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Autore: La neve di aprile    01/11/2007    2 recensioni
Ricordo la prima volta che ti vidi, Izzy.
È una scena che si è stampata nella mia memoria, un marchio che non vuole saperne di sbiadire.
Pioveva da giorni, non c’era stato un attimo di tregua. Nemmeno il più piccolo spiraglio di sole.
Il cielo continuava a vomitare pioggia sulla città, che scintillava.
Le luci dei lampioni, le vetrine, i grattaceli: si rifletteva tutto nelle strade coperte di pozzanghere.
E adesso che gli anni sono passati, che le cose sono cambiate, mi rendo conto che forse la mia vita, la tua vita, sarebbe stata diversa se le cose avessero preso una piega diversa.
Forse ci saremmo risparmiati tante cose, forse saremmo stati persone diversi.
Ma non sarebbe stata la stessa cosa.
REVISIONE IN CORSO.
Genere: Introspettivo, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Hand in glove'
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HAND IN GLOVE
# 10 WHAT I’VE DONE

 

 

PARLA ROXANNE:

L’altro giorno ho incontrato Charlie.
Era in città per lavoro e, in memoria dei vecchi tempi, è venuta al locale.
Dovresti vederla, Izzy, la splendida donna che ha passato qualche ora come me a spolverare vecchi ricordi non ha nulla a che vedere con la ragazzina timida e impacciata che vent’anni fa sgobbava al mio fianco.
È cresciuta, come tutti noi.
Si è fatta una vita che l’ha portata via dal sole caldo e dall’oceano gelido della città degli angeli.
Di fatto, siamo diventate due perfette estranee che non hanno nulla in comune, a parte un passato fin troppo vivido: è sempre buffo vedere quali strade il destino sceglie per noi.
È tutta questione di linee, di sentieri, di confini: sta a noi scegliere quali oltrepassare e quali trasformare in muri che escluderanno, nel bene e nel male, qualcosa o qualcuno dalla nostra vita.
Certe volte è necessario innalzare vere e proprie muraglie, escludendo quelle persone che sai capaci di ferirti senza provare alcun rimorso.
Certe volte è necessario tracciare delle linee nella sabbia e pregare intensamente che nessuno le attraversi, lasciandoti vivere la tua vita come hai sempre fatto, al sicuro nel tuo bozzolo di affetti e certezze.
Altre volte, invece, è necessario lasciare che non ci sia nulla, nemmeno il più piccolo dei veli, tra te e le persone.
L’ottantanove fu l’anno in cui tra me e te sparirono tutti i veli.
Un uragano dai chiari e troppo dolorosi rimandi ad una storia che sembrava destinata a ripetersi li spazzò via, lasciando solo me e te, uno di fronte all’altro.
Doloroso, ma estremamente necessario.
Ci costrinse ad aprire gli occhi su una realtà che ci spaventava: tu eri molto più di un tossico occasionale e io mi stavo esaurendo a forza di passare oltre le tue dipendenze.
Era arrivato il momento di cambiare.

 

 

In this farewell
There’s no blood
There’s no alibi
‘Cause I’ve drawn regret
From the truth
Of a thousand lies
 

Linkin Park, What I’ve done.

  

NEW YORK – La Guardia airport, 27 agosto 1989

Izzy era di cattivo umore.
Non solo il suo volo aveva qualcosa come cinque ore di ritardo a causa del maltempo – e si era dovuto svegliare alle sei e mezza per arrivare in aereoporto in tempo -, adesso ci si metteva pure uno stupido barista che si rifiutava di dargli un bicchiere di Jack Daniel’s.
“Senta signore,” gli stava infatti dicendo lo sventurato ragazzo, “non posso proprio servirle super-alcolici, non prima delle cinque del pomeriggio.”
“Me ne fotto delle tue stupide regole!” sbottò Izzy, guardandolo torvo “Io pago, tu mi dai quello che chiedo. Non è così che funziona in questo paese?” sbatté una banconota da venti dollari sul bancone, battendo nervosamente un piede a terra.
Il barista deglutì, visibilmente a disagio, e si guardò attorno senza più sapere cosa fare.
Pur essendo molto presto, il terminal dell’aereoporto era gremito di uomini in giacca e cravatta e donne in bilico su sottilissimi tacchi a spillo: nessuno di loro sembrava gradire il triste spettacolino.

“Sono spiacente, ma proprio non posso.” pigolò il ragazzo “Il regolamento parla chiaro e...”
“Fanculo tu e il tuo fottuto regolamento.” lo interruppe Izzy, irritato “Fanculo tutti!” gridò, recuperando la banconota e infilandola in una tasca del giubbotto jeans, prima di voltarsi e andarsene, borbottando tra se e se frasi incomprensibili alle sue stesse orecchie.
“Giornata di merda.” sibilò irritato, lanciando il suo borsone a terra, davanti ad un telefono pubblico.
“Giornata del cazzo.” infilò qualche monetina, dopo aver sollevato la cornetta, e compose un numero.

"Pronto?" gli rispose Roxanne, quattro squilli dopo.
“Ciao, sono io” cupo, guardò male una donna che gli sfilava accanto.
"Izzy..." la voce della ragazza si ammorbidì, colorandosi di un sorriso che non poteva vedere "Dove sei?"
“New York,” laconico, il ragazzo sbuffò, “parto tra un’ora.
"E...?"
“E cosa? Niente!”
"Bugiardo!" rise la ragazza "Hai la voce di uno che vuole dire tutto, tranne niente."
“Hai ragione.” ammise il ragazzo, con un mezzo sorriso “E’ che un cretino giù al bar non vuole farmi un...” si bloccò, per nulla sicuro di voler raccontare alla sua ragazza di volere disperatamente un bicchiere di whisky alle sette del mattino.
“Un... come cazzo si chiama quel caffé corretto che mi hai preparato l’ultima volta?” mentì spudoratamente, sentendosi un verme.
Un verme senza scelta, si ricordò.

"Irish Coffee!" rispose prontamente la ragazza "Forse non te lo fanno perché... aspetta, che ore sono lì? Le sette e qualcosa, vero?"
“Mh-mh” Izzy annuì.
"Eh, è un po’ presto in effetti," osservò Roxanne, "forse è meglio se chiedi un caffé normale, ti pare? Comunque non sapevo che non si potesse servire l’Irish Coffee prima delle cinque del pomeriggio, strano..."
“Amore, sai che New York è una città strana, no?” commentò, sperando che lei lasciasse correre il discorso.
"Boh, non lo so, l’ultima volta che ci sono stata avevo altro per la testa." replicò lei, esaudendo la sua silenzio preghiera e cambiando argomento "Non vedo l’ora che arrivi, amore."
“Anche io.. mi sei mancata da morire, Roxy.” sorrise “Anche ai ragazzi. Steven dice che appena ha un attimo libero sale a farti  un salutino, non ne può più di starsene qui, dovresti vedere come si agita.” ridacchiò.
"Oh, povero Stevie.." la ragazza sospirò "Mi spiace che Stella lo abbia lasciato, non meritava un’altra delusione..."
“Sapeva come sarebbe andata a finire, lo sapevamo tutti...”
"Già.." Roxanne sospirò ancora "Amore, scusami ma devo scappare al lavoro, stasera suona un nuovo gruppo al locale e pare che ci sarà una marea di gente, Alec mi uccide se arrivo tardi!"
“D’accordo. Vieni a prendermi all’aereoporto?”
"Mh, non lo so.. non credo però.”
“Allora ci vediamo a casa”
"Okay. Un bacio, Izzy, ti amo."
Non ebbe nemmeno il tempo di dirle ‘anche io’, che lei aveva già riattaccato.
Ascoltò il freddo e metallico tuuu tuuu del telefono per un po’.

Si sentiva sempre uno schifo, quando mentiva a Roxanne, ma c’era qualcosa in lei che gli impediva di dirgli la verità.
Specie se farlo implicava confidarle che aveva una voglia matta di ubriacarsi o farsi.
Era più forte di lui: nonostante stessero insieme da quasi due anni, era uno scoglio invalicabile che non affrontava mai.

Lei sapeva che lui continuava a drogarsi e lui era fin troppo consapevole che questo la spaventava da morire, ma nessuno dei due faceva o diceva nulla per cambiare la situazione, smuovere le acque che andavano sempre più trasformandosi in un pantano.
Era un gioco di cui entrambi conoscevano le regole e, pur non condividendole, le seguivano ciecamente.
Recuperò il suo borsone e si mise a vagare per il terminal, senza avere la più pallida di dove stesse andando.
Sapeva solo di volere disperatamente qualcosa da bere.
Qualcosa che lo stordisse, facendogli dimenticare il suo senso di colpa e la giornata iniziata male.
Un’edicola, un negozio di vestiti, una pelletteria, una libreria... sembrava esserci tutto.
Tutto tranne quello che cercava.

Quasi urlò di gioia quando intravide un minuscolo negozio di alimentari.
Con un sorriso stampato sul volto magro e scavato salutò un anziano commesso dall’aria un po’ imbambolata e si mise a girovagare tra gli scaffali, facendo scorrere gli occhi tra file di pacchetti di patatine, biscotti, pacchi di pasta e lattine di coca-cola.
Fino a quando non la vide.
Un’intera mensola dedicata agli alcolici.
D’un tratto si sentì colmare il cuore di gratitudine nei confronti di quel vecchietto addormentato che presidiava la cassa: gongolando felice, arraffò due bottiglie di vodka e, fischiettando, tornò all’ingresso del minuscolo negozietto.
Le due bottiglie tintinnarono, quando le posò sotto il naso del vecchietto assieme a una banconota da cinquanta dollari.

Certo, non era Jack Daniel’s, ma non si poteva ottenere tutto dalla vita, no?
“Tenga pure il resto.” sorrise allegramente, recuperando il sacchetto di carta marrone che l’uomo gli porgeva inespressivo.
Se c’era un lato positivo nella notorietà, pensò, erano i soldi che si portava dietro.

Fischiettando scansò un paio di uomini d’affari intenti a chiacchierare fitto fitto, che non persero l’occasione di squadrarlo da capo a piedi e guardarlo malissimo: il chitarrista rivolse loro un sorriso smagliante.
Lo guardavano male? Liberissimi di farlo, non aveva nulla in contrario.
In fondo, quello che voleva lo aveva ottenuto, il resto del mondo poteva tranquillamente fottersi.

“Contenti loro.” bonficchiò incrociando due splendide hostess che storsero la bocca vedendolo arrancare “Contenti loro di farsi inquadrare in un sistema di merda.”
Con un calcio spalancò la porta del bagno e si chiuse dentro un cubicolo minuscolo; lasciò cadere con un tonfo il borsone sulle piastrelle azzurrine, lucide, e si accoccolò sulla tazza del water, dopo aver abbassato la tavoletta.
Stringendo una bottiglia al petto, buttò giù una generosa sorsata dall’altra.

Il liquore trasparente scivolò veloce giù, lasciandosi alle spalle un famigliare e rassicurante bruciore presto cancellato da altre sorsate che arrivarono in fretta, una dopo l’altra, iniziando ad annebbiare i suoi pensieri e rendendogli testa molto più leggera.
Inspirò a fondo, dopo essersi fatto fuori tre quarti di bottiglia: adesso si che le cose iniziavano a risistemarsi.
Ora che al suo sangue si stava mescolando un’adeguata quantità di alcol, ora che le preoccupazioni diventavano assurdamente ridicole, al punto da causargli un eccesso di risatine idiote, poteva dire di stare meglio, al punto di sentirsi quasi felice.
Guardò quel restava della bottiglia che teneva in mano, pensieroso: aveva davanti a se un volo lungo, aveva senso rischiare che si trasformasse in un incubo?

Sbatté le palpebre, intontito.
L’ultima cosa di cui aveva bisogno era proprio trascorrere una manciata di ore lucido a rimuginare su un problema che sapeva perfettamente come risolvere, pur rifiutandosi di ammetterlo.
Aveva il terrore degli ospedali, figurarsi delle case di riabilitazione.

Rabbrividendo all’idea di far parte di un programma di recupero anche solo per un’ora, finì la vodka rimasta sul fondo della bottiglia, con una smorfia, prima di posarla a terra e frugare nel suo borsone.
Qualche imprecazione più tardi, ne estrasse vittorioso una bottiglietta d’acqua vuota: svitò il tappo di plastica azzurra e, stando attento a non sprecare nemmeno una goccia di alcol, vi versò dentro la vodka, fino a rimpire la bottiglietta fino all’orlo.
Trattenendo il respiro, si scolò quello che restava nella bottiglia di vetro, prima di appoggiarla accanto alla sorella, sul pavimento, e inspirare a fondo.

Fissò la porta del bagno e ridacchiò: perfetto, si disse alzandosi in piedi a fatica, ubriaco come una merda.
Stupidamente sorrise, barcollando davanti a una fila di lavandini talmente puliti da brillare nella luce della sala.
Adesso poteva stare tranquillo che per tutto il viaggio non avrebbe pensato a un bel niente. E, nella sfortunata ipotesi l’avesse fatto, non avrebbe comunque ricordato un tubo, una volta arrivato a Los Angeles da Roxanne. Roxanne.
Il volto della ragazza gli tornò alla mente, accompagnato da una vaga sensazione di disagio.
Senza pensarci un attimo sopra, buttò giù un altro sorso di vodka, stringendo forte la bottiglietta che aveva in mano.

Inspirò a fondo, mentre una voce metallica ma indubbiamente femminile informava lui e i viaggiatori del suo stesso volo di affrettarsi a raggiungere l’uscita di imbarco tre e completare il check-in prima di salire a bordo, e con un sorriso stampato sulla faccia si incamminò verso il gate.
Stava finalmente tornando a casa.

 

I love your skin, oh so white                                                  
I love your touch cold as ice                                                                  
And I love every single tear you cry                                       
I just love the way you're losing your life.
 

HIM, Gone with the sin.

 

LOS ANGELES, 27 agosto 1989

Roxanne non avrebbe potuto essere più felice.
Finalmente, dopo tre mesi che le erano sembrati eterni, avrebbe avuto Izzy tutto per se senza che qualche concerto o qualche altro avvenimento lo catapultasse dall’altra parte del paese. 
Afferrò le chiavi di casa e della macchina e, dopo aver chiuso a chiave la porta, scese le scale di corsa, sistemandosi una sciarpa di seta attorno al collo.
Si sentiva euforica solo al pensare che stava andando all’aereoporto, un posto che generalmente odiava con tutta se stessa perché era da lì che Izzy la salutava, risucchiato da una vita che capiva solo in parte, il posto dove lo vedeva andare via, voltandosi mille e più volte solo per soffiarle un bacio, farle un cenno con la mano o semplicemente guardarla, come se avesse bisogno di imprimersi una volta ancora il suo viso nella mente.
E adesso quel posto le sembrava un paradiso.

Si accese una sigaretta e inspirò a fondo il fumo amaro, lasciando che le riempisse i polmoni e soffocasse parte di quella felicità che altrimenti l’avrebbe fatta saltare in mezzo alla strada.
Era tesa come una corda di violino, tutto quello che vedeva la faceva sorridere e non riusciva a fare a meno di tendere le labbra e curvarle verso l’altro, una risata trattenuta in gola.

Era una bella giornata di sole, il cielo somigliava ad un’enorme distesa d’azzurro screziata qua e là di nuvole bianche, soffici montagne di zucchero filato che le portavano alla mente le lunghe giornate che passava, da piccola, in un minuscolo parco giochi dietro casa, su un vecchio scivolo arrugginito e altalene mezze rotte.
Si regalò un’altra boccata di fumo, scacciando ogni pensiero dalla testa e concentrandosi per ritrovare il punto esatto dove aveva parcheggiato la macchina, qualche giorno prima.

Superò due ragazze intente a chiacchierare tra loro, nell’esatto istante in cui quella a destra scoppiava a ridere, reclinando il capo all’indietro.
Trattenne l’impulso di imitarla, continuando a scandagliare il marciapiede.

Una macchina.
Ancora stentava a crederci, non aveva mai nemmeno preso in considerazione l’idea di averne una, e non solo per l’enorme quantità di soldi che le sarebbe venuta a costare: era contraria all’idea, per principio.
Preferiva di gran lunga camminare o andare in autobus, di una macchina non avrebbe saputo cosa farsene, specie se considerava il fatto che abitava a un tiro di schioppo dall’Underpass e dal centro.
Era stato Izzy ad insistere che se ne comprasse una, così puoi venire a vedermi quando suono attorno a L.A, no?
Le aveva detto con un enorme sorriso, mentre l’accompagnava da un rivenditore di macchine usate.
Su questo punto, Roxanne era stata inflessibile: non avrebbe buttato via migliaia di dollari per una macchina nuova, la preferiva di gran lunga usata.
In un certo senso, aveva un po’ l’impressione di andare un po’ meno contro i suoi principi.

Fece dietro-front, dopo essersi accorta di aver passato la macchina da un bel po’.
Con un sospirò si sedette, infilò la chiave nel quadro, dopo aver lanciato la borsa sul sedile posteriore, e mise in moto, immettendosi nel traffico di metà mattina canticchiando il ritornello di una canzone degli Europe che le era rimasto in testa per tutta la mattina.
It’s the final countdown!” intonò imboccando l’autostrada “Parararaaa parapappappà!” riavviò una ciocca di capelli, che l’aria che entrava dai finestrini abbassati le aveva fatto finire davanti agli occhi, tamburellando le dita sul volante.
Tutto sommato, aveva dovuto ammettere, guidare le piaceva abbastanza.
Era bello sentire la strada correre sotto le ruote, il vento tra i capelli e tutto il resto, quell’impressione di indipendenza e libertà assoluta di cui parlavano tutti nei film era effettivamente reale.
Inforcò gli occhiali da sole, un paio di Ray-ban che aveva preso a Izzy durante la sua ultima visita, e si rilassò sul sedile, dopo aver superato una lunga fila di macchine.
Non stava più bella pelle all’idea di rivederlo.

Un sorriso le illuminò il volto, mentre metteva la freccia e superava una vecchia jeep militare, imboccando l’uscita per il parcheggio dell’aereoporto. Si, sarebbero state giornate grandiose.
Finalmente lo avrebbe avuto davanti quando le parlava, e non sarebbe stato necessario immaginare i suoi occhi verdi brillare mentre sorrideva.
Non avrebbe dovuto chiudere gli occhi e fingere che la sua voce non fosse filtrata dalla cornetta del telefono, che le toglieva tutte quelle sfumature altrimenti capaci di farla rabbrividire.
Avrebbe potuto baciarlo davvero.
Avrebbe potuto stringergli le mani, affondare le dita tra i suoi capelli, nascondere il viso nell’incavo del suo collo e perdersi nel suo profumo, quel profumo che non aveva mai trovato in nessun altro, un miscuglio di tabacco, muschio e tristezza che le faceva venire le lacrime agli occhi.
Avrebbe sentito il calore della pelle liscia sotto le sue dita, il sapore sulle labbra, i gemiti nella bocca.
Arrossendo, si crogiolò al pensiero di tutto quello che avrebbe potuto fare con Izzy stando semplicemente sui sedili posteriori della macchina.
Decisamente tre mesi senza sesso sono troppi, ammise parcheggiando tra due gigantesche utilitarie ultimo modello, larghe al punto da lasciarle dieci centimetri scarsi per aprire la portiera ed esibirsi in una serie di complicate contorsioni per riuscire ad uscire dalla macchina.
Sbuffò, tirando un calcio ad una delle due utilitarie.

Ma era troppo felice per poter rimanere irritata, non in una giornata che si prospettava semplicemente favolosa: quando entrò nel gigantesco terminal dell’aereoporto, il sorriso era già tornato ad illuminarle il volto.
Gironzolò senza meta per negozietti dimenticati dal mondo, toccando oggetti su cui la polvere si era depositata formando un delicato strato di velluto grigio, sfogliò riviste senza nemmeno vederne i colori, si prese un caffè di cui non avverti altro che il calore scivolarle lungo la gola, comprò un mazzo di margherite colorate di cui non sentiva il profumo, fumò cinque sigarette senza assaporarne neanche una.
Ogni singola cellula del suo corpo era protesa verso l’uscita da cui Izzy sarebbe comparso, riportando i colori, i suoni, i sapori e gli odori nel suo mondo.
Si sentiva come se fosse nata unicamente con quello scopo: aspettare Izzy.
Null’altro aveva senso.
Voleva solamente che lui comparisse tra quelle due porte aperte con il suo eterno borsone e un sorriso stanco solo per lei.

Forse fu anche per questo che non notò i tre poliziotti che stazionavano accanto a lei con un’espressione torva stampata sul viso.
Non li notò nemmeno quando un fiume di gente proruppe dall’uscita del gate, accompagnato da un brusio costante e visibilmente irritato.
Ma non vi prestò troppa attenzione: si alzò in punta di piede, cercando di scorgere Izzy in mezzo alla ressa.

Il cuore di Roxanne fece una capriola, quando lo vide venire avanti.
E, un istante dopo, smise di battere quando lo vide barcollare e lo sentì imprecare a gran voce.
Il mazzo di margherite le cadde di mano, quello che in relatà fu un delicato tonfo si trasformò in una cannonata nella sua mente quando lo identificò come completamente ubriaco.
Tutto attorno a lei divenne improvvisamente muto e grigio, mentre i tre poliziotti iniziarono a muoversi lenti, come a rallentatore, verso il chitarrista.

Fu quando i loro sguardi si incrociarono, attraverso una giungla di teste dai colori più disparati, mentre le manette scattavano attorno ai polsi del ragazzo e i suoi occhi verdi si riempivano di un mare di emozioni che nessuno dei due avrebbe saputo definire, che Roxanne sentì qualcosa di piccolo piccolo fare crack in un punto non ben definito del suo petto ed ebbe la sensazione che era quello, quello e nessun altro, il preciso momento in cui la sua vita cambiava.
Fu solo un attimo, un brevissimo scherzo del destino, una goccia nell’oceano dell’eternità, ma la sensazione di essere davanti ad una svolta tanto radicale da non poter esser definita a parole fu talmente netta di farla boccheggiare.
Se qualcuno le avesse stesso cosa stesse guardando, non avrebbe risposto il mio ragazzo.
Stava guardando il destino. Il suo.
Era lì, davanti a lei, un placido fiume di eventi in attesa di realizzarsi che scorreva sotto i suoi occhi.

E nell’esatto istante in cui se ne rese conto, era già passato, un ricordo cancellato da una mano invisibile impietosita o dalla sua stessa mente, spaventata dall’enormità di quanto era accaduto.
Il mondo prese a correre come sempre, i colori tornarono, più abbacinanti che mai, i suoni proruppeto impetuosi e turbolenti e i poliziotti portarono via Izzy, senza che lei potesse o riuscisse a dire nulla.
Era stato un attimo.
E come tale, se ne era andato in un battito di ciglia.
Quando riprese coscenza della realtà che la circondava, di Izzy e dei poliziotti non c’era più traccia.
L’aereoporto era pieno di persone, ma lei non si era mai sentita così sola e persa in vita sua.

 

PARLA ROXANNE:

Intimità.
È una parola, di quattro sillabe, che potrebbe tranquillamente essere parafrasata con qualcosa che suona vagamente come “Ecco, qui ci sono il mio cuore e la mia anima: prego, sbattili dentro un hamburger e buon appetito”.
Terribile, temuta, agognata fino alla spasimo, l’intimità è un qualcosa di cui sembra impossibile riuscire a fare a meno.
Indispensabile, nelle tre colonne portanti della vita: famiglia, amici e amore.
Cose che si devono per forza sapere, altre che forse sarebbe meglio non conoscere affatto.. non esiste, un manuale su cui siano scritte le regole dell’intimità.
Sarebbe troppo facile, non credi?
Trovare tutte le risposte già scritte, stampate nero su bianco dentro una bella copertina rosa antico, pubblicizzate da un titolo accattivante.
No, non è proprio possibile: sono un qualcosa che si deve scrivere da se.
Spingersi fino al limite estremo e rimanere lì il più possibile, lottando contro tutto e tutti in nome della bandiera colorata della felicità, l’obbiettivo è questo.
Come arrivarci, nessuno può insegnartelo.
Fanculo, a queste dannate regole: probabilmente nemmeno esistono.
O forse, noi le abbiamo ignorate e basta, sfidando la sorte e sovvertendo ogni logica.
Forse abbiamo continuato a farci del male, portandoci fino allo sfinimento, sputando sangue per una storia che avrebbe potuto essere dieci volte più semplice.
Del resto, com’è che fa quel vecchio detto?
Continuo a farmi del male perché è meraviglioso quanto smetto, è qualcosa del genere vero?
L’ottantanove fu un anno difficile, si.
Ma fu anche l’anno in cui riscoprimmo il piacere delle piccole cose e imparammo che non era necessario scontare le pene dell’inferno per poi godere al meglio del tempo assieme.
E questo, per me, significò moltissimo.

   
 
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