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Autore: _blueebird    07/04/2013    6 recensioni
Ci vogliono pochi minuti per leggerla e altrettanti per innamorarti di loro.
Camille, una sedicenne che lotta tutti i giorni per rimanere a galla in una società di pregiudizi, ingiustizie e in continua lotta con la sua timidezza e con i suoi problemi, si innamora. Tra i banchi di scuola, tra gli amici veri e le cattiverie, troverà l'amore che la porterà a crescere, a soffrire e a combattere i suoi demoni.
Una storia che vi prenderà e che vi scalderà il cuore.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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Le ultime tre settimane erano passate abbastanza tranquillamente. Dopo che mio padre se ne era andato definitivamente dalle nostre vite e mia madre era tornata più forte che prima, gettandosi a capofitto nel lavoro, mi sembrava di aver pigiato il tasto del rewind sul registratore della mia vita e di essere tornata al punto di partenza.
Anche mio fratello ci aveva salutate. Solo una settimana prima gli avevo gettato le braccia al collo e gli avevo fatto promettere che ci saremmo rivisti presto. E mentre di sottofondo la voce stridula e meccanica che chiamava il suo volo si faceva più insistente, mi aveva quasi sollevato di peso e mi aveva baciato i capelli, sussurrandomi di raggiungerlo in estate, per le vacanze.
Gli avevo persino rubato il dopobarba, prima che se lo mettesse in valigia, per poter ricordare l’odore della sua pelle ancora per un po’.
Intanto il nostro progetto scolastico procedeva a rilento. Ci vedevamo si e no due volte a settimana per dividerci i compiti e lavorarci insieme, ma sapevamo che non avrebbe avuto nessun riconoscimento così avevamo lasciato agli altri il compito di vincerlo.
Grazie a ciò ero riuscita a passare più tempo insieme a Fabio. Adoravo il suo sorriso, vederlo scrivere, osservare i muscoli della schiena muoversi sotto la pelle ad ogni respiro. Mi piaceva tantissimo. Era dolce, gentile, sempre disponibile. Era troppo bello per essere vero. Dall’altra parte invece c’era Francesco.
Era il tipico ragazzo per cui il detto “l’apparenza inganna” calzava a pennello. A scuola non si vedeva; lo sorprendevo a volte seduto sul muretto dietro al cortile o sulla scala anti incendio, mentre guardavo fuori dalla finestra durante le ore di storia. Le sguardo perennemente vuoto sul volto, vagava come un’anima in pena le poche volte che era in mezzo alla folla.
Riusciva perfino a ingannarmi, che fosse un poco di buono, uno che marina sempre la scuola.
Invece, quando andavamo insieme alla biblioteca sorrideva dolcemente, i suoi occhi intensi e neri brillavano di luce propria e sembrava una persona completamente differente da come si faceva etichettare.
Nell’ultimo periodo andavamo spesso, dopo il progetto, nel suo studio personale. Lui dipingeva, o scarabocchiava su dei fogli di carta degli schizzi e io, seduta per terra appoggiata a una parete bianca, studiavo, gli tenevo compagnia. Mi piaceva davvero perché uscire da casa e liberare la mente in un posto così bello faceva bene sia al corpo che allo spirito.
 
“Quando mi insegnerai a disegnare?” Gli chiesi sollevando lo sguardo dal libro di latino. I suoi occhi erano tutti rivolti alla tela, teneva tra i denti un pennello imbevuto di color ciano che colava denso, mentre nella mano destra un pennello più grosso, pregno di giallo. “Quando vuoi.” Mugugnò prima di togliersi il pennello il pennello dai denti. Si era sporcato una guancia di blu. Sorrisi timidamente e tornai a guardare il libro di latino.
“Vieni giù un secondo con me? Mi servono dei colori che ho lasciato di sotto.” Disse appoggiando i pennelli sulla tavola. “Certo.” Appoggiai il libro di latino aperto di fianco a me, mi diedi spinta appoggiando le mani sul pavimento e mi alzai goffamente dalla mia comoda posizione.
 
Francesco tirò una cordicella che scendeva dal soffitto. La lampadina gialla, custodita da un piccolissimo lampadario pieno di ragnatele, faticò ad accendersi lampeggiando ad intermittenza, come se stesse cercando di stropicciarsi gli occhi dopo un lungo sonno. Le piccole finestre sporche proiettavano ancora ai piedi del muro una scia di luce giallo-verdastra e un odore di umidità e muffa impregnava la stanza insieme alla polvere che l’aveva occupata abusivamente. Francesco cercava su un vecchio tavolo scuro e rovinato ciò che gli serviva, mentre io cominciai a curiosare attenta a non toccare niente. Appoggiata a una parete c’era una vecchia credenza. C’erano dei vecchi bicchieri di vetro decorati tutti opachi dietro le vetrate e dei gomitoli di spago e filo dentro un cassetto semi aperto. Mi girai verso il tavolo e notai uno strano oggetto posizionato sopra a una panca coperto con della carta marrone.
 
“Cos’è quello?” Chiesi a Francesco. Lui interruppe la sua ricerca e seguendo la mia indicazione, osservò incuriosito l’oggetto che stavo indicando. “Non saprei.” Si limitò a dire lui. Ci dirigemmo a dare una sbirciata sotto l’imballaggio. Francesco scostò lo strato di carta e notai una tastiera. “Oh. E’ una Roland.” Dissi radiosa. “E' un po’ vecchia ma probabilmente funziona ancora. Posso provarla?” Chiesi.
“Hem, si, penso di si. Vieni la portiamo di sopra.”
 
Soffiai via tutta la polvere e attaccai la presa alla corrente, pigiai il tasto dell’accensione e per mia grande fortuna funzionava ancora. Cominciai ad accarezzare i tasti della tastiera e senza accorgermene cominciai a suonare qualche pezzo della Sonata n° 8 di Beethoven. Gli occhi di Francesco si erano sgranati incredibilmente. Scorrevo così veloce le dita sul piano e davo una tale enfasi a quel brano così allegro che Francesco ne era rimasto davvero stupito. La sua bocca si era spalancata e non credeva ai suoi occhi.
“Wow.” Riuscì a dire dopo che mi fermai. Lo sentii deglutire forte. “Da quanto è che suoni il piano?” Mi chiese fissando le mie mani sui tasti. “Hmm… E’ difficile ricordare esattamente da quando. Probabilmente sono nata già sapendolo suonare. – dissi ridendo –Mio padre è un famoso musicista. E’ stato lui a insegnarmi.”
“Capisco.” Aggiunse cupo. I suoi occhi tornarono a guardare le mie mani, che ritrassi dolcemente.
“Devo andare a casa adesso. Mia madre tornerà a casa tardi e devo preparare da cena.” Dissi mentre mi stavo infilando il giubbino. “Ti accompagno se vuoi.” Si sbrigò ad aggiungere lui. Mi arrotolai la sciarpina intorno al collo e ci avviammo verso le scale.
 
Pioveva tantissimo. C’era un aria fredda e pungente che si insinuava tra gli abiti e raggelava le ossa. Il rumore delle gocce che sbatteva sull’ombrello di tartan rosso di Francesco faceva da sottofondo ai nostri passi sull’asfalto bagnato. Le foglie di betulla sembravano tristi piegate dalla forza di quel grigio temporale. Era metà Aprile ma sembrava Febbraio. Dove diavolo era la bella aria calda e l’odore di fiori che avevo sentito pochi giorni prima? Portata via dal vento.
“Allora?” Dissi, sbirciando Francesco. Mi guardò con aria interrogativa nascosto dal suo impermeabile nero come i suoi occhi. “Quand’è che mi insegni a disegnare?” Dissi sorridendo.
Ricambiò il mio sorriso e tornò imbarazzato a guardare il marciapiede.“Quando vuoi. Ma vedi, il disegno non è una cosa che si possa insegnare con tanta facilità. Ci vuole tanta pratica e impegno.”
Risi forte. “Allora mi stai dicendo che non potrò mai diventare brava come te, eh?” Rise forte anche lui. “Ah quello è poco ma sicuro!”
Ridemmo insieme. La Sua voce profonda e gutturale, contro la mia più altra e allegra.
Mi morsi il labbro e voltai il capo verso delle vetrine.  C’era una caffetteria con delle grosse vetrate e con un insegna a forma di Muffin. Mi ricordai stranamente la cameriera con i capelli corti e la maglia giallo canarino della panineria. Sorrisi al ricordo della universitaria che leggeva il libro di architettura e mi chiesi cosa stesse facendo in questo momento. E poi immaginai che fosse in casa con il suo ragazzo, con una giornata brutta come questa. Hem, no forse era meglio non sapere cosa stesse facendo. Risi.
“Che c’è?” Chiese Francesco, dall’altra parte del manico dell’ombrello. “Hem, no niente, è solo che mi è venuta in mente una cosa divertente e…”
Mi fermai un secondo davanti alla vetrina. Era stata una sensazione che aveva indotto ai miei piedi a bloccarsi, come se dentro di me ci fosse stato qualche cosa che mi avesse trattenuto, come se qualcuno mi avesse detto: FERMATI.
 E fu lì che lo vidi.
In un tavolo all’interno c’era Fabio, aveva intorno una maglietta blu scuro sbracciata, i suoi muscoli si muovevano ad ogni respiro. Rideva forte insieme a una ragazza mora che gli era seduta di fronte, i capelli lunghi e mossi e una maglia verde smeraldo stretta sui fianchi. Le loro mani si erano congiunte nel mezzo del tavolo. Francesco mi si era affiancato, tenendo sospeso l’ombrello fra di noi. Sulla vetrina scura correvano le goccioline di pioggia che si appiccicavano al vetro, facendo a gara l’una con l’altra per arrivare prima al terreno.
“Non sapevo che avesse una ragazza.” Disse Francesco. “Nemmeno io.” Dissi dopo essere riuscita a trovare le parole. La bocca mi si era impastata e gli occhi mi si stavano riempiendo di lacrime.
Lui le accarezzava le nocche con il polpastrello creando sagome circolari. Lei sorrideva dolcemente.
Non ce la feci. Cominciai a camminare veloce lungo il marciapiede lasciando indietro Francesco, non volevo che mi guardasse mentre le lacrime cominciavano a rigarmi il viso. Mi sentivo una bambina.
Cominciai a correre. La pioggia mi aveva ormai bagnata quasi tutti i capelli.
“Camille!” Mi urlò Francesco poco dietro di me. Mi si parò davanti con l’ombrello. Aveva il fiatone e dalla bocca rossa gli usciva uno spettro bianco ad ogni respiro. “Perché sei corsa vi… Camille… Tu-tu stai piangendo!”
 
Non riuscivo a guardarlo in faccia.
Perché dovevo mostrargli la mia debolezza? Perché dovevo mostrargli il mio dolore?
Mi alzò il viso con una mano fredda e vidi le sue sopracciglia incresparsi e il mento farsi più quadrato. “Lui ti piace non è così?” disse dopo poco.
 
Non ci riuscii. Non riuscii a fermarmi. Le mie lacrime scoppiarono sotto quelle parole. Mi gettai tra le sue braccia piangendo intensamente, singhiozzando così forte che non riuscivo quasi a respirare.
Era troppo bello per essere vero. Era troppo bello per essere vero.
Francesco mi strinse forte cingendomi la schiena con le braccia e accarezzandomi i capelli bagnati.
Stringevo così forte il suo impermeabile inzuppato d’acqua che le nocche erano diventate bianche. Avrei voluto sotterrarmi, e lui mi aveva dato la possibilità di farlo, senza battere ciglio.
 
 
 
“Tu, stronzo. Toglile subito le mani di dosso se non vuoi andare all’ospedale.” Una voce sfortunatamente a me familiare risuonò nelle nostre orecchie, provenendo alle mie spalle. 





*Angolo dell'autore*

Ecco a voi un nuovo capitolo. :3 Dite la verità, non ve lo aspettavate eh? Già già già... :3
Commentateeeeee 
-Sel-
  
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