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Autore: Sueisfine    26/10/2007    1 recensioni
Questa storia è nata per caso, spinta soprattutto dalla mia grandissima ed insaziabile passione per il gruppo musicale The Cure. Mi sono permessa di prendere spunto dalla storia del gruppo, accumulata attraverso interviste, libri, biografie autorizzate etc., negli anni che vanno dal 1981 in poi, per narrare un po' gli avvenimenti dal punto di vista di Robert Smith, leader del gruppo, e Simon Gallup, bassista.
Diverse situazioni sono frutto della mia ( bacata ) immaginazione, però ho cercato e cerco, nei limiti, di dare una certa contestualizzazione al tutto.
DISCLAIMER : Con questo mio racconto, ovviamente scritto e pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo né diffamare né fornire una rappresentazione veritiera dei fatti accaduti, ma semplicemente rivedere il tutto secondo una mia particolare ( condivisibile o meno ) prospettiva.
Buona lettura ;_;
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Chapter Sixteen

~ Closedown

«Ehi».
Una voce dalla porta. Mi stavo giusto sciacquando il viso, poco dopo essere stato pestato da Simon. Ero un ammasso di acciacchi fisici.
Mi voltai, gocciolante d’acqua. Era Phil, Phil Thornalley, il nostro nuovo produttore.
Il volto affilato, l’aria perplessa contornata dalle nere sopracciglia ed i capelli lunghi e scuri tirati dietro le orecchie lo facevano sembrare quasi affascinante.
«Ciao Phil», lo salutai distratto, afferrando un asciugamano e premendolo delicatamente contro i gonfiori del volto.
«Ma, ehi», riprese lui, senza badare al mio saluto, ma anzi scrutandomi da lontano. «Che diamine hai fatto alla faccia ?». Il tono era velato di preoccupazione paterna, nonostante non fosse di molto più vecchio di me. Sentii i suoi passi mentre si avvicinava a controllare la mia pietosa situazione, le sue scarpe da ginnastica che scrosciavano contro la polvere e le gocce d’acqua lasciate cadere da me poco prima sul pavimento. «Mh ?», mugolò, tastandomi con le lunghe dita affusolate le evidenti chiazze rosse sulle guance, «Che significa questo ? Immagino ti faccia anche abbastanza male…».
«Abbiamo litigato», risposi evasivo, «E comunque no, sto bene. Mi sento solo un po’… Indisposto… ? Boh, gonfio, quello sì, senz’altro». Il taglio sul labbro mi stava al momento facendo vedere le stelle per il dolore.
«Abbiamo ?», chiese lui, la perplessità mista al crescente nervosismo, «Abbiamo chi ?».
Abbassai con finta noncuranza lo sguardo sul lavabo. «Simon ed io».
«Oh», commentò, laconico. Ed io erroneamente pensavo che le sue considerazioni fossero finite lì. Riprese però solo dopo avermi esaminato ancora per qualche secondo, gli occhi scuri che sentivo andare su e giù su di me, mentre io mi osservavo minuziosamente allo specchio, controllando le ferite e sistemandomi i capelli in maniera semi-decente. «Cristo Robert, finirete per farmi impazzire di questo passo». Cercava di dimostrarmi il suo disappunto con lo sguardo, che io invece evitavo accuratamente. «E posso sapere almeno il perché di questa geniale improvvisata ?». Si prese il mento tra il pollice e l’indice, in attesa di spiegazioni.
«Ma Phil, tu fai troppe domande», ribattei secco, chiudendo con forza i rubinetti, che emettevano un’irritante perdita.
«Come ?». La sua voce si era alzata di mezzo tono. «No, cioè, voi, che siete i miei musicisti, fate a botte, compromettendo il lavoro di tutti quanti, compromettendo un progetto in cui io ho investito le mie risorse, e mi vieni anche a dire che faccio troppe domande ? Lo considero un po’ fuori luogo, non trovi anche tu ?».
Lo guardai, fissai le pupille muoversi in maniera decisamente indignata, e mi sentii colpevole. Aveva ragione. Lui aveva scommesso su di noi, ed era giusto che noi non lo deludessimo, almeno in apparenza.
«Sì, scusami, hai ragione», ammisi, cercando di apparire cosciente delle mie responsabilità ma al tempo stesso risoluto. «Il problema, Phil, è che sostanzialmente beviamo troppo, e siamo irascibili. O lo diventiamo dopo aver bevuto». Alzai le spalle, in una sorta di rassegnazione. «Cercheremo però di controllarci in futuro, hai la mia parola». Sorrisi leggermente, anche se mi faceva un male cane sollevare gli angoli della bocca in quel modo, stirando così al massimo l’apertura sanguinolenta. Cercai di tener su il mio sorrisetto ebete, mascherando il dolore e risultando, credo, assolutamente poco credibile.
«Mh». Mi stava squadrando, ancora. «Vabbè. Vatti a riposare adesso», disse infine, puntando le sue lunghe dita in analisi al mio stato attuale, «Perché dubito riuscirai a combinare qualcosa così conciato». Poi indicò con gli occhi un punto dietro le mie spalle. «E dubito che anche a Simon sia sbollita del tutto», aggiunse.
Udii sbattere una porta dietro di me, e mi voltai all’istante, riuscendo a scorgere solamente la scia di un cappotto nero che svaniva per le scale, accompagnata dal passo pesante di anfibi frettolosi e dall’ingombrante custodia di un basso.
«Sì… Credo che andrò a casa», conclusi, la voce assente e lo sguardo come sospeso nel punto esatto in cui avevo visto la sottile ombra di Simon sparire.
Phil mi posò una mano sulla spalla, per poi salutarmi, augurandomi buon riposo. Poi passò davanti ai miei occhi, che non riuscivano a distaccarsi dal ricordo scuro di poco prima. Incantato da quell’apparizione e contemporaneamente sconvolto per la sua perdita.
«Un’altra giornata di lavoro andata al diavolo. E siamo già a dicembre inoltrato… !», commentò Phil rientrando nella stanza adibita al gruppo, assicurandosi, con un’occhiata di disappunto nella mia direzione, che avessi udito anche io.

*

«Ma perché non ti decidi a lasciar perdere quei due bambocci una volta per tutte. Non fanno che procurarti grane su grane d’altronde».
Steven se ne stava sdraiato sul mio divano di pelle, fumando languidamente, quasi stesse corteggiando la sua sigaretta, mentre con la mano sinistra penzoloni reggeva un bicchiere con dei rimasugli di gin, che lasciava dondolare a tempo con Suffragette City di David Bowie.
«Ancora con questo discorso Steve». Sbuffai, accasciandomi sulla sedia e guardandolo con la coda dell’occhio mentre si gingillava. Ogni volta che qualcosa con Lol o Simon o chiunque altro andava storto, Steven cercava di portarmi dalla sua parte. “Vieni a suonare coi Banshees, che aspetti !”, “Abbiamo bisogno di un chitarrista eccezionale come te, Rob !”. Non faceva che ripetere lo stesso concetto in milioni di modi diversi. “Susan ed io ti aspettiamo e blabla !”.
«Se suoni con dei mocciosi, babbei oltretutto, non puoi mica prendertela con me, Robert», continuò imperterrito, scolandosi il resto del gin dal bicchiere.
«Ma basta. Simon e Lol non sono dei bambocci. Né tantomeno dei mocciosi. Non li insultare di nuovo o mi incazzo». Lo osservai tirarsi su e mettersi seduto. «E non ho nessuna intenzione di lasciare i Cure, al momento».
«Ma tanto prima o poi cederai, dico bene ?», disse sorridendo, stringendo la cicca tra le labbra rosse, che tanto contrastavano con l’incarnato pallido e il platino dei capelli. Poggiò le mani sulle ginocchia. «Tu e Simon siete due teste calde ai ferri corti», spiegò, col piglio da narratore di documentario. Mi guardò pensieroso. «O meglio, siete due teste calde di nuovo ai ferri corti. Da quando vi conosco non avete mai avuto un periodo tranquillo. E vi conosco da un po’ eh». Sorrise ancora. «Vi sopportate a malapena», continuò, vagando con lo sguardo per la stanza, «C’è talmente tanta tensione… Eppure ti ostini a lavorare insieme a lui !». Appoggiò la schiena ed accavallò le gambe. «Ora, le questioni sono due». Agitò la sigaretta in aria, disegnando strane geometrie con la scia di fumo. «O sei una povera vittima che per amore del suo lavoro sopporta anche le pene dell’inferno», posò il suo sguardo luciferino su di me, «Oppure vuoi vedere fino a dove ti porterà questa strada… Perché in fondo ci provi gusto, e ti piace».
Lo guardai, scettico. «Cosa ne vuoi sapere tu, biondino», lo apostrofai scherzoso. Mi alzai e mi diressi verso la dispensa. La aprii. Avevo fame, sì, ma in casa mia non c’era quasi mai qualcosa di commestibile. Scorsi rapidamente la non troppo varia gamma di cibarie a mia disposizione.
Biscotti. Patatine. Burro di arachidi. Biscotti. Miele. Ancora biscotti. Ancora patatine. Pizzette. Del pane. Mostarda. Di nuovo biscotti. Ma come diamine riuscivo ancora a mantenere il peso-forma ? Milioni di calorie erano posizionate beatamente lì dentro.
Presi in mano una confezione di wafer al cioccolato, e la scartai avidamente. «Vuoi qualcosa da mangiare Steve ?», chiesi piano al mio amico, tutto intento a fissarsi le scarpe.
«Comunque», riprese, ignorando completamente la mia proposta, come se la mia voce avesse ridonato l’input ai suoi pensieri, «Qualunque dei due casi rispecchi la tua situazione, sappi che io, Susan e Bud non aspettiamo altro che averti a bordo». Ecco, di nuovo lo stesso consiglio opprimente, trito e ritrito. Steven era incorreggibile. Sollevò lo sguardo su di me che sgranocchiavo wafer e mi fece l’occhiolino, scuotendo il bicchiere. «Ed ora offri da bere al tuo caro amico Banshee, da bravo».

*

La mia immagine riflessa nello specchio aveva un che di minaccioso.
Mi aveva sempre un po’ spaventato guardarmi. Era… Strano. Non saprei descriverlo con esattezza.
Me ne stavo in piedi, davanti allo specchio del bagno un po’ appannato. Ero appena uscito dalla doccia, e mi sentivo abbastanza rilassato. L’asciugamano stretto intorno alla vita mi procurava un fastidioso senso di costrizione, quindi lo sfilai. Rimasi nudo per un po’ a fissarmi, con la curiosità di chi guarda una persona per la prima volta in vita sua. Attento ad ogni dettaglio.
Mi lasciai cullare per un po’ dalla nebbiolina vaporosa che ammorbidiva l’aria all’interno del bagno. Calore. Sentivo che era calore benefico. Chiusi gli occhi e li riaprii, lentamente.
Di nuovo a scrutare il mio volto, un po’ incavato, troppo pallido. Quasi a detestarlo.
La classica sensazione di inadeguatezza che provavo nell’osservarmi era questa volta accresciuta per via delle guance, ancora goffamente pronunciate. Solitamente mi soffermavo sul mento – provavo un profondo odio nei confronti del mio mento – ma quella volta di andare oltre le rotondità delle guance non mi riusciva.
‘Dannazione’. Mi tastai gli zigomi. Sembravano bruciare al solo contatto con le dita. ‘Quel bastardo ci sa fare a cazzotti’, pensai.
Quel bastardo era, ovviamente, Simon.
Buffo. Non appena lo conobbi, finimmo subito per litigare. Per un motivo tra i più futili ed infantili, oltretutto.
Un pallone sgonfio.
Cioè, il pallone non era sgonfio, l’avevo bucato io. Io avevo bucato il suo pallone. Mi piaceva, non potevo averlo, e così lo bucai. Che stronzo, eh ?
Lui, neanche a dirlo, non si lasciò minimamente mettere i piedi in testa. Ed io ci rimasi abbastanza male, perché una cosa del genere all’epoca non te la saresti mai aspettata da Simon Gallup. Un ragazzino così piccolo e fragile, dai lineamenti quasi femminili, dai modi gentili. Mi picchiò perché avevo bucato il suo pallone. Avevo distrutto con un gesto il suo piccolo mondo. E lui, in tutta risposta, mi picchiò. Me le diede di santa ragione. Così forte che ad un certo punto scoppiammo a piangere entrambi.
Anche io sono un attaccabrighe nato, nonostante il mio aspetto tutt’altro che virile.
A dispetto di tutto, inizio a pensare che io e Simon ci assomigliamo molto.
E, come se si vivesse in un nietzschiano eterno ritorno dell’identico, eccoci di nuovo qui, a fare a botte. Il motivo magari sembrerà ai nostri occhi meno futile paragonato a quello di allora. Ma in fondo anche dieci anni prima un pallone sgonfio appariva come una ragione più che sufficiente per fare a pezzi un altro essere umano. La classica relatività delle cose.
E quel giorno, proprio quel giorno, come tanti anni prima, avevo distrutto il suo piccolo mondo. Ancora. Per l’ennesima volta.
Una fitta allo stomaco. Mi premetti la mano sul ventre nudo. E se questa fosse stata l’ultima volta ? La fine di tutto. È terribile pensare ad una situazione in questi termini. Rendersi conto che la fine può essere dietro l’angolo, aspettarsela da un momento all’altro e non poter, non voler fare nulla per evitarla. Anzi, a dirla tutta a me sembrava quasi di star accelerando la catena di eventi. La conclusione, l’addio. Diversi termini per una sola, unica ed amara sensazione. Mi sembrava quasi di vederlo lì davanti a me il burrone, il dirupo di fronte al quale mi sarei dovuto fermare. Ed avrei dovuto trovare un’altra strada, perché di lì non si poteva più proseguire.
E’ la fine ? Davvero la fine ? Allo stesso modo in cui è iniziata, termina la nostra avventura.
Violentemente. Con ferocia inaudita.
Mi vuoi morto ?
Le sue parole risuonano nella mia testa come una condanna, una maledizione. Non riuscivo a pensare ad altro.
No, certo che non lo volevo morto, che domande assurde, come diavolo ragioni Sim ?, ovvio che non l’avrei voluto morto per alcuna ragione al mondo, più che naturale che non ti avrei mai voluto fare del male, né tantomeno farti soffrire, e per questo mi dispiace Simon, tu lo sai, vero ?, lo sai, tu, che mi dispiace. Lo sai ?
Stavo ancora distrattamente fissando il mio viso pallido allo specchio. Osservai meglio, colto da un’improvvisa curiosità. I capelli. Il mento. Le labbra. I miei occhi guizzavano da un particolare all’altro.
Patetico. Quel pallore accecante tutt’un tratto iniziò a disgustarmi. Presi in mano il contenitore del sapone liquido e lo lanciai in direzione del mio riflesso. Neanche me ne resi conto e la mia immagine si fece a pezzi. Andò in frantumi proprio davanti ai miei occhi guizzanti.
Quello sguardo doveva sparire.
Io dovevo sparire.
Avevo bisogno di una pausa, senza dubbio. Mi passai una mano tra i capelli, realizzando come all’improvviso che era tutto troppo complicato. Ero nel bel mezzo di un gran casino, e non sapevo come uscirne. E proprio in quel casino io ci stavo annegando. Il fiato mi mancava.
Lasciando lo specchio in pezzi, abbandonato al suo triste destino, mi diressi in camera, vestendomi frettolosamente. Presi dall’armadio un borsone nero, ed iniziai a riempirlo di roba. Libri, un blocco note e delle penne. Un mangianastri. Unknown Pleasures dei Joy Division, Astral Weeks di Van Morrison, e qualcosa di Bowie che ora non ricordo. Probabilmente Low.
Sigarette. Anche se non fumavo regolarmente, avrei potuto averne bisogno.
Passai in cucina a prendere una decina di birre, che infilai in un sacchetto di plastica, insieme a due pacchi di biscotti presi a caso dalla dispensa.
Cacciai dentro al borsone anche una bustina di tavolette colorate, portatemi da Steven nel pomeriggio. Ormai era diventato un dosaggio strettamente necessario.
Misi su un paio di scarpe e, senza curarmi troppo del mio aspetto, attraversai a grandi falcate il corridoio, deciso sul da farsi, tenendo nella mano destra il mio misero bagaglio a mano ed afferrando con la sinistra le chiavi di casa sopra la mensola accanto alla porta.
E fu proprio lì che sentii bussare. Rimasi interdetto.
Con un tonfo lasciai cadere borsone e sacchetto a terra.
Aprii e mi ritrovai di fronte l’espressione un po’ stupita ed un po’ spaventata di Lol. Le mani in tasca ed i capelli arruffati. Dietro di lui scorsi le vetrate del palazzo, ed il cielo che si faceva lentamente più scuro.
«Ciao, Lol», dissi, un po’ seccato per questa sua interruzione.
«Oddio Rob, frena l’entusiasmo, per carità», fece lui, con tono ancora più seccato del mio. Poi scorse il borsone accanto ai miei piedi. «Vai da qualche parte per caso ?», chiese, l’aria interrogativa.
«Mh, beh, sì», risposi io, vago, «Prima che tu mi interrompessi, sì, stavo decisamente andando da qualche parte».
Mi guardò, quasi scandalizzato. Come se avessi detto un’eresia.
«Ma senti con che tono rispondi ? Ci credo che Simon poi finisce per picchiarti», commentò acido, puntando gli occhi scuri nei miei.
«Senti Lol, se sei venuto fin qui per farmi la predica, potevi risparmiarti il viaggio», lo ammonii, chinandomi a riprendere il borsone e lanciandolo praticamente sul pianerottolo, poco più in là. Valicai l’arco della porta, costringendo il mio amico a spostarsi, e la chiusi a chiave.
Lui aspettò che avessi chiuso a doppia mandata per riprendere il filo del suo discorso. «Figuriamoci, Robert. E, visto che la mia presenza è cosa poco gradita, me ne vado, tranquillo». Si quietò improvvisamente, voltandosi per tornare da dov’era venuto.
Un piccolo senso di colpa venne a galla dentro di me. «Dai, aspetta un momento», lo richiamai, quasi supplichevole.
Si volse verso di me al terzo scalino sceso, «Facciamo così, Rob. Parleremo quando sarai più calmo, eh ?». Si appoggiò al corrimano. «E comunque ero passato solo per un saluto, dato che non ti sei degnato di rivolgermelo stamattina, quando te ne sei andato dagli studi».
«Scusami Lol, è solo che…». Non sapevo come spiegarmi.
«Solo che cosa ?», chiese lui, apparendo quasi insistente ai miei occhi, quando invece l’unica cosa che aveva sempre voluto era aiutarmi.
Non sapevo come spiegarmi ma, soprattutto, non sapevo cosa, per l’appunto, dover spiegare.
Rinunciai quindi momentaneamente ai chiarimenti. Mi arresi. «Forse ti saprò dire tutto quando sarò più… Calmo, come hai detto tu». Ecco, sì, era proprio il caso. «Ho bisogno di rilassarmi, ho bisogno di staccare, di allontanarmi da tutto e da tutti, di concentrarmi sul mio lavoro ed al tempo stesso di starmene un po’ per conto mio», sputai fuori tutto d’un fiato, nella speranza che lui fosse comprensivo.
E lui capì.
Perché era Lol, e Lol mi capiva. Sempre. «Su, ora vai, non voglio mica trattenerti. Trova te stesso, fai quello che devi fare e poi torna qui». Il tono della sua voce si era fatto più dolce. «Però torna, Rob, e fallo in fretta, mi raccomando. Abbiamo bisogno di te. Se non ci sei siamo un po’ persi, e personalmente non mi vergogno ad ammetterlo». Mi sorrise, e mi sembrò quasi di intravedere una nota lucida nei suoi occhi. Stavo per proferire parola, ringraziandolo ennesimamente per il suo così importante ruolo nella mia vita, quando lui mi fermò col cenno di una mano. «E non temere, ci penso io a Simon. Lui sì che si vergogna ad ammetterlo, invece». Rise di gusto. Poi sospirò, e si incupì. Pensai per un momento a Daphne, sua madre. Questo flash mi riempì di tristezza. «Ci vediamo Rob, stammi bene», e si voltò, proseguendo per le scale.
«Lol». Lo chiamai di nuovo, volevo dirgli grazie, dovevo dirgli grazie.
Lui si fermò nel pianerottolo sottostante, e, anche se le scale erano alquanto in penombra, sentii il suo sguardo su di me. «No, niente ringraziamenti», mi precedette lui, calmo, «Gli amici se ci sono è perché vogliono esserci, nel bene e nel male. Niente ringraziamenti, quindi. A presto, Robert». Udii i suoi piedi continuare la discesa per lui. Poi il portone che sbatte, un paio di piani più sotto.
Rimasi immobile per qualche minuto, al buio, finché non mi decisi ad accendere la luce.
Scesi piano fino in garage, e salii in macchina. Sarei stato via il tempo necessario. A dire la verità non avrei saputo quantificarlo, questo “tempo necessario”. Ed anche lo scopo di questo mio breve viaggio mi era ancora poco chiaro.
Era egoistico questo mio allontanamento, lo sapevo bene, ma volevo far funzionare le cose. Con tutto me stesso. Davvero.
E, mentre premevo l’acceleratore in direzione di Guildford, continuavo a ringraziare Lol dentro di me.
  
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