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Autore: Yellow Submarine    11/04/2013    1 recensioni
< “Puckerman” il ragazzo con la cresta seduto – o meglio, adagiato come se fosse stato su di una sdraio – davanti a Brittany alzò la testa, irrigidendosi. “Via gli accendini: sarebbe gradito evitare un altro accidentale incendio, per questa settimana,” concluse, in faccia un'espressione scocciata. Quindi, si voltò verso la lavagna, stappò un pennarello e prese a scrivere qualche formula – qualche stupida formula che aveva certamente sbagliato a identificare nel test, pensò Kurt.
“Anderson” disse il professore, ancora voltato verso la lavagna, “lo stesso vale per te.” >
< La si può riconoscere in qualsiasi cosa, la violenza, dallo sbattere di una porta all'eco di passi in un corridoi, da uno spintone a dei singhiozzi attenuati dalla porta chiusa di un bagno, da un comportamento brusco o insensato ad una cicatrice sulla schiena. >
Kurt ha deciso che non vuole più sentirsi come prima, che ha abbandonato il vecchio sé stesso come se fosse stato un'isola. Eppure ne sente la mancanza ogni giorno.
Blaine deve trovarsi nei panni di qualcuno che non è e scavare nelle macerie del suo passato di cui non vuole nemmeno ricordare l'ombra.
Sono superfici crepate in un mondo liscio, sono cicatrici che non si lavano via.
Genere: Angst, Comico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel, Nuove Direzioni, Un po' tutti | Coppie: Blaine/Kurt, Brittany/Santana, Puck/Quinn
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Scars

cicatrici

 

di Yellow Submarine

 

 

 

Il mondo del nuovo millennio sopravvive grazie a quattro cose: acqua, petrolio, crisi monetaria e violenza. L'ultima, in particolare.

Non importa di quale tipo si tratti – il brutale stupro di una ragazza in metrò o lo schiaffo di un marito rabbioso – perché ogni tipo di istituzione la produce, seppure inconsciamente, lasciando che la popolazione se ne cibi, la brami, goda del suo operato.

La violenza non è altro che un complicato sistema che va a porre le sue radici dentro la mente di qualsiasi cittadino con un minimo di contatto con i media, facendo anche del carattere più mite e tranquillo una macchina sua succube.

Non esistono sopravvissuti – o prigionieri di guerra – in quanto l'uomo è vittima della violenza anche solo non intervenendo per fermarla o rimanendo impassibile davanti ai terribili spettacoli proposti dai telegiornali.

La violenza è paura, è terrore e l'essere umano è per principio un animale piuttosto timoroso. La soluzione per tenersi lontano dai guai – se non si è coloro che li provocano – è l'omertà, perché è comoda, è pratica e non porta verso alcun risvolto spaventoso.

Sta di fatto, infine, che la violenza sboccia e cresce durante gli anni della scuola, quando le menti che va a colpire non sono ancora abbastanza temprate dal tempo per reagire all'intrusione, e si manifesta in più episodi che vengono classificati tutti con nome diverso: risatine, insulti, bullismo.

La si può riconoscere in qualsiasi cosa, dallo sbattere di una porta all'eco di passi in un corridoi, da uno spintone a dei singhiozzi attenuati dalla porta chiusa di un bagno, da un comportamento brusco o insensato ad una cicatrice sulla schiena.

 

 

Non c'era niente che Kurt Hummel preferisse al silenzio che calava nei corridoi dopo la fine delle lezioni e dei club pomeridiani: era piacevole, rinfrescante e allontanava i cattivi pensieri. Somigliava molto ad un getto d'acqua che rischiarava una superficie sudicia.

Con un insolito sorriso ben tirato sulle labbra, Kurt si strinse nelle spalle e si diresse verso il suo armadietto con passo accorto e veloce, impaziente di prendere i libri di cui aveva bisogno e tornare a casa per prepararsi al caffè che doveva prendere con le amiche poco più tardi.

Non era facile, essere sé stessi – soprattutto se voleva dire possedere una quantità decisamente esagerata di foulard da sfoggiare per ogni giorno del mese – ma dopo un anno di continue minacce e violenza verbale ingiustificata nei suoi confronti, Kurt si sentiva stranamente fortificato e fiero: non aveva ceduto a nessun tentativo di abbatterlo e aveva stretto i denti quanto era necessario per non crollare. Il pensiero lo rasserenò tanto da fargli guizzare sulla bocca un sorriso tutto nuovo.

Terminato di scrutare nervoso che il perfetto ordine dei magneti attaccati all'interno del suo armadietto fosse lo stesso di quella mattina, Kurt sospirò rilassato, diede una rapida occhiata alla sua immagine nello specchio che aveva appeso di fianco ad una vecchia fotografia di sua madre e chiuse velocemente l'armadietto, dirigendosi finalmente verso l'uscita.

 

Dove credi di andare, bambolina?” era una voce che Kurt sfortunatamente conosceva fin troppo bene e che interruppe bruscamente la spensieratezza di cui si era sentito tanto inebriato pochi attimi prima.

Non sapendo bene come reagire a quella richiesta minacciosa e non trovando alcun coraggio di voltarsi per fronteggiare il suo avversario, Kurt continuò a camminare verso l'uscita, aumentando drasticamente il passo e ritrovandosi a condurre una marcia poco coordinata e decisamente sgraziata, nella viva speranza che l'altro si trovasse abbastanza lontano da non riuscire a raggiungerlo.

Prima che potesse accorgersene, due ragazzi della squadra di basket gli furono davanti, sbucando dal nulla; avanzavano minacciosi e lo costrinsero a indietreggiare.

Paralizzato dal terrore, Kurt sentiva il cervello schiacciato sotto un sasso: non riusciva a pensare, a escogitare un piano che lo avrebbe salvato e, seppure il suo istinto di sopravvivenza strillasse ossessivamente dentro di lui, dalle sue labbra non uscì altro che un respiro affaticato e parole confuse.

E in un attimo, non era più forte, non lo era mai stato, perché non aveva braccia con cui difendersi dagli schiaffi, non aveva gambe con cui tirare calci e correre più veloce, non aveva mai abbastanza voce per gridare – per pregare – di smetterla.

 

Se fossero passati dieci, venti minuti, un'ora oppure un anno, Kurt non l'avrebbe saputo dire, perché sentiva male dappertutto. La pelle, il viso, tutto gli bruciava talmente tanto da fargli perdere la cognizione del tempo.

Sentiva chiaramente la risata di uno dei giocatori di basket che, intanto, gli tirava indietro le braccia e faceva scattare le ossa, probabilmente testando quanta pressione servisse perché l'omero si staccasse definitivamente dalla spalla; nel frattempo, qualcun altro – gli occhi bruciavano, pure loro, Kurt non aveva alcuna forza di controllare chi stesse maneggiando col suo corpo – si divertiva con crudele sadismo a mantenere il suo volto rivolto verso l'alto con violenti schiaffi e pugni sugli zigomi, probabilmente con l'insano timore che Kurt potesse addormentarsi.

Probabilmente, sarebbe stata la cosa migliore, assopirsi, senza svegliarsi mai più: tutto quel dolore azzerava ogni pensiero e non c'era niente che Kurt riuscisse a fare oltre che a strillare più forte che potesse e incassare l'ennesimo ceffone.

Intanto, mentre uno continuava a farlo contorcere come una bambola e l'altro a utilizzare il suo volto come sacco da punching ball, un altro ancora rideva forte, come pervaso dalla più soddisfacente delle gioie; ripeteva qualche storia a proposito di sua nonna, la loro parrocchia ed il loro pastore, qualcosa riguardo a quanto Kurt fosse innaturale.

Difendeva con convinzione il loro operato, balbettando qualche frase sconnessa riguardo alle giuste punizioni che ogni essere umano meritava.

Kurt non aveva nemmeno la forza per infuriarsi o rispondere. Non aveva nemmeno un briciolo di fiato per respirare, perché il ragazzo aveva sfoderato dalla tasca dei jeans lo stesso coltellino svizzero con cui lo aveva minacciato più volte di ridurre in brandelli i suoi preziosi vestiti firmati da qualche “improponibile checca”; solo che, oltre a sminuzzare la sua nuova camicia color lavanda di Alexander McQueen, quella volta aveva deciso di lasciare un segno più indelebile.

Muori, frocio del cazzo.”

Poi aveva intagliato con minuziosa attenzione la porzione di pelle poco sopra il fianco destro di Kurt, facendolo strillare ancora più forte; Robert affondò il coltello piano fino a che, dalla pelle, non sgorgò un rivolo di sangue brillante.

Tutto ciò che accadde in seguito, Kurt se lo lasciò scivolare addosso, non rispondendo più alle forte scosse di dolore che arrivavano dalle sue braccia e dalla sua pelle, divisa a metà dalla lama e bollente di sangue e bruciore.

Ci fu un preciso momento in cui Kurt desiderò con tutto sé stesso che gli venisse strappata qualche arteria che conduceva tutto il sangue al cuore assieme al suo braccia o che gli venisse forata una vena facendolo dissanguare o che ancora l'altro ragazzo gli conficcasse il setto nasale nel cervello con un pugno, un preciso momento in cui l'umiliazione unita al dolore fisico gli gravarono talmente addosso da fargli pregare chiunque – era pronto a credere a qualunque dio gli sarebbe stato proposto – di mettere una fine a quella tortura.

Kurt non aveva mai pensato veramente al suicidio, alla morte. Ovviamente c'erano giorni nei quali tornava a casa e la vita semplicemente faceva schifo, ma mai niente era arrivato a convincerlo che poteva trovare nella morte una via di fuga sicura e veloce a quella persecuzione che aveva avuto inizio da quando aveva ammesso che, sì, era... diverso.

Era vero: Lima, Ohio non era New York o Los Angeles, ma a Kurt non era mai stato più chiaro che in quel momento quanto la sua natura fosse la sua stessa condanna.

Aveva sempre creduto che fosse colpa dell'ignoranza degli altri, dei pregiudizi, delle stupide battute nelle comedy show in tv, ma alla fine tutto riportava ad un'unica causa: lui.

Lui e la sua passione per i cardigan, lui e la sua passione per i musical, lui e la sua voce femminile e acuta, lui e la sua camminata tutta fianchi e espressioni ammiccanti, lui e la sua fissazione per... i ragazzi.

Prima che potesse arrendersi, Kurt fu scosso da un'onda di dolore ancora più forte di quelle prima, perché adesso lo teneva per un fianco e incideva nella sua pelle come fosse creta.

Con la stessa delicatezza con cui scoppia una bolla di sapone, Kurt aprì appena le labbra e lasciò che il suo ultimo respiro articolasse un debole “aiuto.”

 

Che diamine state facendo?”

Tutto d'un tratto, dinanzi allo sguardo annebbiato di Kurt, si parò una luce che somigliava vagamente alla speranza: qualcuno l'aveva sentito, qualcuno lo stava aiutando, qualcuno stava per fermare quel maledetto coltello, ancora con la lama affondata nella carne.

Prima che potesse realmente rendersene conto, Kurt venne lasciato cadere a terra in un tonfo, mentre i tre ragazzi tentavano di giustificare le risate, il suo volto viola di lividi e i rivoli di sangue che scendevano dalla punta del coltellino per terra.

Sue Sylvester – la stessa terribile coach della squadra di cheerleader della scuola che quella mattina aveva trovato almeno tre fantasiosi e offensivi soprannomi per chiamarlo agli attenti – esibiva un'espressione feroce e implacabile tutta rivolta verso i tre sportivi.

Se qualcuno avesse mai inviato qualche stimolo ai vostri cervelli sottosviluppati, se qualcuno avesse mai fatto battervi qualche sana testata contro il muro, probabilmente sapreste che, se nessuno vi avesse fermato, Porcellana sarebbe morto!” il fatto che strillasse così forte e che lo stesse in qualche modo difendendo, fece sentire Kurt decisamente meglio, nonostante alzarsi in quel momento gli sembrava talmente faticoso da fargli venire voglia di svenire.

Non azzardatevi a dire una parola!” ruggì la donna non appena uno dei tre tentò di alzare una mano e spiegare quanto accaduto.

So chi siete, conosco il nome e i dati di ognuno di voi e state ben sicuri che ci saranno conseguenze, conseguenze molto pesanti sulle vostre teste da scimmie sottoevolute”, terminò.

Un'altra volta nella stessa giornata, Kurt perse il senso dello scorrere del tempo per ritornare a respirare normalmente e lasciare che il suo cuore si calmasse. Sporse un braccio dolorante verso il retro del fianco e sentì un forte urto di vomito non appena le dita gli scivolarono sopra i lembi di pelle aperta ancora bagnata di sangue fresco e i polpastrelli scorsero sulle sagome delle croste di quello più vecchio. Sebbene la ferita bruciasse ancora senza sintomi di miglioramento, il vomito che gli premeva alla gola divenne improvvisamente più urgente.

 

I ragazzi ci misero qualche istante di troppo a convincersi che la Sylvester non sarebbe passata sopra l'accaduto e ci volle un urlo degno di film dell'orrore e minacce strambe ma decisamente funzionanti perché decidessero di andarsene, affranti e preoccupati.

Una volta rimasti soli nel corridoio, la donna si chinò verso il ragazzo per offrirgli una mano ad alzarsi, per il quale si rivelò essere necessario tutto un braccio: Kurt si sentiva incredibilmente debole ed era come se le sue gambe fossero troppo leggere per reggerlo, mentre si metteva in ginocchio.

Tutto bene, Porcellana?” chiese con un insolito tono apprensivo la donna, sorridendogli appena e posando una mano sulla spalla.

In tutta risposta, Kurt si voltò dall'altra parte e vomitò uno schizzo violento di rabbia e bile.

Sebbene tutto sembrasse ancora una visione del proprio subconscio, Sue non lasciò andare la sua spalla e prese a studiare le ferite sul suo volto, senza azzardarsi a toccarle, parlottando su quali fossero i migliori medicamenti.

Lo sapevo” se ne uscì improvvisamente. “Sei debole, Porcellana, proprio come tutti i ragazzini impauriti di questa scuola. Eppure mi eri sembrato così... diverso.”

Tutto crollò nuovamente: perché era necessario che tutto ciò che componeva Kurt ricominciasse a ricostituirsi dopo essere raso al suolo, se qualcuno si occupava di distruggerlo nuovamente?

Rivolse un debole sguardo prima alla donna, che stava facendo vagare il suo in un punto indefinito oltre il corridoio, poi al vomito di fianco a lui, sentendosi scosso nuovamente dalla nausea. L'illusione di aver finalmente trovato qualcuno in grado di difenderlo si infranse quando Sue Sylvester si voltò e prese a camminare verso la palestra.

Tu non vieni, Porcellana? Mi sembrava di aver detto che sei diverso” disse improvvisamente la donna, voltandosi e rivolgendo a Kurt, stordito e sbalordito, un sorrisetto compiaciuto.

Si da il caso che i casi particolari incuriosiscano sempre una certa Sue Sylvester.”

 

Kurt si era trascinato a fatica fino alla palestra, perché le braccia gli facevano male e pesavano immensamente, il fianco gli bruciava assieme ad ogni passo e aveva ancora la vista appannata a causa dei lividi. “Io... non credo sia una buona idea.”

Sue, dall'altra parte di un tavolo, l'espressione severa di sempre ed un megafono a portata mano, alzò gli occhi al cielo e sbuffò sonoramente. “Andiamo, Porcellana. Sono convinta che da qualche parte, nelle tue profondità più oscure, sotto tutte quel glitter e tutte quelle pallettes di cui sicuramente ogni parte del tuo corpo è composta, ci sia qualcosa che sai fare!” lo ammonì, fissandolo come se non fosse un ragazzino appena reduce da un attentato alla sua sanità fisica.

Kurt, solo al centro di quella palestra, sentiva il proprio stomaco contorcersi e tutte le ferite dolergli più che mai, come se fosse lì per essere lapidato.

Sapeva esattamente in che situazione si era appena cacciato: all'inizio di ogni anno, Sue Sylvester appendeva volantini su ogni bacheca per chi volesse tentare di unirsi ai suoi Cheerios. In pochissimi riuscivano effettivamente a farcela, perché la donna esigeva la perfezione, sia fisica che comportamentale.

Coach, siamo a inizio maggio: è un po' tardi ormai per unirsi ai Cheerios, non trova?” tentò timidamente Kurt, nella speranza di avere il permesso di andare via.

Non hai voglia di reagire, Kurt Hummel?” rispose Sue senza esitazioni, sbirciando il suo nome dalla sua cartella prima di pronunciarlo, “buffo nome, te l'hanno mai detto?”

Kurt ridacchiò, un po' perché trovava quella donna un personaggio decisamente strano e folkloristico, un po' per l'assurdità della situazione. E anche per il terrore perché – andiamo – lui che provava a unirsi ai Cheerios? Per cosa poi?

Quando il mondo prendeva in giro mia sorella perché era diversa e me perché continuavo a sostenerla, Kurt Hummel, non c'era giorno in cui non impazzivo per tutta la rabbia che provavo. Poi, ho scoperto che nessuno poteva toccarla, se almeno io ero in grado di reagire, se io rifiutavo di essere la vittima. La rabbia o la rassegnazione non sono una risposta: serve un giusto equilibrio tra autodifesa e contro attacco. Ho scoperto di avere un incredibile talento nello sport in generale e ho preso parte a ogni club sportivo esistente nella scuola, pur di scaricare tutta la furia. E... funzionò, perché avevo ogni mezzo per star bene con me stessa e ogni forma di coraggio per rispondere per le rime.”

Coach, sua sorella è... lesbica?”

No, ha la sindrome di down. Cos'hai nel cervello, segatura?”

Io... mi dispiace.”

Non farlo.”

 

Ora, non mi sembri esattamente un tipo da football o basket, dico bene?” Kurt fece cenno di no, gli occhi spalancati.

Tutto quello che ti rimane, sono i miei Cheerios.”

Kurt, sebbene ancora un po' insicuro, decise che la donna aveva ragione, che probabilmente era l'unica maniera per guadagnarsi il diritto di vivere nel benessere, senza bulli, violenza o insulti.

La lucentezza delle immagini che gli si proiettarono in testa gli fecero dimenticare per qualche frammento di tempo di tutto quel dolore che sentiva.

Era una bella sensazione e Kurt voleva assolutamente che durasse il più possibile.

Coach Sylvester?”

Sue alzò gli occhi dalla sua cartella, tolse gli occhiali e fece cenno a Kurt di continuare.

Mi stavo chiedendo se... fosse possibile fare il provino seduta stante.”

Sue sorrise vittoriosa, inforcò nuovamente gli occhiali e posò un gomito sul tavolo per tenere il viso con una mano. Quindi, maneggiò improvvisamente con un telecomando, fece partire la musica e afferrò subito dopo il megafono.

ONE, TWO, THREE, FOUR!”

 

 

 

Ohio, settembre 2012

 

L'ultimo anno di scuola superiore, oltre a infondere ai ben capitati scariche di adrenalina da far accapponare la pelle, lasciava dentro forti brividi di paura.

Ultimo significava essere prossimi ad un termine, ad una linea di confine che indirizzava ognuno verso un inizio diverso e l'ignoto era un timore piuttosto comune, se si aveva diciassette anni e l'esperienza in campo pratico di un uccellino senza nido.

Perché il liceo era in grado di insegnare ogni nozione utile abbastanza per ottenere un buon diploma, ma non era di alcun aiuto se si voleva essere ben preparati a cosa attendeva oltre il confine del campus della scuola.

Al contrario, ciò a cui ci si abituava immediatamente era il concetto di gerarchia sociale, molto simile a quella che esisteva fuori dalle aule e i laboratori: gli sportivi, le cheerleader e chiunque avesse dimestichezza con affari apposto, se ne stavano a fare i propri comodi in cima alla piramide. Sotto di loro, vi era soltanto una lunga lista di nomi inutili e dimenticabili.

Kurt Hummel non era certo di essere d'accordo su quanto appena detto, ma fingere di concordare rendeva la questione meno preoccupante o difficile. O irrisolta.

Per come la vedeva lui – e qualche altro centinaio di studenti della scuola – la sua vita andava alla grande e certamente molto meglio di come procedeva quella di molti altri suoi coetanei: vantava un'ottima reputazione, un'ottima campagna anti-bullismo a difendergli le spalle, un'ottima valutazione da parte delle ragazze.

Non gli mancava niente, qualcosa come una folla di studenti era d'accordo.

Sentiva giusto cedergli le gambe quando ogni mattina si alzava dal letto e doveva ripetere al suo riflesso nello specchio “sono felice” abbastanza da sembrarne veramente convinto.

 

Il liceo McKinley era una struttura non troppo estesa in un bel quartiere di Lima, Ohio; accoglieva da sempre studenti dei sobborghi circostanti, quelli delle piccole cittadine a cui si giungeva col treno o quelli a cui bastavano cinque minuti in auto, bici, a piedi.

I giocatori di football indossavano una giacca rossa e bianca, spesso sudicia o consumata; le cheerleader gonne corte e svolazzanti e divise attillate con stampato il logo della scuola.

Kurt non poteva affermare di entrare e sentirsi a casa, là dentro, ma certamente non disprezzava il saluto cortese di qualche ragazza, un bacio di una compagna di squadra, lo sguardo intimorito di qualche studente più piccolo.

Era come una sorta di abitudine, entrare dalla porta principale e semplicemente esserci, sentirsi parte del tessuto sociale della scuola e poter esercitare il proprio potere su altre persone.

Kurt aveva perso molte cose, molte persone e molti pezzi di sé stesso nel corso degli anni per riuscire a non provare più alcuna paura nel tenere lo sguardo di fronte a sé e fissare qualcuno dei ragazzi della squadra di football o di hockey.

Appena giunto a scuola, aveva parcheggiato la sua auto nuova nel posto esclusivo che era riuscito a conquistare grazie all'influente che aveva – che andava tradotto, con il terrore infuso sui compagni da Sue Sylvester per conto suo – era sceso e aveva percorso la strada dalla macchina all'entrata guardando il nulla tra le teste degli studenti. Quindi, aveva sorriso a qualche conoscente e fatto un cenno con la mano a qualche compagna di corso.

Gli sembrava di vivere staccato dalla sua vita, come se stesse guardando un film noioso e lento e non avesse la possibilità di premere stop o il pulsante per velocizzare: era come vivere in un castello dorato senza poter chiudere gli occhi, stanchi del bagliore accecante.

Fare finta di sorridere, quando invece si annegava.

 


























































Note

Bene.

Questa storia nasce ovviamente dal prompt cheerio/badboy (che personalmente amo).

Sarà una storia particolare e lo so che esistono mille varianti di questo tipo di accoppiata, ma io ho voluto creare uno scenario intrecciato e un po' complicato perché sì, mi piace dare ai miei personaggi filo da torcere. Oh.

Detto questo, ammetto che questo capitolo possa confondere perché il tempo non è gestito troppo bene, ma... si capirà. In seguito, I promise.

Quindi, al prossimo aggiornamento che spero non tarderà.

Stay tuned,

YS

  
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