Lee, avevo gentilmente declinato. Non avevo voglia di passare un’altra serata circondato dai ragazzini del liceo. Non si era mai visto un universitario che stanziasse regolarmente ai party delle superiori; non ci tenevo proprio a fare la figura dello sfigato.

Ero pronto per una bella maratona di film horror quando avevo ricevuto una telefonata disperata da parte di Alaric: un paio di genitori avevano rifiutato il ruolo di ‘controllori’ per partecipare alla festa del comune e lui si trovava con la supervisione scoperta.

Non potevo credere che avesse pensato proprio a me per tenere d’occhio i suoi studenti: non ero decisamente in cima alla lista delle persone più affidabili di Fell’s Church.

Alaric doveva essere davvero a corto d’idee.

Mi ero trascinato, quindi, fino alla scuola, senza nemmeno preoccuparmi di cercare un costume. Normalmente quel genere di feste duravano fino a mezzanotte; potevo sopportare per qualche ora di sballo liceale.

Il cortile era decorato come tutti gli anni: zucche e scheletri qua e là, ragnatele che scendevano dalle colonne e calderoni fumanti ai lati della scala. Non faceva ancora particolarmente freddo per cui la maggior parte degli studenti stava festeggiando fuori.

Durante il mio ultimo Halloween al liceo, io e Sage avevamo praticamente distrutto l’ufficio del preside.  Volevamo vendicarci di tutte le punizioni subite nel corso dei nostri anni. Non che noi fossimo mai stati degli angioletti, ma quell’uomo sembrava accanirsi con una discreta vena di sadismo.

Così ci eravamo intrufolati in presidenza, stando molto attenti a non lasciare nessun indizio che potesse ricollegare quello scherzo a noi, e avevamo imbrattato i muri di vernici rossa e appeso fili di spago e carta igienica da un muro all’altro in modo talmente fitto che non si riusciva nemmeno ad attraversare la stanza.

Ci era voluta una settimana intera per ripulirla. Il preside era furioso. I primi sospetti, ovviamente, caddero su di noi, ma non c’erano prove e alla fine la scampammo. Ci tenne d’occhio per tutto l’anno, nella speranza di incastrarci e alla consegna dei diplomi, ci porse il pezzo di carta, livido di rabbia per non essere riuscito a fregarci.

Forse un giorno avrei confessato al preside quel mio piccolo scherzetto, giusto per sbatterglielo di nuovo in faccia.

Mi sistemai meglio il giubbotto di pelle e cominciai a guardarmi in giro. Se proprio ero costretto a sorvegliare una banda di mocciosi urlanti, almeno ne avrei approfittato per passare del tempo con la mia ragazza.

Poco lontano da me, Stefan stringeva la mano di Elena. Per un attimo la scambiai per Katherine: era vestita da vampira, con dei pantaloni molti attillati, i tacchi e i capelli mossi, gli occhi pesantemente truccati. Era il tipico abbigliamento della sua gemella, fatta eccezione per le lenti a contatto rosse e i canini pronunciati.

Il sorriso di Elena, però, era molto più dolce rispetto a quello della sorella. Katherine nascondeva sempre una certa malizia in ogni suo gesto.

Era difficile capire che cosa passasse per la sua testa, a volte perfino io facevo fatica a starle dietro, nonostante fossi la sua versione al maschile.

Ero rimasto allibito quando aveva dato corda a Tyler con quella storia della scommessa. Io ero il re della cattiveria gratuita, mi divertivo sempre a scapito degli altri e l’idea di far soffrire un po’ Stefan mi allettava da matti, ma Katherine quali ragioni poteva avere a parte farsi una bella risata?

Non mi sembrava una ragazza che agiva senza un motivo sotteso. Stava sicuramente pianificando qualcosa.

Improvvisamente qualcuno mi tirò bruscamente per un braccio e mi trovai nascosto dietro un manichino vestito apposta da mostro.

Ghignai sornione quando riconobbi la giovane davanti a me.

“Vuoi una rinfrescatina alla memoria?” le chiesi alludendo al nostro incontro di anni fa.

“Non nominarlo neanche! Te lo devi dimenticare” mi ordinò puntandomi un dito contro.

“A cosa devo questo avvertimento?” m’incuriosii “Non ne abbiamo parlato per anni”.

“Sul serio, Damon, tieni la bocca chiusa” m’intimò.

“Potrei anche offendermi. Non dirmi che ti vergogni?” continua a scherzare, con il solo risultato di irritarla ancora di più.

“Damon…” pronunciò lapidaria.

“Tranquilla, Meredith” la calmai “Non ho manie da suicida, me ne guardo bene dal rivelare il nostro piccolo segreto proibito”.

“A nessuno?” si accertò lei.

“Possiamo chiamare questo nessuno con il suo nome, sai?” la stuzzicai. Mi fulminò con un’occhiata e aggiunsi “Soprattutto a quel nessuno. Non approverebbe e probabilmente mi spaccherebbe il naso. Ho un bel viso, non ci tengo a rovinarmelo”.

Meredith si rilassò percettibilmente e soffiò un ‘grazie’ sollevato.

“Figurati” le risposi “Non sono uno stronzo ventiquattro ore su ventiquattro”.

“Povera anima, ti faranno presto santo” ironizzò.

“Sparisce, Sulez” le ordinai “Prima che decida di rivelare al mondo che ragazzaccia sei”.

Ci scambiammo uno sguardo complice e si allontanò.

Più di una volta l’avevo definita inquietante; non perché ci fosse qualcosa di male in lei, ma perché riusciva a trasmettermi un senso di autorevolezza incredibile per una ragazza di neanche diciotto anni.

“Prenditela con più calma la prossima volta, eh!” mi rimproverò Alaric apparendo alle mie spalle “Da che cosa sei travestito? Da te stesso?”.

“Cosa hanno messo nel punch, frutta e simpatia?” replicai schioccando la lingua contro al palato.

Alaric mi rivolse un sorriso tirato e tornò a guardare la folla di alunni. Si era veramente calato nella parte dell’insegnante responsabile.

Nei pochi giorni duranti i quali ero stato nel suo appartamento, lo avevo osservato preparare scrupolosamente sempre le lezioni del giorno successivo, agitato di fare un clamoroso fiasco fin dall’inizio.

“Ti ho visto parlare con Meredith, che vi siete detti?” mi domandò.

“Della tua voglia di portartela a letto” lo provocai.

“Vaffanculo”.

Finalmente il signorino era sceso tra noi comuni mortali.

Ero pronto a infierire in perfetto stile Damon, ma mi accorsi che tutta l’attenzione del mio amico era catalizzata da un’altra parte.

Seguii il suo sguardo fino alla figura di Meredith. Sbuffai contrariato “Datti un contegno, Alaric. Non riesci nemmeno a toglierle gli occhi di dosso”.

“Sei il solito idiota” mi rimproverò “Non vedi che è successo qualcosa”.

Meredith era insieme a Elena e Caroline, il mio fratellino accanto a loro. Parlavano in modo concitato, sembravano preoccupati per qualcosa.

Alaric impiegò un paio di secondi per entrare in modalità insegnante apprensivo. Si avvicinò e io lo seguii, più per noia che per vera curiosità.

“Ragazzi, va tutto bene?”.

“Sì, professore” rispose subito Caroline. Era chiaro che nascondesse qualcosa.

“In realtà no, signor Saltzman” la contraddisse Meredith. Mi venne da ridere, sentendolo chiamare con quell’appellativo, soprattutto da lei.

Le due amiche la incenerirono con lo sguardo.

“Ci può aiutare” le fece ragionare la mora “Si tratta di Bonnie” spiegò.

“Cos’ha combinato sta volta?”. Non riuscii a fermare il mio palese disappunto.

“Non la troviamo più” svelò “Crediamo sia andata da sola nell’Old Wood”.

“Perché avrebbe dovuto farlo?” s’informò Alaric.

“Forse perché quella serpe della sua ragazza” berciò Caroline indicandomi “La sta tartassando da due giorni!”.

Alzai le ciglia scettico “Katherine non sa nemmeno che Bonnie esiste” la difesi.

“Io vado a cercarla” dichiarò Stefan, l’eroe senza macchia e senza paura “E’ inutile stare qui a litigare”. Elena si affrettò ad imitarlo ed entrambi sparirono dalla nostra visuale.

Presto anche Meredith e Caroline si dileguarono tra la folla, forse per controllare ancora una volta che Bonnie se ne fosse effettivamente andata.

Alaric non si muoveva: era sbiancato dall’agitazione.

“Ric!” lo risvegliai “Che ti prende?”.

“E’ la prima volta che faccio da supervisore e una ragazza sparisce sotto la mia responsabilità”.

“Probabilmente sarà tornata a casa” tagliai corto senza capire il problema.

“E se fosse veramente nel bosco?”.

“Ha paura della sua ombra, perché mai dovrebbe fare una cosa del genere. E comunque non è colpa tua; gli studenti sono liberi da lasciare la festa quando vogliono”.

“Devo assicurarmi che stia bene” ragionò Alaric, ignorandomi completamente “Se le dovesse succedere qualcosa, la mia testa finirà appesa all’ufficio della presidenza. Non posso abbandonare la festa ora, il mio turno non è ancora finito e …” venne come illuminato da un lampo di genio e si voltò verso di me.

Intuii subito i suoi pensieri e mi rifiutai categoricamente “Non provarci nemmeno”.

 

Mi chiesi come avessi potuto essere così ingenua.

Continuavo a ripetermi che non ero più piccola, eppure ci ero cascata esattamente come una bambina capricciosa. Chiunque avesse un minimo di senno non avrebbe mai acconsentito a una tale sciocchezza.

Andare nel bosco da sola. Come diamine mi era saltato in mente? Perché avevo dato retta a Katherine? Sapevo che era una vipera vendicativa, non avrei dovuto nemmeno ascoltarla.

Mi ero persa, nel bosco, di notte.

Camminavo ormai da parecchio tempo, nella speranza di trovare la raduna dei campeggiatori e chiedere aiuto.

Il mio cellulare era morto, come nella miglior tradizione dei racconti dell’orrore.

Nessuno sapeva dove fossi. Dopo l’ennesima provocazione di Katherine, ero scappata via dalla festa senza avvertire, decisa a provarle la mia forza. Non ero più una bambina, non avevo più paura del buio.

Il risultato? Stavo girando a vuoto tra gli alberi, circondata dal gelo e dall’oscurità, completamente terrorizzata.

Non che l’Old Wood fosse dimora di particolari pericoli. Non c’era motivo di pensare che non avrei superato la notte indenne, ma non riuscivo comunque a calmarmi.

Saltavo per ogni minimo rumore, i tronchi apparivano come figure nascoste nell’ombra, la luce della luna donava solo un aspetto spettrale ai contorni.

Strofinai le mani sulle braccia, in un vano tentativo di scaldarmi. La giacchetta che avevo dietro  era davvero troppo leggera. L’umidità mi entrava nelle ossa e appiccicava i miei vestiti contro la mia pelle, in un fastidioso effetto bagnaticcio. Non passò molto tempo che cominciai a tremare.

Alla fine, stanca e rassegnata, mi rannicchiai a terra contro un masso e mi strinsi le ginocchia al petto.

 

Sbuffai per l’ennesima volta, quando le mie scarpe scivolarono lungo il terreno umidiccio. Alaric sarebbe stato la mia rovina con quelle sue assurde richieste.

Un’alunna aveva lasciato la festa. E allora?

Non era proibito e non era certo responsabilità del mio amico assicurarsi che non le fosse capitato niente di male. Tutto doveva filare liscio all’interno delle mura scolastiche, ma fuori era territorio di nessuno.

Avevo accettato solo perché, se l’avessi effettivamente trovata, avrei fatto bella figura e sarebbe stato molto più facile conquistarla.

Non ero ancora pienamente convinto di questo assurdo piano per sedurre Bonnie. Le motivazioni di Katherine non stavano né in cielo né in terra; mi allettava solo l’idea di vendicarmi del mio caro fratellino.

Tutti quegli anni spesi ad odiarlo e non avevo mai pensato che il metodo più veloce ed efficace per ferirlo era proprio colpire la sua migliore amica.

Non che mi fossi mai comportato come un gentiluomo con Bonnie, ma erano stati più che altro scherzetti innocui. Qui si giocava ad altri livelli.

Vagai un altro po’ senza successo. Non vi era traccia di Bonnie, tanto che cominciai a credere che fosse davvero tornata a casa.

Ero sul punto di fare dietrofront e andarmene quando mi accorsi di non aver ancora controllato l’area dei campeggiatori. Forse Bonnie si era rifugiata là in cerca di un po’ di caldo, nella speranza d’incontrare qualcuno.

Avevo un buon senso dell’orientamento e rintracciai in fretta la strada. L’area non distava molto, una ventina di minuti al massimo. Affrettai il passo.

Sorpassai un cartello che indicava il sentiero; feci per imboccarlo, ma un rumore dietro una fila di alberi, catturò la mia attenzione.

Mi avvicinai con prudenza e alla fine la vidi: rannicchiata a terra, con la schiena contro una roccia. Era addormentata.

Probabilmente, aveva pensato di cercare proprio l’area riservata al campeggio, senza trovarla. Eppure ci era andata così vicina.

Mi piegai per svegliarla. Le toccai un braccio e notai che era gelata. La scossi con forza, inutilmente: non dava segni di volersi svegliare.

“Che razza di stupida” digrignai tra i denti. Voleva forse morire di ipotermia? Eravamo solo a fine ottobre, non faceva così tanto freddo, ma Bonnie era davvero molto piccola di costituzione; la sua sopportazione alle intemperie era più bassa rispetto alla media normale.

Mi tolsi la giacca e gliela posai sulle spalle, poi la presi in braccio.

Era più pallida del solito, cattivo segno. Percorsi a ritroso la strada, fino alla mia macchina, camminando più veloce possibile. Bonnie non mosse le palpebre nemmeno una volta.

L’adagiai sul sedile di destra e mi misi al volante. Se l’avessi portata in ospedale, si sarebbe scatenato un putiferio. Suo padre l’avrebbe segregata in casa fino alla fine del college come minimo e probabilmente anche Katherine si sarebbe ritrovata nei casini in quanto istigatrice.

Per evitare a tutti dei grossi problemi, mi diressi verso casa sua. Frugai nella sua borsa in cerca delle chiavi e, dopo aver aperto la porta, la sollevai di nuovo di peso e la trasportai fino alla sua camera, poggiandola sul letto.

Andai in bagno e girai il rubinetto dell’acqua. Dovevo riscaldarla in qualche modo. Mentre la vasca si riempiva, tornai nuovamente in camera. Iniziai a svestire Bonnie e la lasciai in biancheria. Se fosse stata sveglia, probabilmente mi sarebbe saltata al collo con l’intento di uccidermi.

Non indugiai molto a guardare il suo corpo. Avevo visto decine di ragazze nude, una in più non avrebbe fatto la differenza.

Le passai un braccio intorno ai fianchi e l’altro sotto le ginocchia e raggiunsi il bagno. Lentamente la feci scivolare nell’acqua calda e con una mano chiusi il rubinetto.

Lei ebbe un fremito e cercò di ribellarsi, nel sonno. La tenni ferma, premendo saldamente sulle sue braccia.

“Troppo …caldo” sussurrò con un gemito e poi, con calma, si rilassò.

Solo allora mi accorsi di quanto fosse scomoda quella posizione: ero inginocchiato sul pavimento di piastrelle, con un braccio a sorreggere la rossa. Non potevo mollare, altrimenti sarebbe finita sott’acqua. Ero bloccato.

Poggiai la testa sul bordo, imprecando a bassa voce. A fatica e con una mano sola, mi tolsi le scarpe e tutto quello che avevo nelle tasche, poi le sollevai il busto ed entrai sedendomi dietro di lei. L’acqua era veramente calda, forse un po’ troppo.

La pelle di Bonnie si era arrossata parecchio, ma non sembrava niente di grave. La tenni stretta al mio petto, per passarle il mio stesso calore corporeo. Da che ricordassi, quello era il primo contatto fisico che condividevamo.

La situazione era paradossalmente ironica: non l’avevo neppure mai abbracciata e adesso eravamo a mollo, nella stessa vasca, appiccicati uno all’altra, lei praticamente nuda.

Sentivo i suoi fianchi minuti premere in mezzo alla mie gambe, coperte fortunatamente da jeans neri. Le sue spalle riposavano contro il mio torace e la sua testa era ricaduta all’indietro, poggiandosi contro al mio collo.

Constatai che il suo fisico non era proprio quello di una dodicenne come avevo sempre sostenuto. Non aveva delle grandi forme, di seno arrivava a mala pena a una seconda, però era ben proporzionata e tonica, forse un po’ troppo magrolina per i miei standard. Non era certo un corpo che mi sarei girato a guardare per strada, ma nel complesso si presentava bene. Provare a sedurla, dopotutto, non sarebbe stato così male.

Mugugnò qualcosa e si mosse leggermente. Mi sporsi per guardarla oltre i capelli rossi e notai che le sue guance avevano ripreso un po’ di colore.

Sebbene si stesse finalmente svegliando, continuai a tenerla tra le braccia per accertarmi che non scivolasse con la testa sott’acqua.

Le sue gambe si stiracchiarono e le sue dita sfiorarono e accarezzarono, inconsapevolmente le mie mani. La lasciai fare piuttosto divertito. Sarebbe stato un risveglio col botto.

Infine, alzò il capo e lo girò a destra e a sinistra, chiaramente spaesata. Non aveva ancora realizzato la mia presenza alle sue spalle.

“Bentornata nel nostro mondo, uccellino” le mormorai all’orecchio.

Un secondo dopo, era schizzata dall’altra parte della vasca, sgusciando via dalla mia presa, e mi fissava inviperita e allibita nello stesso tempo.

“Che diamine ci fai tu qui?” sibilò.

Ghignai mentre il mio sguardo scivolava sul suo corpo in bella vista.

Si accorse di indossare solo il reggiseno e le mutande. Si affrettò a rannicchiarsi ancor di più e a coprirsi come meglio poté con le braccia.

“Perché siamo in una vasca? Perché sono nuda?” mi chiese a raffica “Se stavi cercando di approfittartene, ti giuro che …”.

“Frena la fantasia, rossa” troncai subito “So che impazziresti per uno dei miei tocchi, ma non è questo il caso. Ti ho trovata svenuta nel bosco, eri gelata. Tentavo solo di scaldarti” le spiegai. Mi tirai in piedi, uscii dalla vasca gocciolando per tutto il pavimento e agguantai un asciugamano. Glielo porsi.

Lei lo afferrò un titubante. M’imitò, abbandonando l’acqua diventata ormai tiepida, e si avvolse nella stoffa.

Le sue gambe tremavano ancora; mi avvicinai per aiutarla, ma si scostò bruscamente. Era chiaramente a disagio e non voleva essere toccata.

“Sei sempre così dannatamente cocciuta” l’apostrofai seccato.

Bonnie mi lanciò un’occhiata di fuoco che non sortì certo l’effetto sperato. Voleva trasmettermi il suo fastidio, ma più che altro mi suscitò tenerezza.

Cominciava a risultarmi veramente difficile arrabbiarmi con quella ragazzina; così indifesa nel suo asciugamano bianco, con i capelli rossi per metà bagnati e l’equilibrio ancora instabile.

“Come mi hai trovata?” mi domandò con voce pacata.

“I tuoi amici stavano andando fuori di testa. Blateravano qualcosa riguardo al bosco”.

“E hai deciso di venirmi a cercare?” alzò le sopracciglia scettica “Ma come, Damon, non hai forse detto che io non sono nessuno?”.

Tipico delle donne: rigirati addosso le tue stesse parole in circostante del tutto inappropriate. La mia testa mi suggerì di dissimulare l’irritazione e di giocarmi bene le mie carte. Mi sarebbe bastato mormorare qualche parola dolce per tranquillizzarla e avrei fatto dei passi da gigante nel mio piano di seduzione.

Eppure le cose degenerarono davvero in fretta. Quella piccola peste sapeva mandarmi il sangue al cervello come nessun altro al mondo, neppure mio padre era così bravo.

Le avevo appena salvato la vita e lei doveva per forza comportarsi da acida, da altezzosa, come se il mio gesto non valesse niente in paragone alla sua persona.

“Perché faccio cose stupide, Bonnie*!” esplosi “Come fare il boyscout di notte, in cerca di una ragazzina capricciosa o infradiciarmi i vestiti per tenerla al caldo, dato che è stata così furba da vagare nei boschi senza portarsi dietro qualcosa con cui coprirsi. Idea geniale, tra l’altro, degna di te!” la feci notare rimarcando ancora una volta quanto fosse insignificante “Forse hai ragione, forse avrei davvero dovuto lasciarti là a congelare. A chi mai importerebbe se sparissi?” conclusi con una nota velenosa.

L’avevo colpita nel suo punto più debole e improvvisamente mi sentii un verme. Non mi era mai capitato; normalmente stavo benissimo dopo averla umiliata un po’, ma quella volta mi resi conto di aver oltrepassato il limite.

Bonnie distolse lo sguardo e si morse il labbro “Credo che dovresti andartene”.

“Non potrei essere più d’accordo” risposi impassibile, agguattando le mie scarpe. Me le infilai e uscii veloce come il vento.

Benché avessi desiderato rimangiare le mie stesse parole, non riuscivo a calmare la mia rabbia. Io ero stato uno stronzo, ma lei era solo una mocciosa ingrata e piagnona.

Me la figuravo già a lamentarsi con le sue amiche, a darmi dell’insensibile e della carogna, dimenticandosi ovviamente di raccontare l’altra parte della storia.

Alla fine della fiera, ero sempre io il cattivo, anche quando provavo a comportarmi da eroe. Ma nessuno avrebbe mai conosciuto quel lato di me, perché faceva sempre comodo avere qualcuno da incolpare.

Ogni favola, dopotutto, aveva la sua bestia.

 

Il mio spazio:

Allora, ragazze, parto subito con i ringraziamenti perché sono davvero contentissima della reazione positiva che ha suscitato lo scorso capitolo.

Amo i vostri commenti, davvero! E poi siete state carinissime ad augurarmi buona fortuna per l’esame, quindi grazie tantissimo!!

Che pensate di questo capitolo?

Beh, sicuramente avrete riconosciuto la scena della vasca, la più famosa tra Damon e Bonnie nei libri originali. Mi è sempre piaciuta e volevo rivisitarlo un po’, anche se, ovviamente, quella della Smith è insuperabile.

Come nei libri, anche qui Bonnie non si risveglia pronta a ringraziare Damon, anzi. È molto a disagio per la situazione imbarazzante e un po’ intima, ed è ancora ferita per le parole del ragazzo dello scorso capitolo.

Damon poteva segnare un gran centro e invece si è fatto trasportare ancora dall’impulsività e ha rovinato il momento. Il titolo vuole ovviamente smentire la sua ultima affermazione: il re delle zucche, inteso come il re di Hallowee, colui che ha salvato la situazione, benché Bonnie non sia disposta ad ammetterlo.

Colpa di tutti e due, non c’è dubbio.

Le cose comunque si smuoveranno, ho un paio di idee ma se avete suggerimenti, scrivetemi pure. Se avete una scena in mente e vorreste vederla in questa storia, farò il possibile per accontentarvi, con i dovuti crediti ovviamente =)

Dobbiamo comunque ancora vedere la scena dal punto di vista di Bonnie, nel prossimo capitolo leggeremo anche il suo pensiero.

Poi ho due comunicazioni: mi trovo in un momento davvero produttivo e ho un sacco d’idee in testa, quindi…

-         Settimana prossima pubblicherò quella storia rossa di cui avevo accennato (non mi ricordo più se nelle note di questa ff o di Ashes&Wine). Mi ero ripromessa che l’avrei fatto solo dopo aver concluso tutti e dieci i capitoli e invece ne ho scritti solo tre; ma proprio non riesco a trattenermi. Credo che l’alternerò con questa, così avrò il tempo di scrivere e più o meno tutte le settimane avrete qualcosa.

-         Nei prossimi giorno posterò anche una fanfiction nel fandom della serie tv di TVD, su Damon nel suo periodo buio negli anni ’70. S’intitola "A beast about to strike". Vi lascio sotto l’introduzione. Se vi va, fateci un salto.

Bene, ora vi lascio andare!

Grazie mille ancora a tutti!!

Il banner è sempre di Bumbuni.

Bacioni!

 

*Battuta di Damon, presa dalla 3x21 di TVD.

 

A beast about to strike. Nessuno sano di mente si sarebbe mai addentrato negli anfratti scuri della City quando la luna era alta nel cielo; la notte non era un luogo rassicurante, fatta eccezione per gli ubriachi, per gli sprovveduti e gli squilibrati, e ovviamente per lui.
Non c’era più spazio per i buoni sentimenti, niente più giustizia, niente più compassione, niente più umanità. Non quando le paure aumentavano e la pazzia trovava spazio.
E il vampiro era ben contento dell’appellativo disumano, perché voleva essere considerato un qualcosa di superiore; uno spietato assassino, senza limiti, senza scrupoli; voleva incutere terrore con il suo comportamento inumano.
Per questo adorava passeggiare per i vicoli immersi nelle tenebre e nel silenzio; perché quella era la New York che amava: malvagia, amorale, ambigua, sfacciata e disinibita; la New York che gli calzava a pennello, la New York della notte.
E lui, Damon Salvatore, ne era il padrone indiscusso.

  
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