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Autore: Loda    06/04/2013    3 recensioni
Se non ti guardi allo specchio, non lo vedi che stai piangendo. Ma le lacrime ne hanno anche un altro di riflesso, che è tutto interiore, ed è più crudele di esse stesse, infinitamente.
Si tratta del sangue.
"Non si tratta di essere buoni o cattivi, non si è mai trattato di questo. Ci sono solo epoche da attraversare, scelte da compiere e personalità che crescono. Nessuno vive così poco da non cambiare volto nemmeno una volta"
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ventiquattresimo capitolo

CAPITOLO XXIV
CATENE





In tutta la città –probabilmente in tutto il mondo–non si faceva altro che parlare di quel vampiro donna dai capelli neri che aveva fatto un patto coi cacciatori.

Ad Horfield molte persone si erano ribellate. Erano scese in piazza sotto la luce del sole e avevano urlato che non si poteva operare in quel modo, i vampiri andavano eliminati, non ascoltati. Altri invece sostenavano che, se c’era anche una sola, piccola, possibilità che quello che quel vampiro aveva detto fosse vero, se c’era davvero una piccola speranza che davvero potesse fermare quelle uccisioni e quelle stragi, sempre più frequenti, allora sarebbe stato un delitto non ascoltarlo.
In televisione non facevano altro che parlarne e a Jacque ormai scoppiava la testa.
Uccidere non è abbastanza, Jacque, per definire quello che ho fatto.
Significava qualcosa. Significava qualcosa il fatto che Kaeso fosse così diverso da Jacque. Non potevano aver avuto la stessa creatrice. Acilia doveva essere un’altra, millesettecentocinquant’anni prima…
Un giorno ti dirò cosa ho fatto.
E’ questo che non mi hai mai detto? Me l’avresti mai detto che ho un vampiro fratello? Mi hai mai detto qualcosa di te?
Perché poi avrebbe dovuto dirgli qualcosa? Lo conosceva davvero da poco tempo. Conosceva Dubris da molto più tempo. Scommetto che lui lo sapeva, che lui sapeva tutto. Ma lui, Jacque, era il suo creato, doveva pur valere qualcosa…
Jacque alzò di scatto la testa, nella penombra della sala. Ma certo, pensò, è questo il punto, io sono il suo creato.
Acilia gli diceva che c’era qualcosa di sbagliato nel loro rapporto, loro erano genitore e figlio, ma anche amanti. Lei diceva che non era possibile e Jacque non aveva mai capito il perché. Pensava che fosse una scusa.
Non ti sarai mica innamorato di me, vero?
Perché lei non lo amava.
Ma se avesse voluto solo staccarsi da lui perché aveva già vissuto un’esperienza simile? Cos’era successo tra lei e Kaeso?
C’è stato qualcosa tra loro?
Jacque focalizzò il viso di Acilia, poi quello di Kaeso. Ricordò quando lui era stato a casa loro…
E che cosa voleva il capo del PO da te?!
Quegli occhi di lei, sempre così tristi, che lui non aveva mai compreso.
Minacciarmi.
Era ovvio che ci fosse stato qualcosa.
E poi? Cos’era successo poi? Perché si erano separati?
Il volto di Acilia stava sfumando. I suoi tristi occhi verdi divennero sgranati e rossi, rivoli di sangue che uscivano da essi, dal naso, dalla bocca…
L’ho creato io, sono io che devo distruggerlo!
Avrebbe distrutto un suo creato, quale disperazione doveva avere in corpo, mentre lui, Jacque, non faceva altro che giudicarla, in continuazione.
Serrò le dita delle mani in due pugni. Avrebbe voluto vederla, dirle qualcosa, abbracciarla. Poteva essere l’ultima volta, dannazione! Aveva detto ai cacciatori che avrebbero potuto averla, che pazzia!
Non aveva capito niente quando lei cercava di proteggerlo da quell’affetto che sentiva per Emily e non aveva capito niente neanche adesso. Acilia sacrificava se stessa per salvare l’umanità, ma perché non pensava anche a lui? Perché non si fidava di lui?!
Ma perché era qui? Tu già lo conoscevi, vero?
No, gli aveva detto di no. Forse voleva per l’ennesima volta proteggerlo, o si vergognava. Di cosa puoi vergognarti con me, Aci, pensò Jacque, abbandonando il divano e scivolando sul pavimento della sua casa, di cosa devi vergognarti, io sarò sempre dalla tua parte…
Ci fu un grosso rumore e Jacque non capì immediatamente cosa fosse. Poi vide la porta di casa spalancata, la luce dei lampioni entrata prepotentemente in salotto, insieme a del sangue che già vedeva scintillare sul tappeto. Una ragazza ferita in più punti era sdraiata a terra, tossiva rabbiosamente, e tremava, stringendosi l’addome tra le braccia, come se potesse staccarsi e volare via da un momento all’altro. Eike era affianco a lei, in ginocchio.
Jacque si alzò e corse sui due individui. La donna era Claire.
“Sono andato a cercarla” spiegò Eike, con voce inespressiva “Ma era troppo tardi”.
“Perché l’hai portata qui? Bisogna portarla in ospedale!”gridò Jacque, fissando inorridito i suoi occhi sbarrati e pieni di venature rosse. Gli ricordavano quelli di Acilia e barcollò.
“Non c’è più niente da fare” ribatté Eike, più controllato del suo creatore “E lei voleva venire qui”.
Jacque guardò il corpo di Claire. Perdeva sangue dal collo, dalla pancia e da una coscia. Ne aveva perso troppo? Jacque sapeva che in un corpo umano c’erano circa cinque litri di sangue, un vampiro si sfamava con molto meno, com’era possibile perderne troppo? Com’era possibile non poter fare niente?!
“Voleva… venire qui?” farfugliò.
Ricordava Claire coi capelli e il trucco perfetti. Ora la sua faccia era una maschera impastata di nero e rosso, il mascara colava sulle sue guance, insieme alle lacrime, e sospiri affannosi che le sfuggivano dalla bocca, rossa di sangue o di rossetto, che si sforzava di parlare.“Per… favore”.
Per favore cosa?
Cosa potevano fare loro? Eppure Jacque già sapeva la risposta quando Eike parlò di nuovo.“Dobbiamo trasformarla, è l’unica soluzione”.
Jacque vacillò. Trasformare qualcuno? Di nuovo?
Scosse la testa vigorosamente ed Eike lo guardò furioso. “Lo farò io! Ma mi devi aiutare… Non l’ho mai fatto”.
Perché Jacque si sentiva in dovere di urlare ad Eike di non farlo? Perché aveva una terribile sensazione di deja vu? Un corpo morente, in un lago di sangue, un vampiro deciso, un creatore protettivo…
Non farlo, Jacque. Non donargli un’esistenza a metà! Meglio la morte!
Era una catena illimitata, un ciclo infinito di gente che stava per morire e gente che la trasformava, credendo di salvarla.
Jacque, ti ordino di smetterla!
Ma non gliene era fregato nulla degli ordini, a Jacque, e non si poteva fare niente per spezzare quella catena.
“Me l’ha chiesto lei” insistette Eike “E’ lei che lo vuole!”.
Lo voleva davvero? Tutti gli umani preferiscono qualunque cosa alla morte, ma è perché non lo sanno, non lo capiscono qual è il prezzo da pagare per poter scampare alla morte.
Legge numero trentadue: lasciare sempre una scelta agli umani che non possono essere più tali. Morte o trasformazione.
Era la cosa giusta da fare, secondo Acilia.
“Per favore”piangeva Claire, digrignando i denti per il dolore.
Acilia gridava che avrebbe ucciso Kaeso, stremata e lacera.
Portale rispetto, per una volta…
“Jacque!” gridò Eike.
“Avanti” si riscosse Jacque “Falle bere il tuo sangue”.
Il ragazzino si affrettò ad affondare i denti nel proprio polso per bucarlo. Gocce di sangue si inseguirono sul suo braccio e lui avvicinò il polso alla bocca di Claire. Quella si spalancò in un grido strozzato e accolse al suo interno il sangue, che andò a mischiarsi col suo, che si costrinse a non sputare.
“Basta” disse Jacque dopo poco.
Le fuoriscite di sangue si arrestarono, e Claire smise di contorcere braccia e gambe per il dolore. Rimaneva solo il suo respiro angosciato.
Poi gridò di nuovo, mentre ogni ferita che aveva sul corpo lentamente e dolorosamente si ricuciva.
“Ora la formula”disse Jacque, fissando Claire, provando una strana sensazione.
La formula, Jacque.
Avrebbe voluto che ci fosse anche Acilia, a guardare, a stringergli la mano, come quella volta, quando era toccato ad Eike.
“Non me la ricordo”fece Eike.
“Più il cuore non ti batterà” iniziò Jacque. La sensazione di deja vu divenne fortissima e rivedeva davanti a sé un bambino insanguinato, ucciso crudelmente per strada, che sarebbe per sempre, da quel tragico momento, dipeso da lui.
“Più il cuore non ti batterà” ripeté Eike, annuendo e guardando Claire “Più lacrime non avrai… La fame incalzerà, il sangue verserai…”.S’interruppe. Claire gli aveva afferrato il braccio e glielo stringeva fortissimo, continuando a gridare. Perché provava tutto quel dolore? Le ferite si erano rimarginate, cosa stava succedendo? Eike la guardava con volto scioccato.
“Sposa delle tenebre…” lo incalzò Jacque, trepidante.
“Sposa delle tenebre” fece subito l’altro, con voce più alta, per sovrastare le urla della donna, ma incerta “Nemica della luce, mai ti si chiuderan le palpebre, mai fu più la vita truce…”.
Claire lanciò un urlo straziato di afflizione, battendo un pugno sul pavimento, mentre con l’altra mano stringeva sempre più forte il braccio di Eike. Questi guardava confuso il suo creatore ma neanche lui sapeva cosa stesse capitando. Cercava di ricordare il giorno in cui aveva trasformato Eike… Gli aveva dato il suo sangue ed Eike era guarito… Stava bene… Poi la formula. Acilia diceva che era importante la formula, perché?
“Vai avanti, Eike!”gridò.
“Questa notte morirai” continuò l’altro, sempre più inorridito “Torna al tuo creatore… quando risorgerai!”.
Claire piangeva, le sue gambe non riuscivano a stare immobili, e la formula era terminata.
“Claire! Cosa ti senti?” esclamò Jacque “Dicci cosa…”.
Ma lei si limitava a scuotere la testa, in preda a quello che pareva un immenso dolore.
“Che cosa succede?”fece Eike, agitato “Jacque…E’perché ho esitato a dire la formula?”.
Jacque cercava di ricordare, l’aveva chiesto ad Acilia, gliel’aveva chiesto…
Dubris ha detto che un vampiro senza creatore impazzisce. E’ a questo che servono le parole del rito, non è vero?
Ma Acilia aveva risposto di no. Aveva detto che non esistevano formule magiche e incantesimi.
Dubris ha detto che un vampiro…
Cos’aveva detto Dubris? In quale occasione? Ma certo, il patto del sangue!
“Jacque…”mugolò Eike. Ora la sua mano teneva stretta quella di Claire, che ancora si dibatteva, tra lacrime, sudore e il sangue che le sue ferite avevano qualche minuto prima versato.
Il patto del sangue… Dubris aveva spiegato a Jacque e ad Emily ogni cosa.
Jacque scostò la maglietta, ormai cremisi, di Claire in prossimità della pancia, senza dire niente. La goccia…
Certo, Claire aveva fatto il patto… Cos’aveva detto Dubris?
I primi patti del sangue sono stati un fallimento. Non sapevamo come regolarci con le dosi, e iniettavamo troppo sangue di vampiro nel corpo degli umani.
Claire aveva già del sangue di vampiro nel corpo.
Il sangue che viene utilizzato per questi tatuaggi non è il sangue di nessuno, è una miscela di sangue di vampiro.
Il sangue di nessuno. Di nessuno.
Il sangue di Eike non era altro che un’ennesima goccia di un ennesimo sangue di vampiro – sangue nocivo – che andava nel corpo di Claire.
Che fine hanno fatto questi umani che sono stati trasformati per sbaglio?
Avevano perso la ragione, aveva detto Dubris.
Claire continuava a gridare ed Eike fissava, impotente, agghiacciato, il suo fallimento. Come un aborto, l’avrebbe segnato, per sempre.



“Aci, ma che ti è preso?!” stava esclamando Dubris.

Acilia alzò gli occhi al cielo, e lui si sentì ancora più in collera. Presto sarebbero arrivati gli altri nel luogo dell’appuntamento prestabilito e presto sarebbero partiti per Arcangelo. La notte prima avevano progettato un piano, e due notti ancor prima Acilia aveva avuto la folle idea di parlare coi cacciatori.
“Perché l’hai fatto?” continuò lui, serrando i pugni lungo i fianchi. Poteva permettersi di parlare ad alta voce. In quel bosco lontanoo chilometri e chilometri da qualunque centro abitato non l’avrebbe sentito nessuno.
C’era una brezza leggera che smuoveva i rami verdeggianti e il tempo era umido, ma caldo. Tutto quel buio in cui erano avvolti rendeva il volto di Acilia spettrale, ma Dubris ne vedeva chiaramente l’espressione distaccata e fredda.
“Te l’ho detto”rispose lei dopo un po’ “I cacciatori mi avevano trovata. Sono fuggita ma sono tornata indietro. Se continuavo ad essere una fuggitiva, come avrei fatto a dare la caccia a Kaeso? I cacciatori mi avrebbero solo intralciata”. Il suo tono di voce era innaturalmente calmo.
“Sì, certo” fece Dubris, a denti stretti “Ma che mi dici di quel piccolo dettaglio, superfluo, certo, per cui tu, dopo aver ucciso Kaeso, ti consegneresti a loro per farti uccidere?!”.
Acilia non mosse un solo muscolo facciale.
La sua pelle brillava sotto la luce della luna e delle stelle. Quella pelle si sarebbe spenta, quel volto non ci sarebbe stato più…
Dubris neanche sapeva perché si sentiva così arrabbiato. Acilia non doveva rendere conto a lui di niente. Non aveva alcun legame con lei, e lei era pure più vecchia di lui di cinque secoli!
“Pensavi che altrimenti non ti avrebbero lasciato andare? E’così?” continuò, dato che Acilia non rispondeva“Ma come faranno a prenderti dopo… Tu ora sei libera. Fuggirai dopo, non è vero?”.
Dopo. Quel dopo che Dubris aveva usato, dava per scontato un sacco di cose. Dava per scontato che avrebbero trovato Kaeso, che l’avrebbero ucciso e che entrambi sarebbero stati ancora vivi. Ma non vedeva alternative nel suo futuro e non voleva vederlo un futuro in cui Acilia non c’era più.
“No, Dubris, non ho mentito. Io dopo mi consegnerò a loro” dichiarò lei.
“E si fidano…”. Dubris non ci voleva credere.
“Non avevano altra scelta” continuò la ragazza, guardandolo torvo. Il suo tono di voce si incrinò leggermente mentre aggiungeva: “Lo farò, Dubris, lo farò. Fattene una ragione!”.
Dubris sentì il sangue scalpitare all’interno del proprio corpo.
Farmene una ragione?
Si avvicinò ad Acilia, non riuscendo a trattenere l’impeto dentro di sé che sarebbe sgorgato in fiumi di lacrime, ma che scaturì solo in ira.
“Me ne faccio sempre una ragione. Me ne sono fatto una ragione quando sei piombata tra me e Ramona a dirci come ci dovevamo comportare, me ne sono fatto una ragione quando ci hai abbandonato tutti il secolo scorso, me ne sono fatto una ragione quando hai cominciato a voler scopare senza mostrare il benché minimo sentimento nei miei confronti!”. Aveva alzato la voce, senza accorgersene, e si sentiva così triste.“E ora dovrei accettare come se niente fosse anche il fatto che vuoi morire?!”.
Non si era mai sfogato in quel modo con Acilia, e provò vergogna subito dopo. Abbassò lo sguardo ma subito lo rialzò, per vedere che reazione avesse suscitato in lei. Ma lei lo guardava ancora glacialmente.
“Sì” disse solo.
Dubris non se l’aspettava. Acilia non era mai stata troppo sentimentale, ma così… Che le era successo? Perché voleva morire?!
Non disse niente, perché non sapeva più cosa dire e Acilia continuò: “Non sono fatti tuoi, è una scelta mia, solo mia!”.
Le sue parole furono accolte nel buio e nel silenzio. Dubris non trovava proprio altro da dire. La vergogna lo bloccava e gli annebbiava il cervello, gli annodava la lingua.
Per qualche istante stettero in silenzio e Dubris quasi sospirò di sollievo quando giunsero Ramona, Victoire, Luca e gli altri. Ramona fece un rapido cenno di saluto, senza guardare Acilia. L’altra non sembrò farci caso, continuava a guardare dritto davanti a sé.
L’aria si riempì di tensione e Dubris notò che Victoire lanciava uno sguardo di sottecchi rivolto ad Acilia. Non sembrava convinta.
“Aci”fece, dopo un po’, abbandonando stranamente il suo solito tono sicuro e altezzoso “Sei sicura di volerlo fare?”.
Non sono fatti tuoi, è una scelta mia.
Dubris ricordò di come Victoire sosteneva che Acilia non avrebbe mai potuto partecipare all’operazione, perché lei era la genitrice del nemico.
E’ una scelta mia.
Dubris si chiedeva perché volesse morire…
“Sicurissima”rispose Acilia.
Lui si sporse a guardarla, sperando che lei ricambiasse lo sguardo. Ma non lo faceva.
E’ una scelta mia.
Poi qualcosa si ruppe nell’espressione della ragazza e lei stessa, senza spostare il viso, continuando a tenere lo sguardo fisso di fronte a sé, sussurrò con voce bassissima, rivolta solo a Dubris: “E’ come se fosse mio figlio, Dubris, e lo devo distruggere. Come pensi che potrei ancora vivere dopo averlo fatto?”.
La sua voce si era crepata, così il suo viso, ma lei si ostinava a non volerlo guardare.



Gallia Aquitania, 376


Kaeso grondava sangue dai capelli. Capelli scuri, lucenti, incrostati di sangue e violenza. Con la mano si sistemò, sereno, un ciuffo ribelle e ritrasse poi la mano sanguinante, e la lasciò penzolare lungo il braccio, di fianco alla gamba, come se niente fosse, con quel suo sorriso di sangue, perenne, impresso sul volto. E quel sorriso Acilia non la lasciava mai andare, anche lei aveva impresso quel sorriso sporco e cruento, nella mente. Lo vedeva ovunque e a volte aveva pensato di fuggire, perché la stava facendo impazzire.
Anche tu hai avuto quel sorriso…
Kaeso era diventato lo specchio di lei stessa e guardarlo per lei era diventato un obrobrio insopportabile. E si ritrovava sempre con le mani sporche di sangue, con il sangue di qualche vittima nella bocca, e la bocca abbracciata a quello di Kaeso, in un continuo scambio e flusso di sangue.
Guardarlo era come guardare la realtà, ciò che lei aveva fatto, ciò che era e e lei a volte aveva il terribile desiderio di distruggerlo, perché aveva come l’impressione che, se l’avesse fatto, avrebbe ucciso anche quella parte così malsana che era dentro di lei.
Ma la spaventava. Kaeso era diventato la verità e la verità la spaventava.
“Aci” fece lui, curvandosi su di lei “Perché non sei venuta a caccia con me?”.
Le stampò un bacio in fronte e lei sentì subito il sangue colarle sugli occhi. Si mise le mani in faccia e si pulì frettolosamente.
Kaeso la guardò stranito. “Non ti piace più il sangue?”. Subito dopo rise.
Il sangue, certo che le piaceva. Era qualcos’altro che non le piaceva, che non le piaceva più…
“Sì”rispose lei, accovacciandosi per terra e abbassando lo sguardo. Se ne sentiva ancora l’odore in quella casa. I proprietari di quell’abitazione dovevano essere molto ricchi, erano stati trucidati dai barbari, che stavano invadendo l’Impero, da tutte le parti. Goti, o forse Unni…
I barbari sono persone, i veri barbari siamo noi.
L’Impero si era diviso, al potere non si capiva neanche più chi ci fosse. Nella sua testa, Acilia non sapeva più cosa ci fosse…
Distruggere.
La guerra… Barbari contro romani, cristiani contro pagani, vampiri contro umani.
“Meno male” rispose Kaeso “Perché ti ho portato la cena”.
Non ha alcun senso.
Acilia alzò di scatto la testa e vide che Kaeso stava trascinando dentro la stanza qualcuno che era rimasto fuori dalla soglia ad aspettare. Una persona, certo… Strano, Acilia neanche ne aveva sentito i vagiti, o il pianto, o le urla. Quelle che le piacevano, quelle dei bambini…
Quelle dei bambini non le erano piaciute.
Le risuonavano ancora nelle orecchie, con il fiume di sangue, il blu delll’acqua, che era negli occhi di Kaeso, e il rosso, innaturale, che era nella sua bocca. Da allora non sopportava più di sentir gridare le vittime.
Quello che Kaeso aveva portato dentro la stanza era un ragazzino in piena pubertà. Gli mancava una gamba, così non poteva fuggire. Che cosa orribile, pensò Acilia, non sarebbe potuto fuggire comunque. Kaeso gliel’aveva troncata solo per divertirsi.
La tunica era insanguinata ma la fuoriuscita di sangue dalla gamba era stata fermata con delle stoffe.
“Non volevo mica che morisse prima del tempo” spiegò Kaeso.
Il ragazzino aveva gli occhi intrisi di lacrime, ma le labbra erano di poco scostate l’un labbro dall’altro. Emetteva suoni bassi, gutturali, e Acilia aggrottò la fronte, poi notò che quelle labbra, e anche il mento del ragazzo, erano imbrattati di sangue.
Kaeso, tenendo fermo il ragazzo, rivolse ad Acilia uno sguardo dolce.“Non ti piace più che gli umani urlino troppo, e allora li uccidi subito. Gli ho tagliato la lingua, così potrai giocarci finché vorrai”.
Acilia rabbrividì. Non si gioca col cibo, pensò.
Un gioco? Mi piacciono i giochi!
Cercare i bambini nascosti nel bosco… trovarne più possibile, uccidernepiù possibile…
Kaeso spinse il ragazzo e quello, con un goffo saltello, cadde e finì addosso ad Acilia, che si ritrasse un poco.
Il ragazzino, seduto e poggiando il peso del corpo sulle braccia, cercò di indietreggiare, con la paura più folle negli occhi, sgranati e piangenti, spargendo con la voce suoni più forti, ma comunque sordi.
Acilia guardò Kaeso, poi abbassò di nuovo lo sguardo.“Sono io che ti ho ridotto così…”sussurrò.

I ricordi si facevano confusi, annebbiati, colorati di rosso. Quello che lui aveva detto, era meglio non ricordarlo. Lui era malvagio, e lei lo doveva uccidere. Non doveva ricordare, non doveva pentirsi.
Doveva solo ragionare a mente fredda, ripetersi che Viridio non abitava più quel corpo da tempo, ed eliminarlo.
In verità l’aveva già fatto, solo che questa volta sarebbe stato per sempre.

Kaeso era a terra, poggiato sulle ginocchia. Si guardava le mani, che continuavano a colare sangue, incessantemente.
“Sono io che ti ho ridotto così” sussurrò di nuovo Acilia, avvertendo il tremito del ragazzino di fianco a sé. Continuava a mugugnare, sforzando la gola. Era come se urlasse, e Acilia non lo sopportava.
Lo ignorò e si sforzò di guardare Kaeso negli occhi.
“Il giorno che ci siamo conosciuti” disse “ti sei presentato a me con un altro nome… Qual era? Che nome era?”.
Kaeso si era di nuovo oscurato in faccia, e la guardava di nuovo col sangue tra i denti.
“Non ho altri nomi che Kaeso”. Si alzò da terra, con l’aria di chi non sapeva come ci fosse finito, a terra.
Il ragazzino vociava sempre più forte, atterrito. Acilia, presa da una rabbia funesta, si voltò a guardarlo. Gli occhi sembravano così innaturali, troppo grandi, col bianco che dominava mentre il resto non era che un pallino ristretto, sgorganti pianto.
Non gioco più con gli umani.
Senza neanche pensarci, scattò su di lui e affondò i denti nella sua gola. Quello si dimenò ma presto la quiete morte prese il sopravvento su di lui, e lui smise di soffrire.
Acilia, il ragazzo tra le braccia, si voltò di nuovo verso Kaeso, che la osservava con occhi impassibili.
“Ti devi svegliare” disse con voce flebile. Cercò dentro di sé il coraggio e parlò più forte: “Ti devi svegliare… Kaeso, ti devi svegliare!”.
Lui spalancò leggermente gli occhi, per un attimo, poi quelli tornarono freddi, la bocca si espanse in un piccolo ghigno e lui le diede le spalle.




Era notte fonda. Quel vecchio edificio come al solito era avvolto nel buio, senza alcun lampione intorno. D’altronde sarebbe stato uno spreco, non abitava nessuno in quel quartiere di Arcangelo. E i vampiri non avevano certo bisogno della luce per vederci.

I vampiri…
Gerasim lanciò lo sguardo là nel buio. Sarebbe dovuto tornare a casa, lo sapeva, ma si sentiva elettrizzato, dalla paura stessa.
Yan lo tirò per una manica: “Ger, che fai? Andiamo a casa”.
Erano stati a bere in un locale con degli amici, che li avevano già salutati. Molti si rintanavano in casa quando il sole tramontava, ma non loro. Gerasim, Yan e gli altri non ne volevano sapere di rinunciare alle loro serate per degli stupidi morti che camminano. Andavano in giro armati, e si fermavano nei locali, sempre vuoti, ma aperti per loro. Era rigenerante, li faceva sentire potenti.
“L’hai mai visto un vampiro, Yan?” fece Gerasim, continuando a guardare verso il buio. L’ultimo lampione acceso era quello proprio sopra la sua testa.
Yan sospirò e lo tirò ancora per la manica della giacca.“Non farti venire strane idee, hai bevuto troppo tu”.
Gerasim si strattonò e guardò l’amico con una luce violenta negli occhi, rincarata da quella del lampione sopra di loro. “Io ne voglio vedere uno!”. Mostrò il fucile caricato con proiettili di legno, compiaciuto. “E magari ucciderlo”.
“Lasciale fare ai cacciatori queste cose” ribatté Yan, brusco.
“Hai paura, non è così?” fece Gerasim.
“L’avresti anche tu se non ti fossi bevuto tutta quella birra!” esclamò l’altro.
Gerasim scoppiò a ridere, ilare, guadagnandosi una spinta dall’amico.
“Sei proprio un idiota, Ger, ci stavo cascando!”.
Yan, visibilmente sollevato, si portò le mani alla testa, portando dietro i capelli biondo cenere.
“Dai, andiamo”sghignazzò Gerasim.
Entrambi si avviarono verso il centro della città, lasciandosi alle spalle quel misterioso angolo buio.
Gerasim trovava divertente spaventare e prendere in giro i suoi amici. Un vampiro l’avrebbe voluto vedere davvero, prima o poi. Sì, probabilmente aveva bevuto troppo, i pensieri vagavano piuttosto liberi, in un flusso poco sensato. Dopotutto, se non avesse bevuto, probabilmente non avrebbe mai accettato di fare quello che stava per fare.
Ma già non sentiva più i passi di Yan accanto ai suoi, e poi sentì un grido.
Si voltò di scatto e vide che una donna stava tenendo stretto tra le braccia il suo amico che, spaesato, continuava a gridare.
Ecco, pensò Gerasim, agghiacciato. La donna aveva una minigonna e tacchi alti, un bel viso ma un’espressione poco amichevole. Nel buio, la sua chioma bionda sfavillava. E anche la sua pelle…
Gerasim si affrettò a puntarle il fucile addosso, cercando di stare calmo. I suoi pensieri si fecero ancora più strani, spaventati e poco razionali, mentre le gambe avevano preso a tremare. No, questo non era l’alcol. E la testa gli girava un poco… No, devo avere mira, devo avere mira, pensò disperato il ragazzo.
“Non mi puoi sparare” fece la donna, da dietro Yan, con le zanne in fuori, appoggiate al collo del ragazzo “senza colpire il tuo amico”.
Gerasim sudava freddo. Ne valeva la pena? Ne valeva davvero la pena?!
Poi, finalmente, qualcosa vibrò nell’aria e ci furono suoni confusi. Gerasim non era riuscito a vedere niente, e poi Yan finì a terra e il vampiro donna si trovò accerchiata da sei figure nere, con mantelli e passamontagna. Ciascuna le puntava addosso un’arma e quella, braccata e spaesata, levò le mani in alto.
Gerasim si era precipitato sull’amico e lo stava aiutando a rialzarsi.
“Come stai?” gli domandò.
Quello, completamente bianco in volto, si tastò il collo e ritrasse un indice sporco di una goccia di sangue.
“Aiuto… Ger, quella era… e quelli… chi…”. Atterrito, dopo aver visto la morte in faccia, sembrava non avere più voce.
“Ehi”fece subito Gerasim, posandogli una mano sulla spalla“Tranquillo, loro non ci faranno del male…”.
“Li conosci?!”sbottò l’altro, ritrovando la voce.
“Ora basta” fece una voce femminile, piuttosto infastidita. Una delle figure abbandonò la preda e avanzò verso i due ragazzi. Nella mano destra stringeva una pistola, nella sinistra una valigetta nera.
“Qui ci sono i vostri soldi” disse, tendendo la valigia verso Gerasim “Spartiteveli”.
Yan era a bocca aperta e Gerasim, con uno slancio di sollievo e avidità, afferrò la valigetta e l’aprì subito. Era certo che i suoi occhi brilassero, davanti a tutti quei soldi.
“Tu…Tu…”fece Yan, allibito “Tu non mi hai detto niente!”. La paura stava cedendo spazio alla rabbia.
Gerasim tentò di apparire rassicurante. Era ovvio che Yan si fosse arrabbiato, era preparato a questo.
“Hai messo a repentaglio la mia vita!” urlò ancora Yan, indicandosi il collo.
“Quelli volevano catturare un vampiro” spiegò Gerasim, in fretta “Sarebbero intervenuti prima che ti accadesse qualcosa, e così è stato”.

“Guarda!” gridò ancora l’altro, continuando a indicare il proprio collo.
“Ragazzino”disse la donna in tono severo, della quale i due ragazzi potevano vedere solo gli occhi, verdissimi “Non sai che un morso di vampiro che non ti prosciughi il sangue né ti uccide né ti trasforma? Figuriamoci quel graffio”.
Yan parve leggermente confortato, poi diede un’occhiata alla valigetta che Gerasim teneva in mano.
“A me spetta più della metà” disse, in tono nervoso.
“Ehi, ma…”.
“Prendete i soldi e sparite!” disse ancora la donna, alzando la voce.
Gerasim e Yan si lanciarono uno sguardo. Era meglio filarsela. Il vampiro donna che quegli sconosciuti avevano catturato li stava guardando in cagnesco, e aveva cominciato a urlare per chiedere rinforzi. Che rinforzi?
Gerasim annuì e, la valigetta stretta a sé, si mise a correre verso il centro, e Yan con lui, riuscendo però a captare l’ultima, strana, frase che quella donna dagli occhi verdi rivolgeva ai compagni.
“Forza, qualcuno prenda Svetlana e voliamo via. Non vorremmo mica scatenare una battaglia qui, no?”.



Claire era morta, cosparsa di sangue e avvolta nel sangue.
Aveva gli occhi ancora aperti, vitrei, e ancora qualche lacrima appesa alle ciglia.
Eike, chino su di lei, allungò una mano per chiuderglieli. “Cosa succederà tra una settimana?”domandò dopo poco“Come si risveglierà?”.
“Non lo so” rispose Jacque, sincero. Non sapeva cosa dire ad Eike e non sapeva nemmeno cosa fare, o cosa avrebbe fatto, una settimana dopo. Avrebbero dovuto lasciarla morire, Claire, morire davvero, morire in maniera naturale! E invece…
Ecco cos’avrebbe dovuto interrompere quella catena: una trasformazione sbagliata.
Eike non riusciva a distogliere lo sguardo dal corpo di Claire. Aveva la gambe magre e lunghe, un’espressione serena, una ragazza normale, perché perdeva tempo con loro? Perché aveva voluto fare quel maledetto patto del sangue? Jacque si domandava tante cose, chissà Eike a cosa pensava. I suoi occhi erano impassibili come sempre, spenti come quando aveva realizzato che non sarebbe più cresciuto. Sembrava tanto forte, Eike, con la sua lingua schietta e la sua mente vivace, ma era piccolo, e la verità, quella lo annientava sempre.
“Eike…” provò Jacque, ma si fermò, vedendo che il ragazzino stava scuotendo la testa.
Ancora qualche attimo e quello si alzò. “Dobbiamo seppellirla?”.
“Possiamo tenerla nello scantinato” disse Jacque, non pensando che potesse essere una cosa piuttosto macabra. Voleva solo risparmiare ad Eike la fatica di scavare una buca e il dolore di pensare al futuro.
“Dobbiamo ucciderla?” domandò ancora Eike.
Jacque aggrottò la fronte. “Non possiamo”.
“Se le ficchiamo un pacchetto nel cuore, non si trasformerà” continuò l’altro.
Jacque cominciava a capire. “Vuoi che non si trasformi?”.
Eike teneva lo sguardo basso. “Non voglio doverla uccidere quando si risveglierà. Non voglio che soffra ancora”.
Jacque si strinse nelle spalle. Nonostante fosse abituato alla morte e all’orrore, guardando il corpo di Claire, morta così inutilmente, senza motivo, si sentiva intristito.
“Quando si sveglierà potrebbe non essere più lei” disse, riflettendo “Ma potrebbe anche esserlo ancora, in qualche modo, non possiamo saperlo”.
Qual era la cosa giusta da fare? Perché non riusciva a dare ad Eike delle certezze? Mai, non l’aveva mai fatto, tutto ciò sapeva fare era dipendere da Acilia…
“Dovremmo chiedere consiglio ad Acilia o a Dubris” ammise infine, con uno sforzo.
“Oh sì” sbottò Eike“Hanno molto tempo libero in questo periodo”. Non c’era traccia di ironia nella sua voce, ma solo un arrabbiato sarcasmo.
“Seppelliamola”sentenziò Jacque, ignorando il pensiero di Acilia “Quando sarà finita questa storia ci consulteremo con loro”.
L’altro alzò lo sguardo su di lui, uno sguardo pungente, e Jacque, per qualche motivo, si sentì in colpa.
“Aci finirà uccisa o da Kaeso o dai cacciatori, ecco come finirà questa storia”.
Acilia si voleva consegnare, era questa la verità, Jacque non doveva dimenticarla.
Eike vacillava di fronte alla verità, ma lui non era da meno. Erano qualcosa di più degli umani, qualcosa che si avvicinava un poco di più alla verità ma entrambi, in confronto alla terribile verità che li osservava dall’alto, non erano niente.
Jacque scosse la testa, stringendo gli occhi e guardando da un’altra parte. “Non potresti essere un po’ più ottimista?”.
Non ottenne risposta e ripuntò lo sguardo su Eike. Quello aveva di nuovo lo sguardo chino su Claire, intriso di cotanta tristezza, che però Jacque non riusciva a condividere, a ridosso com’era di un altro baratro.
“Non potresti fare uno sforzo?” continuò, con rabbia impastata di dolore “Non potresti crederci?!”.
Ancora fu come se avesse parlato al vento, e dopo aver lungo osservato Eike che trascinava il corpo di Claire, in una striscia di sangue, per l’ingresso fino alla porta sul retro, avanzò verso di lui, per dargli una mano.



Svetlana, seminuda, era legata ad una colonna con tre grosse catene d’argento. Indossava solo il vestiario intimo, in maniera che la pelle nuda soffrisse ancora di più, sotto la tortura dell’argento. Le ferite continuavano ad allargarsi e le gocce di sangue si inseguivano, cadendo l’una sull’altra, estendendo le piccole pozze sul pavimento.

Una quarta catena, più sottile, le cingeva la testa, attraversandole la bocca aperta e urlante. I denti parevano marcire e le labbra parevano sciogliersi in sangue.
“Non è necessario tutto questo” osservò Ramona, gli occhi puntati sulla scena nauseante.
“E’ la figlia di Kaeso” fece Dubris, per nulla risentito.
Acilia era fuori, a montare la guardia insieme agli altri. Non aveva voluto gestire lei la tortura e l’interrogatorio, il richiamo del sangue era forte solo tra creatore e creato ma, del resto, Svetlana era pur sempre come una nipote per lei. Invece Dubris aveva accolto il compito a braccia aperta. Ricordava ancora quella strage avvenuta in Inghilterra, alla veglia funebre di un pover uomo, organizzata dalla sua povera moglie. E c’era quella donna, dai capelli fulvi, con la sua bambina… E c’era Dubris che non aveva potuto fare niente per salvarle, mentre Kaeso e Svetlana se ne andavano lontani.
“E che colpa ne ha lei?” insistette Ramona.
Dubris sentiva la rabbia galoppare. Stragi di umani, la crudeltà di Kaeso, Acilia che lo aveva sempre rifiutato e che lo avrebbe definitivamente abbandonato, la morte di Lyuben, il senso di colpa nei confronti di Ramona… Sì, avrebbe sfogato tutta la sua rabbia, e se non poteva farlo su Kaeso, l’avrebbe fatto sulla sua creata. Lui avrebbe comunque sofferto.
“Non tirare fuori quella scusa. Non dire che è sempre tutta colpa di come veniamo creati e da chi veniamo creati” sbottò Dubris “Io non sono stato creato da nessuno”.
“Ma hai incontrato Acilia”.
Già, Acilia.
Dubris guardò gli occhi di Svetlana, sgranati dal dolore. Erano rossi ma erano diversi dagli occhi sofferenti e disperati che Acilia aveva, quando era in catene davanti ai cacciatori. Quelli erano occhi pazzi, in cui bruciavano le fiamme della scelleratezza, e mai del rimorso.
Urlava, come aveva urlato lui, solo, il giorno del suo risveglio…Gridava il nome di sua moglie, la cercava, la chiamava… Ma il posto in cui si era risvegliato non era casa sua, né tantomeno la sua patria.
Aveva scoperto che il sole gli bruciava la pelle, e aveva urlato, aveva scoperto che non riusciva più a mangiare niente, aveva scoperto che si nutriva di persone, del loro sangue, e aveva scoperto che allora lui non lo era più, umano, e aveva urlato. Non l’aveva più rivista, la sua casa. Quando era riuscito a tornare in Inghilterra, non ne era rimasto più niente. La sua casa era stata bruciata e, del resto, forse, era stato meglio così.
“Non ero come lei”disse, riemergendo dai ricordi e accennando a Svetlana “Anche se non sapevo niente, anche se non sapevo come controllarmi… Non sono mai stato come lei”.
Continuava a fissarla, sentendo accendere il proprio sangue in faville di ira. Non voleva scostare lo sguardo, non voleva guardare il volto pacato e segnato dalla solitudine di Ramona, che l’avrebbe acquietato, cosicché la sua rabbia non avrebbe più trovato un’uscita.
Aveva più volte cercato di ricordare come fosse fatto il suo creatore. Ma l’ultima cosa che ricordava era che tornava a casa, stanco e spossato… Nulla. Chi l’aveva creato doveva averlo incantato, mentre lo faceva. E chissà se aveva pronunciato il rito.
“Ramona, esci”disse, stringendo la scheggia d’argento che aveva nella mano rivestita di un guanto molto spesso “Ora la farò parlare”.
“Non vuoi che io assista? Cosa le vuoi fare?” ribatté la voce di Ramona.
Dubris si voltò finalmente a guardarla, risoluto, e cercando di trasmetterle con la sola forza degli occhi, e del sangue, il suo rancore.
“E’ la figlia di colui che ha ucciso Lyuben”.
Ramona incurvò lievemente le sopracciglia verso l’alto.
“La vendetta non porta a niente, solo ad altra vendetta, in una catena infinita di odio”.
Dubris alzò gli occhi al cielo, incredulo. “Mi vuoi forse dire che hai perdonato Kaeso?”.
“Non cercare vendetta non significa perdonare!” replicò Ramona, alzando la voce, forse per sovrastare i mugolii di Svetlana, che continuava a cadere a pezzi, o forse perché era davvero arrabbiata.
L’altro forse comprese, ma voleva chiedere una cosa alla sua creata. E glielo chiese senza traccia di ira. “E Acilia, l’hai perdonata?”.
Ramona ebbe un fremito. Infine, deviò la domanda e disse: “Non vorrei che si consegnasse davvero ai cacciatori”.
Dubris immaginò che equivalesse a un sì, perché se non c’era odio, allora c’era perdono, per lui.
“Voglio solo farla parlare” sentenziò “Ora esci”.
Ramona non replicò e, rassegnata, uscì dalla stanza.
Dubris si voltò immediatamente verso Svetlana. Le guance, ormai talmente scarne da far intravedere le ossa, esalavano fumo e sangue, gli occhi sembrava piangessero, ma quelle che buttavano fuori erano solo lacrime di sangue e la bocca, che cercava incessantemente di spingere via l’argento da sé, non aveva più labbra. Il corpo bruciava e fumava, l’intimo che Svetlana indossava era completamente insudiciato di sangue e pelle, che cadevano insieme, in gocce e brandelli.
La donna emetteva grida sempre più sommesse, ma, in qualche modo, sempre più laceranti.
Dubris poggiò il pezzo di argento che aveva in mano su una vecchia scrivania e si avvicinò Svetlana e, con uno scatto aggressivo, le strappò la catena d’argento dalla bocca, facendole sbattere violentemente la testa contro la colonna di legno a cui era legata.
Quella, liberata la bocca, diede libero sfogo al suo dolore e gridò fortissimo, un urlo che però aveva un qualche, fastidioso, suono di sollievo.
Dubris, con la mano libera estrasse dalla tasca dei pantaloni uno specchietto rosa. L’aveva trovato nella borsa della prigioniera.
Lo aprì e mostrò il lato fornito di specchio al volto di lei.
“Guardati”.
Svetlana provò a sibilare qualcosa, stancamente. Ma l’assenza di labbra e la lingua bruciata le impedivano di articolare qualunque suono.
Dubris ghignò, senza abbassare lo specchietto. “Non ho fretta. Aspetterò che la lingua ti ricresca, così potrai dirmi tutto quello che voglio”.
Per tutta risposta Svetlana grugnì qualcosa, lanciandogli uno sguardo d’odio. Gli occhi erano ancora rossi, e lo sarebbero stati ancora per molto tempo.
“Oh, e se ti rifiuterai di parlare, ti rimetterò in bocca questa” continuò Dubris, sollevando la catena annerita e sporca “E poi te la toglierò ancora, e aspetterò che ti ricresca la lingua. Così finché non parlerai”.
Buttò la catena per terra, avvertendo un formicolio alla mano, seppur protetta daun guanto.
Svetlana riprese ad urlare di dolore, mentre nascevano sulle sue guance nuovi strati di pelle.
Passarono diversi minuti prima che un accenno di labbra le venisse disegnato sul volto e, dopo altrettanto tempo, tra urla sempre più forti, lei poté parlare.
“Cosa… vuoi” esalò.
Dubris nel frattempo si era seduto sulla scrivania, giocherellando con la scheggia d’argento. Fu piacevolmente sorpreso quando la voce di Svetlana lo raggiunse.
“Oh, ti rigeneri in fretta” disse, compiaciuto “Tipico di voi giovani. Vi scomponete lentamente e vi rigenerate in un lampo… Ah, beata gioventù!”. Si alzò e con un solo balzo fu vicinissimo al viso di Svetlana, ancora rigato da strisce di sangue.“Chissà quanto deve essere doloroso per voi… morire”.
Svetlana gli sputò addosso del sangue.
Dubris rimase un attimo interdetto, poi, con un risolino, si pulì il naso.
“Perché non finisci questa pagliacciata e mi uccidi, visto che ci tieni tanto?” biascicò Svetlana, con voce bassa.
“No, non voglio ucciderti” ribatté l’altro “Voglio solo che tu mi dica dove possiamo trovare Kaeso”.
“Anche se te lo dicessi, poi mi uccideresti comunque” sibilò la prigioniera, sputacchiando ancora sangue.
Dubris rise. “Credi davvero di essere un tale pericolo da dover essere uccisa così?”.
Svetlana non rispose. I capelli biondissimi avevano perso parte della loro luminosità e le cadevano sulla faccia, e lungo il corpo, impiastricciandosi di sangue.
“Rimarrai nostra prigioniera finché non avremo ucciso Kaeso, poi ti lasceremo andare” continuò Dubris “Credimi, quando questa storia sarà finita, se farai di nuovo qualcosa contro la legge, ti ritroverei subito”. Le si era avvicinato con sguardo convincente e con una mano le sfiorò le mutande e lei ebbe un tremito. Continuava a lacrimare e a sudare sangue, e a respirare fiocamente, ma non gridava più.
Dubris le guardò a lungo il corpo. “Sarebbe proprio uno spreco ucciderti, non costringermi a farlo”.
“E la vendetta di cui parlavi?” fece la donna, lievemente acquietata.
“La tortura”rispose l’altro, avvicinando il viso e comprimendole il corpo col proprio.“Lenta, e atroce”sussurrò con voce dolce.
Si allontanò, con i vestiti un po’ macchiati e andò verso la scrivania, mentre Svetlana, agitandosi, gridava: “Pensi sul serio che io tradirei il mio creatore?”.
Dubris afferrò il pezzo d’argento e in un lampo le fu addosso. Con una mano le stringeva la spalla, con l’altra le conficcava nell’occhio sinistro un estremo della sua arma. Lei gridò spaventosamente, mentre l’occhio si scioglieva, in una grande quantità di fumo e sangue che colava copioso, in un elettrizzante fetore di bruciato.
“Ti decidi a parlare?!” abbaiò Dubris, spingendo sempre più in profondità “La tortura è di gran lunga peggiore della morte, quanto resisterai?!”. Aveva urlato per sovrastare la grida di Svetlana, ma anche perché la rabbia e la fretta stavano prendendo il sopravvento su di lui. Estrasse di scatto l’argento dall’occhio di lei e rimase a guardare, senza l’ombra di un ghigno o di un sorriso, quel buco pieno di liquido rosso, con la pelle che si accartocciava su se stessa.
“Sono pronto a rimetterti la catena in bocca” sbottò.
“Kaeso…”esalò Svetlana, la testa piegata sulla sinistra“Kaeso…verrà a salvarmi…”.
“Sei una cretina!”gridò Dubris “ A quello non gliene frega niente di te! Dimmi dov’è!”.
“So bene che lui non ha amore da darmi” continuò a biascicare l’altra, con un torrente di sangue sulla guancia sinistra“Del resto, io non ne ho per lui…”.
La sua voce era debole, il suo corpo tremava e dalla sua espressione sembrava che non potesse davvero sopportare altro.
“Se ti dico dov’è la sua casa… mi lascerai andare?”.
Dubris si placò, soddisfatto.“Non posso lasciarti andare, perché potresti correre ad avvisare Kaeso”.
Svetlana non aveva la forza per scuotere la testa, ma i suoi capelli oscillarono lo stesso, con un gemito per la fatica. “Sono giovane, l’hai detto anche tu… Voi siete più veloci di me, voi potete volare”.
Dubris esitò. Ma il tempo scorreva. “D’accordo allora, ti lascerò andare. Ora parla”.
Svetlana sospirò.“E’ una grande villa, completamente di legno. E’ isolata, a parecchi metri di altitudine”.
“Dov’è?” insistette l’altro.
La prigioniera attese qualche attimo, poi disse: “Zofingen, in Svizzera”.
Dubris annuì, poi si diresse per l’ennesima volta verso la scrivania, dove poggiò la scheggia d’argento. Si tolse i guanti e li pose nelle tasche dei pantaloni.
“Ehi” fece la voce di Svetlana “Ora mi devi liberare”.
Lui le fece cenno di attendere. In una mano prese la borsa della donna e con l’altra impugnò la sua pistola, entrambe dalla superficie della scrivania.
Si voltò verso la prigioniera, che lo guardava confusa. Il bulbo oculare sinistro si stava riformando e la scena stava diventando sempre più raccapricciante. L’altro occhio era sgranato e le labbra, ora perfette, scostate un poco, in un piccolo grido muto.
La vendetta non porta niente, solo ad altra vendetta, in una catena infinita di odio.
Dubris alzò la pistola, puntando dritto al cuore. “Mi hai mentito. Dimmi dov’è Kaeso”.
Svetlana parve incredula. “Non ho mentito!” gridò.
“Dimmi subito la verità, o sparo” disse lui, in tono deciso.
“E’la verità! Ti ho detto la verità, cosa vuoi da me?!”urlava l’altra, disperata, sputando grumi di sangue.
Dubris sbuffò. Non ne poteva davvero più.
La vendetta non porta niente, solo ad altra vendetta…
Sparò.
L’espressione, di dolore e di urlo, che Svetlana aveva in volto rimase fissa per un momento, come se fosse una foto. E poi l’intero suo corpo esplose in sangue, finalmente libero dalle catene.
Dubris si affrettò ad uscire dalla casa, infilando la pistola nella cinghia dei pantaloni, e tenendo salda la borsa della morta per il manico.
Varcata la soglia, la luce delle stelle di quella serena notte lo raggiunse insieme a un belare. Accanto al recinto delle pecore, stavano i suoi compagni, che lo fissavano sbigottiti. Evidentemente avevano sentito lo sparo.
“Le ho dato l’opportunità di dirci dove trovare Kaeso, ma non me l’ha voluto dire” si giustificò lui.
“E l’hai uccisa?”fece Victoire, incredula “E ora come facciamo a…”.
“E’a Gressan, in provincia di Aosta” la interruppe lui, con un sorrisetto. Sollevò la borsa di Svetlana. “Aveva il navigatore acceso, che segnava proprio quella località. Non aveva un grande senso dell’orientamento, la piccola rampolla di Kaeso”.
“Oh” disse l’altra, un po’ sorpresa.
Dubris cercò lo sguardo di Acilia. Lei ricambiava, ma non aveva alcuna espressione.
Ti dispiace che io abbia ucciso Svetlana?
“Che bisogno c’era allora di torturarla e di ucciderla?” se ne uscì Ramona, visibilmente risentita.
“Non ha voluto collaborare fino alla fine” rispose Dubris, in tono piatto “Quindi era a tutti gli effetti una nostra nemica, e andava eliminata”.
La sua creata gli si avvicinò, con qualcosa di peggio che la furia nel volto, la delusione. “Ora sei finalmente soddisfatto?”.
Dubris resse il suo sguardo. “Sì” disse, in tono duro.
Si rivolse indietro, verso gli altri e soprattutto verso Luca, che, con lo sguardo fisso negli occhi del pastore proprietario della casa, continuava a parlare in tono dolce e tranquillizzante, accanto a una borsa nera, piena.
“Lasciagli i soldi e digli che avrà un po’ da pulire, dentro casa. Ora possiamo andare a chiudere questa storia”.



Kaeso sputò il sangue che aveva in bocca, scaraventando a terra l’umano, Albert, da cui si stava nutrendo.

Philippe scattò verso di lui, preoccupato. “Kaeso, stai bene?”.
Lui non rispose, troppo impegnato com’era nel resistere al dolore. Sembrava che il petto gli si stesse squarciando, il sangue che aveva appena bevuto – o il suo stesso – si stava rivoltando contro di lui e lui lo sputò tutto sul pavimento.
Alzò gli occhi, e accanto alle macchie di sangue che stava creando c’era Albert, a bocca aperta, con l’abituale taglio sul collo, in pantaloncini e canottiera, spaventato e infreddolito.
“Che hai fatto, umano?” ruggì Philippe, dando un calcio all’uomo per terra. Si rivolse a Kaeso.“Vuoi che lo uccida?”.
Kaeso si riprese, dopo vari affanni. Alzò lo sguardo sul suo compagno. Sotto i capelli mori, esibiva uno sguardo deciso, che lampeggiava dai suoi stessi occhi scuri.
“Sciocco”lo ammonì Kaeso, stancamente, con un colpo di tosse “Non avrebbe potuto farmi niente. Non lo uccidere, il suo sangue è squisito”.
Philippe era sconcertato. “Non mi pare che tu abbia avuto una reazione molto positiva al suo sangue” disse, osservando le macchie sul pavimento.
Kaeso si rialzò a fatica. Non ne aveva più voglia di bere ed era strano, non gli succedeva mai. Serrò i pugni, nero di rabbia e scagliando un mezzo calcio in aria. Albert intanto stava lentamente strisciando indietro, sul sedere.
“E’morto qualcuno dei miei creati” spiegò Kaeso, rabbiosamente. Chi? Chi poteva essere? Ne aveva così tanti…
Ascolta il tuo sangue.
Socchiuse gliocchi. Ascoltava il sangue ma quello semplicemente ribolliva per la rabbia e l’umiliazione.
“Svetlana non è ancora rientrata” disse Philippe, con uno sguardo terreo.
Kaeso aprì gli occhi e li puntò immediatamente su di lui.
Svetlana?
Furioso, lasciò uscire la sua ira in un grido. Svetlana, chi l’aveva uccisa? Era così giovane, non era un bersaglio difficile per i cacciatori! Sì, forse erano stati i cacciatori, loro, maledetti, stupidi e sporchi umani… Oppure…
“Quell’annuncio che Acilia ha fatto, alla televisione” disse Philippe“Kaeso, ci stanno attaccando”.
Kaeso annuì. Era più probabile che fossero stati loro. Acilia, Dubris e la loro allegra compagnia di mentecatti. Dove, dove era successo? Se si concentrava, avrebbe potuto sentire il richiamo del sangue di Svetlana, che l’avrebbe condotto fino al punto in cui l’avevano ammazzata. Ma era inutile, di certo Acilia non era stata così stupida da farla uccidere nel loro covo.
Aveva ancora le dita delle mani strette in due pugni, serrate fino a graffiarsi e a farsi sanguinare i palmi con le unghie.
Chiunque di loro fosse stato, l’avrebbe pagata cara.



Jacque ed Eike erano appena rientrati in casa, dopo aver seppellito il corpo di Claire nel bosco, sotto un agrifoglio.

Si erano seduti sul divano, e nessuno aveva detto niente per un po’.
Jacque non si era mai reso conto che Eike ci tenesse davvero, a Claire.
Si voleva scusare, ma l’altro lo precedette e parlò.
“A volte mi chiedo da dove veniamo” disse, con gli occhi sprofondati in un alone di riflessione“La scienza ha dimostrato qual è l’origine degli esseri umani. Ma i vampiri? Perché esistono i vampiri?”.
Jacque non rispose. Era una domanda che si era posto anche lui parecchie volte. Era una domanda che si ponevano tutti, in realtà, umani compresi che, con le loro ricerche, non erano ancora arrivati a nulla.
“Forse ha ragione Kaeso” disse dopo un po’ “Forse siamo davvero l’evoluzione genetica degli umani, e noi ci siamo finiti in mezzo, a questa evoluzione. E se è così, allora l’intera umanità è destinata a estinguersi”.
“Il mondo popolato di vampiri” rifletté Eike “E di cosa si nutrirebbero?”.
“Non lo so” ammise Jacque.
Il suo creato scosse la testa, risoluto. “No” disse “Non si può liquidare la faccenda parlando di una semplice evoluzione genetica. Non ha senso”.
Il suo volto dai lineamenti così morbidi, apparve duro come la roccia, in quel momento. Eppure, dentro, doveva essere molto triste, il piccolo Eike.
“Noi abbiamo dei poteri, Jacque” proseguì “Abbiamo una forza incredibile, possiamo correre velocissimamente, incantare le persone, volare…”. Fece una pausa, oscurandosi un pelo, prima di aggiungere: “Non portiamo i segni dell’avanzare del tempo”.Ancora si fermò, poi proseguì:“Queste cose non le spieghi con la scienza, sono poteri soprannaturali. Devono discendere da qualcosa… Qualcuno, o qualcosa, ci ha creati, e questo qualcuno non era un umano. Una divinità?”.
Jacque non disse niente. Quando era umano, credeva in Dio, ma adesso, ora, come poteva crederci? Come poteva credere che un dio avesse creato i vampiri? Eppure Eike gli stava spiegando che proprio loro erano la prova che un dio –almeno uno – esistesse. Perché loro erano qualcosa di soprannaturale.
“Una divinità che ci ha dato dei poteri” continuava Eike, che aveva posato lo sguardo sulle proprie gambe “Poteri inutili, se non dannosi. Poteri soprannaturali, poteri divini ma che non possono fare niente per aiutare le persone”.
Jacque stava guardando il pavimento, ancora sporco di sangue, su cui Claire si stava trasformando in qualcosa che loro non avrebbero potuto controllare. Avrebbero dovuto pulire, sì…
“Siamo tanto potenti ma non siamo stati in grado di salvare neanche una persona” diceva Eike, con la voce che a poco a poco si spegneva.
Si voltò a lato, guardando Jacque. Quello ricambiò, quasi col fiato sospeso, perché aveva paura di quello che Eike avrebbe potuto dire.
“Pare che tu provi compassione solo per le tue donne” disse infatti lui, riprendendo colore nelle parole, che però non suonavano pungenti, ma solo tristi “Forse se ti fossi fatto anche Claire, avresti cercato di salvare anche lei”.
Jacque lo fissò impietriro, senza riuscire a proferir parola. Era questo che Eike, il suo creato, il suo miglior amico, suo figlio, pensava di lui?
“Eppure”continuò amaramente l’altro “per Lydia non hai esitato neanche un secondo”. Sospirò.“Dimmi”aggiunse, guardandolo dritto negli occhi “Ami Emily al punto da voler proteggere tutte le persone che sono intorno a lei?”.
Ancora Jacque ebbe come l’impressione che gli si fosse seccata la lingua.
Eike concluse, usando parole davvero più crudeli dei suoi occhi da bambino: “Sarebbe una cosa che ti farebbe davvero onore, se solo tu l’amassi sul serio”.
A Jacque sembrò quasi di annaspare, ed era una sensazione nuova, essere messo a nudo così, e la vergogna…
“Eike…”provò a dire “Mi dispiace…”. Non usciva altro dalla sua bocca. Alla fine, rimproverava tanto Acila, perché non gli aveva mai detto niente, ma lui non ci riusciva mai a parlare. Le aveva mai chiesto qualcosa? E ad Emily cos’aveva detto? L’aveva lasciata andare così, senza una parola? Ed Eike? Aveva mai fatto qualcosa per lui?
“Mi dispiace”ripeté, sentendosi stupido “Mi dispiace…”.
Ma quello non diceva niente e Jacque abbassò il volto e per un momento davvero credette che avrebbe pianto, ma, ovviamente, il suo corpo non glielo permetteva.
Loro erano potenti, ma senza alcun potere. Potevano solo decidere se uccidere o trasformare, salvare e condannare, la loro era solo una catena di mutamenti, e creazioni, e si passavano l’uno all’altro il rancore e la sofferenza, e la catena, apparentemente senza origine, andava avanti, all’infinito.













Questo capitolo è stato lungo e faticoso :( sottolineo il lungo... solo a rileggerlo e a correggerlo ci ho messo un sacco di tempo .-. Accade tutto in una notte ma volevo spezzettare le scene, in modo che sempre Jacque ed Eike, che hanno aperto il capitolo, lo chiudessero con le loro riflessioni :)
Inoltre, in questo capitolo, come nel precedente, ho eliminato il punto di vista di Acilia, per rendere le cose un po' più.. boh.. interessanti XD infatti il mio scopo è non farvi intravedere quello che lei pensa. Di conseguenza sta acquistando sempre più spazio Dubris e me ne sorprendo io stessa, dato che all'inizio era partito come personaggio moolto secondario, e pure come prefetto rompipalle D:
Ad ogni modo, nella storia mi sto dilungando. Per esempio, vi giuro che la questione di Claire non era prevista, mi è venuta così all'improvviso D: quindi devo annunciarvi che al "gran finale" mancano ancora tre capitoli (più l'epilogo). Spero di non dovermi allungare ancora!

RIngrazio tantissimo Norine, unica superstite ormai dei recensori XDXD e do appuntamento a tutti al prossimo capitolo, che arriverà presumibilmente a fine mese!
   
 
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