Nonostante Momoi l’avesse
chiamato per parlargli della possibilità di rendere concreta l’idea per il
compleanno di Aomine, Kise aveva dovuto rifiutare. A voler essere completamente
sinceri, forse avrebbe potuto in qualche modo raggiungerli se il campo estivo
con il Kaijou fosse finito prima – al momento della chiamata nulla era stato
ancora deciso definitivamente – ma, seppure ancora nel dubbio, non aveva dato
la propria disponibilità. Non che non si fosse rivelata una scelta saggia: non
aveva più saputo se l’uscita fosse stata confermata, ma lui era e sarebbe stato
ancora per due giorni in ritiro con la squadra.
Per la precisione ora stava cercando di respirare, sfinito dal caldo quanto
dall’allenamento appena conclusosi, con la fastidiosa sensazione della stoffa
che aderiva alla pelle, il tessuto a dir poco fradicio, i capelli biondi zuppi.
Moriyama, passandogli accanto, gli lasciò cadere l’asciugamano sulla testa: «Andiamo
a fare il bagno, non morire.» gli disse scherzosamente, sebbene sfinito quanto
lui. Kise sorrise, cercando di trovare la forza di alzarsi – aveva dolori
ovunque!
Sentendo vibrare il
cellulare nella propria tasca si scusò con i senpai accennando al telefono e
lasciando così intendere il motivo del suo allontanarsi, lasciando poi la
stanza dove avevano finito di mangiare e dove si stavano trattenendo per
chiacchierare.
Richiusa la porta alle proprie spalle, portò l’apparecchio vicino all’orecchio
dopo aver risposto meccanicamente: «Pronto?»
«È un brutto momento?» sentì chiedere dall’altro lato, il tono placido e
gentile che era inconfondibile, recentemente, anche senza il nome salvato in
rubrica: «No, abbiamo finito di mangiare da un po’. Però sono a pezzi.» si
lamentò, mentre raggiungeva la stanza che condivideva con un altro paio di
matricole. Una volta dentro fu felice di notare che, durante la cena, il
personale dell’albergo si era premurato di aprire e sistemare i futon.
«Allenamento sfiancante?» indovinò – non che fosse difficile – la voce di Jun.
«Da morire! Nonostante gli esami per l’università Kasamatsu-senpai ci ha
comunque accompagnati e affianca il nuovo capitano nella guida degli
allenamenti… è persino più severo del solito!» spiegò come se non fosse nemmeno
concepibile.
Jun ridacchiò dall’altro lato: «Kasamatsu-san è il senpai a cui sei più legato,
se non ricordo male. Già ti manca all’idea che a breve si diplomerà?»
Sebbene non visto, per ovvie ragioni, il biondo incurvò le labbra in un sorriso
grato: «Un po’. Ma se glielo dico raddoppierà il mio lavoro durante l’allenamento!»
aggiunse, terrorizzato all’idea, facendo ridere Jun.
«E per il compleanno?» chiese a bruciapelo, tanto che Kise tacque per diversi
istanti: «Ho mandato un sms. Di auguri. E ho detto che mi dispiaceva non
esserci, di divertirsi e di salutare gli altri.» riassunse brevemente.
Era stato strano: non stava scrivendo bugie, quindi non ci sarebbe dovuto
essere quel bisogno di controllare il testo diverse volte, ma lui l’aveva
fatto. Non aveva raccontato chissà quali particolari episodi a Jun, ma
supponeva che dopo i discorsi fatti – e le proprie domande – l’altro avesse
intuito senza troppe difficoltà quali pensieri gli affollassero la mente. Aveva
avuto l’incredibile delicatezza di non dire nulla, ma era chiaro: possedeva una
sensibilità tale da avere il tatto di informarsi su come andava e come stava
con domande semplici, senza risultare pressante o inopportuno.
«Come va il lavoro?» chiese, sia per interesse reale che per non far durare
troppo il silenzio; il più grande stava certamente per rispondere, quando Kise
sentì una voce estranea interromperlo: «Va bene ordinare cinese, Jun?»
Gli diede il tempo di rispondere e, prima che potesse chiedere, l’altro modello
lo anticipò: «Scusa, Akira non ha un gran tempismo per queste cose. Il lavoro
tutto bene, comunque.» assicurò.
«Akira-san è lì? Possiamo sentirci un altro giorno.» propose subito.
«No, è tutto ok. Ho chiamato io, fra l’altro, e dobbiamo aspettare la cena come
avrai sentito. Poi, se sei tu, Akira non se la prende: dice che non ti
considera affatto un rivale.» spiegò palesemente divertito, facendo ridacchiare
lo stesso Kise.
«Non è carino da dire, però, ho la sensazione che dovrei sentirmi offeso.»
disse, minimamente serio.
Jun da parte sua tacque per qualche istante: «Dipende.» ammise.
«Eh? Da cosa?» domandò stupito – non aveva inteso seriamente le parole che lui
stesso aveva pronunciato, e non credeva che l’avrebbe fatto lui. Era quindi
incuriosito di cosa avesse spinto il più grande a pronunciare quell’unica
parola.
«Posso dirtelo, ma non prenderla male. Non volevo forzarti ed ho evitato finora
di tirare fuori l’argomento.» ammise Jun con una nota di serietà nel tono
usato, ma che rimase comunque di base cortese com’era sempre nei suoi
confronti.
«Uhm, direi di sì. Ma mi stai preoccupando.» dovette confessare il biondo.
Tacque, e lo stesso il suo interlocutore finché non prese parola, con una delle
domande più dirette che gli avesse rivolto fino a quel momento: «Il pensiero di
baciare un uomo ti risulta disgustoso? Perché se la risposta è sì, questo è il motivo
per cui Akira non ti considera minimamente come rivale.» fece notare.
Kise rimase in silenzio, ammutolito e imbarazzato.
Capiva perfettamente la domanda di Jun, non solo quella pronunciata, ma anche
l’interrogativo che questa nascondeva. Fino a quel momento quando avevano
parlato Kise non aveva mai fatto domande che entrassero troppo nello specifico:
era stato non solo perché non potevano vantare un’amicizia intima tale che
discorsi simili sembrassero naturali, ma anche perché la confusione che si era
formata era – a suo avviso – già troppa. Aveva pensato di doversi soffermare su
altre cose (quali, di preciso, non lo sapeva neanche lui), prima di impelagarsi
in qualcosa che avrebbe reso tutto ancora più complicato.
Non era sicuro nemmeno lui, che tutto non fosse altro che l’ammirazione che
aveva sempre creduto di provare; non c’erano neanche stati episodi
particolarmente sconvolgenti che potessero portarlo a dubitare – una di quelle
cose da manga, per esempio.
«…Non lo so.» ammise in un mormorio; forse, pensò Jun senza dirlo, era troppo
presto per quella domanda.
Stava prendendo in considerazione di cambiare argomento, quando il biondo lo
anticipò: «Quando siamo andati a fare il regalo» iniziò «Momoicchi ha detto una
cosa. Sai, Aominecchi alle medie era un vero fissato del basket e il compagno
di squadra con cui andava più d’accordo era Kurokocchi. Se li conoscessi ti
sembrerebbe strano, perché non si somigliano affatto, ma nel basket sono sempre
andati d’accordo. Erano davvero imbattibili, sai?» disse, nel tono una traccia
dell’entusiasmo che aveva sempre caratterizzato il suo modo di parlare dei due
compagni di squadra. Tanto allora quanto adesso credeva ancora che ai tempi
della Teikou fossero fenomenali insieme.
«E giocano ancora insieme?» chiese con calma Jun, senza mettergli fretta.
«Ah, no, ora sono in due licei diversi, ci siamo incontrati tutti come
avversari.» spiegò immediatamente, facendo cadere il silenzio; non sapeva
nemmeno bene perché avesse iniziato quella conversazione, a dire il vero.
«Aominecchi e Kurokocchi erano davvero legati. Poi però sono successe alcune
cose – ad Aominecchi – e aveva smesso di venire ad allenarsi. Nemmeno
Kurokocchi ha potuto farci niente, lui era davvero giù.»
«E tu non eri giù, Ryouta-kun?»
Kise non rispose subito, e le sue labbra si incurvarono in un sorriso mesto:
certo che gli era dispiaciuto, lui che ogni giorno aveva praticamente tampinato il moro pur di giocare contro
di lui in un continuo tentativo di batterlo e superarlo, non importava quanto
fosse difficile o quanto impegno avrebbe richiesto. Per la prima volta la sola
idea di doversi sforzare era stata la cosa più bella che gli si potesse
presentare davanti.
Ma che avrebbe mai potuto fare, lui?
«Sì, ma non importava. Se non poteva convincerlo Kurokocchi, non valeva nemmeno
la pena provare. Non è che io non abbia tentato di portare di nuovo Aominecchi
in palestra, ma… era inutile. Proprio come pensavo. Se si era allontanato
persino da Kurokocchi era impossibile per noi. Alla fine, non eravamo proprio
quella che avresti definito una squadra, sai? Perciò, ecco, nessuno ci ha
badato troppo, perché Aominecchi comunque veniva alle partite.» continuò, di
nuovo una pausa breve.
«Questo… Kuroko-kun?» provò ad indovinare, conscio dell’abitudine dell’altro di
aggiungere “-cchi” ai cognomi altrui «Era solo un
amico per Aomine-kun?» domandò Jun, forse per provare a semplificargli il
compito, il racconto che sembrava pesargli dalle prime battute.
«Non lo so.» rispose quasi bruscamente il biondo, accorgendosene in un secondo
momento: «Ma Momoicchi ha ragione. Loro sono sempre stati come un mondo a
parte. Nessuno di noi aveva un rapporto simile con altri compagni, figurarsi
con loro. Era come se oltre un certo punto non si potesse proprio arrivare.
Beh, ora c’è Kagamicchi con Kurokocchi. Ma ho pensato che forse, ora che si
sono chiariti, magari le cose sarebbero state come prima.» ammise, e non
avrebbe saputo dire nemmeno lui se il tono utilizzato era stato quello di
speranza nel veder tornare due compagni di squadra e amici ad avere un buon
rapporto, o uno di rifiuto quasi.
«E non vuoi vederlo di nuovo.»
«Cosa?» chiese, risvegliato quasi bruscamente dal proprio flusso di coscienza.
«Aomine-kun e Kuroko-kun in quel “mondo tutto loro” che c’era alle medie. Non
vuoi vederlo.» ripeté Jun, e ciò che stupì Kise non fu tanto l’affermazione in
sé, quanto che l’avesse pronunciata con una sicurezza tale che sembrava l’altro
stesse parlando di qualcosa che riguardava lui, non Ryouta. Come se fosse così
ovvio che non c’era bisogno di essere lui – Kise – per capire, avere certezze.
Lo spaventò: Jun vedeva più chiaramente di lui una verità che lo riguardava
così da vicino e dalla quale, era ovvio ormai, aveva inconsciamente cercato di
scappare.
Perché prima di qualsiasi cosa, il pensiero era egoista e terribile, pieno di
un’invidia che in passato aveva capito di provare e che lo aveva fatto
vergognare di se stesso. Era riuscito ad uscirne una volta, e aveva sperato –
forse si era anche illuso, in realtà – che non ci sarebbe ricaduto più.
Invece erano bastate poche parole pronunciate in maniera del tutto casuale
perché di nuovo il dubbio lo assalisse, portandolo a quei pensieri che facevano
di lui un pessimo amico; sospirò senza curarsi di nasconderlo al suo
interlocutore, affondando il viso nel cuscino.
«Ryouta-kun?» sentì chiamare Jun, al quale replicò con un semplice “mh”, solo per dar segno di stare ascoltando: «Va tutto
bene.» disse l’altro, sorprendendolo.
Si era aspettato molte altre parole, altre frasi, altri avvertimenti persino;
non quella rassicurazione tanto semplice.
«Potrà sembrarti di no, potrai pensare che è un tragedia. Ma la verità è che
devi pensare con calma. Non cercare la risposta come se avessi una scadenza o
qualcosa di simile. Va be—?»
«Ohi.» sentì parlare la voce che all’inizio della chiamata si era rivolta a Jun
e che, quindi, ricollegò ad Akira.
«Akira… san?» azzardò, concedendosi un minimo dubbio per non essere sgarbato.
«Sì. Senti, quand’è che torni da dove stai ora?» chiese con familiarità, come
se lui e Kise si conoscessero da anni e fosse, quella, una conversazione
abituale tra loro.
«Tra un paio di giorni.» replicò senza ancora cogliere perfettamente il punto
della situazione. Akira non parve pensarci granché, quasi avesse deciso cosa
dire senza che questo dipendesse strettamente dalla risposta del modello.
«Va bene, allora quando torni, vieni qui da noi e parli con Jun di qualunque
sia la tua paturnia al momento. Poi ti fare dare l’indirizzo da lui.» tagliò
corto con fare pratico, e probabilmente passò il telefono nuovamente al castano
senza aspettare la sua risposta, perché Kise sentì – la voce leggermente più
lontana come quando si mette da parte il telefono per parlare a qualcuno nelle
proprie vicinanze – Akira rivolgersi a Jun.
«Ecco, sistemato.» che a Ryouta sembrò burbero ma che, lo sentì distintamente,
fece ridacchiare l’altro modello: «Ho già detto che Akira non è molto paziente,
a volte?» fece eco Jun.
«Qualche volta, sì.» scherzò su Kise.
«Però non ha tutti i torti, sarebbe meglio parlarne a voce. E poi non ti voglio
trattenere troppo, se sei con i tuoi compagni di squadra.» aggiunse il castano,
con quel modo di rivolgergli delle premure che sembrava proprio tipico della
sua persona.
«Non ci sono ancora, ma penso che arriveranno a breve. Allora poi ci vediamo
quando torno.» replicò semplicemente: non sapeva se sarebbe andato direttamente
al proprio rientro a casa, ma per adesso pensò che andasse bene dire così,
visto che – altrimenti – Jun sarebbe stato capace di rimanere al telefono pur
di rassicurarlo sul fatto che non era un problema.
«Ti mando l’indirizzo per mail.» disse lui, chiudendo la chiamata con
l’aggiunta di un breve saluto.
Rientrato dal campo estivo
si era accordato con Jun per incontrarsi la settimana successiva – dopo la quella
di pausa per il ritiro con la squadra non aveva potuto avanzare pretese,
dovendo dare la precedenza ad un servizio fotografico.
Ne era stato anche abbastanza contento per la verità; aveva avuto tempo di
pensare con calma e più razionalmente possibile alle cose di cui aveva parlato
con Jun, cercando di fare chiarezza da solo prima ancora che con il collega.
Aveva sempre intimamente saputo di aver avuto, alle medie, una sorta di
complesso nei confronti di Kuroko dopo il primo periodo di perplessità in
merito alle sue capacità. Ciò che non aveva capito allora, però, era che il
complesso non era stato solo relativo alle abilità sul campo da basket – o,
meglio, alla capacità di sacrificarsi per la squadra come Kuroko aveva sempre
fatto con loro, pur continuando a mantenere intatto il suo amore per lo sport
fino a che la loro “squadra” non si era definitivamente sfaldata. Era sempre
stato qualcosa di più profondo e complicato, a cui non aveva dato nome e che,
forse, non aveva nemmeno mai riconosciuto.
Non ne aveva mai parlato con nessuno, anche perché non ci aveva nemmeno mai
pensato lui stesso fino ad un certo punto; ma l’invito – a suo modo brusco – di
Akira lo aveva portato a credere che quello sarebbe potuto diventare
l’argomento di conversazione con Jun, quel giorno.
Aveva quindi seguito la mappa inviata per e-mail e raggiungere l’appartamento
non era stato difficile; piuttosto aveva dovuto fare attenzione a camuffarsi un
minimo per non essere fermato in strada e – soprattutto – per non rischiare di
creare problemi al collega.
Certo di aver evitato entrambe le cose e raggiunto l’appartamento suonò. Si era
aspettato che la porta venisse aperta da Jun, benché la targhetta esterna
portasse un altro cognome – il che lasciava intendere che quella fosse casa di
Akira, con ogni probabilità.
Quando, però, al posto del castano si ritrovò davanti qualcuno mai visto prima
capì che non era così: di fronte a lui stava un ragazzo che non spiccava quanto
Jun, ma Kise era certo che, a modo suo, attirasse spesso lo sguardo altrui.
Ad occhio e croce era di qualche centimetro più basso di Jun – che era a sua
volta un poco più basso di Kise, aggirandosi sull’1.83 –, i capelli neri che
per lunghezza ricordarono al biondo quelli di Atsushi e che erano in quel
momento tenuti indietro sulla frangia, con l’aiuto di un paio di forcine. Gli
occhi scuri, bei lineamenti, espressione di chi era stato interrotto durante
qualcosa; abbassando un poco lo sguardo notò che aveva le maniche della maglia
scura tirate su fino al gomito. A vederlo così, pensò Kise, l’immagine
minacciosa che si era formata nella sua mente si andava sfaldando velocemente.
Sorrise, amichevole.
«Salve, sono Kise Ryouta, il collega di—»
«Jun, sì. Sei quello che non sa ancora in
che squadra gioca.»
Suo malgrado, Kise lo guardò perplesso, non sapendo bene cosa rispondere:
squadra? Lui lo sapeva in che squadra giocava – e di solito anche chi parlava
con lui…
Vide Akira alzare gli occhi al cielo, come spazientito: «Quello che intendo è
se sei ga—»
«Quello che intende» lo interruppe Jun dopo uno scappellotto leggero al moro,
comparendo sulla soglia a propria volta «è che non sai del tuo orientamento
sessuale. È un modo di dire.» spiegò il castano, sorridendogli mentre Akira
sbuffava, facendosi da parte per lasciar entrare Kise.
«Non era offensivo.» puntualizzò, chiudendo la porta e muovendosi con familiarità
dall’ingresso, guidando il biondo e Jun – sebbene quest’ultimo non ne avesse
certo bisogno – in direzione di quella che si rivelò essere la cucina. Sul
tavolo Kise individuò senza difficoltà dei sandwich, alcuni già pronti in un
piatto ed altri in fase di preparazione.
Senza badare troppo alle formalità Akira raggiunse il tavolo, riprendendo con
la preparazione – occupazione da cui, evidentemente, l’arrivo di Ryouta l’aveva
distratto.
Jun gli sorrise, incoraggiante: «Ci siamo un po’ attardati.» ammise «È andato
tutto bene? Hai avuto problemi a trovare casa?» domandò, ricevendo come
risposta immediata uno scuotere della testa bionda.
«Nessun problema, anzi! E ho portato questi.» aggiunse, porgendogli la busta
che aveva nella mancina: «Non sapevo se a te e Akira-san piacciono alcuni dolci
in particolare, quindi sono andato sul classico.» spiegò mentre Jun prendeva la
busta con un “grazie”, andando a posarla poco distante da dove si trovava il
moro.
«Jun, dammi una mano a finire.» disse Akira mentre il castano era nei paraggi,
rivolgendosi poi allo stesso Ryouta quasi distrattamente: «Siediti dove
preferisci.»
Individuando una sedia non troppo distante Kise vi prese posto, osservandoli
senza fissarli troppo insistentemente, ma studiando nell’insieme la cucina e
soffermandosi di tanto in tanto su di loro. Akira era diverso da come lo aveva
immaginato, o meglio: se accostava l’idea che si era formata dai racconti di
Jun prima al suo modo di parlare – al
telefono e, ora, dal vivo – e poi al suo aspetto, non riusciva a considerare
tutto nell’insieme come se lo era aspettato.
Non sembrava una cattiva persona, anzi: burbero con gli estranei, forse, e
tendenzialmente ironico; ma era stato gentile abbastanza da invitarlo a casa
propria per discutere cose personali con Jun, e si stava dimostrando comunque
cortese nel preparare addirittura qualcosa – anche se quello, forse, rientrava
nella semplice educazione.
«Direi che bastano. Che facciamo con questo?» chiese Jun, tra le dita una
fettina di pomodoro evidentemente avanzata.
«Aaaahm.» Kise rimase sorpreso dalla naturalezza con
cui il moro si sporse, aprendo la bocca col chiaro intento di farsi imboccare;
vide Jun abbozzare un sorriso accondiscendente e assecondarlo, guardando poi in
direzione di Kise quasi a scusarsi: «Akira è un po’ viziato.» fece notare.
Ryouta stava per dire che non c’era alcun problema, ma Akira stesso lo
anticipò: «Non vedo quale sia il dramma. Sa che sei gay e che sono il tuo ragazzo.
Ed è in casa mia.» fece notare, puntando repentinamente lo sguardo sul biondo: «O
la cosa ti infastidisce?» chiese a bruciapelo, recuperando il piatto con i
sandwich per portarlo nell’altra stanza.
A Kise sembrò, per un attimo, un animale che si sentiva minacciato; lo guardò: «Affatto.
Non vedo perché dovrebbe.» replicò schietto, accompagnando il tutto con un
sorriso. Akira si mosse con un’alzata di spalle leggera nel passargli accanto,
per uscire dalla cucina.
Jun raggiunse subito il biondo e gli posò una mano sulla spalla: «Non è sempre
così brusco.» confessò «È solo preoccupato. Non tutti reagiscono come te.»
concluse semplicemente, facendogli cenno di seguirlo. A Kise non servì chiedere
ulteriori spiegazioni: era facile immaginare quale fosse la reazione media
delle persone, purtroppo.
Spostandosi nell’altra stanza – non era un salotto enorme, anzi, ma ben tenuto
– trovarono Akira seduto su uno dei cuscini vicini al tavolino basso, davanti
alla tv. Leggermente proteso in avanti, stava attaccando delle cuffie mentre,
sullo schermo – il simbolo dell’assenza di volume nell’angolo in alto a
sinistra – passavano il titolo della console
che solo allora il biondo notò accesa.
«Scusa se non mi sposto di là mentre parlate.» prese a dire Akira, cogliendo di
sorpresa il modello che si stava accomodando su invito di Jun «Ma tengo la tv
di qua e in mezzo all’altra stanza c’è un progetto pieno di colla che si sta
asciugando. Comunque ho le cuffie, fingi che io non ci sia.» continuò, e prima
che Ryouta potesse dire qualcosa, l’altro aveva già coperto le orecchie e
portato tutta la propria attenzione sulla schermata iniziale del gioco
aspettava solo il primo comando per dare inizio alla partita.
Per il poco che adocchiò prima che Jun richiamasse la sua attenzione su di sé,
sembrava un picchiaduro.
«Siamo d’accordo che, quando finiamo di parlare, gli faccio un cenno. In ogni
caso lui è contento con sandwich e videogame più di quanto tu possa credere.»
assicurò il castano per rompere il silenzio, avvicinandogli un poco il piatto
in una tacita esortazione a servirsi da solo. Kise allungò una mano, prendendo
un sandwich e portandolo alla bocca, dandogli un morso per poter poi – dopo
averlo gustato – ringraziare e complimentarsi. Non che fosse così difficile
fare dei panini o dei tramezzini, ma stava cercando di riordinare le idee.
Era sembrato scontato andare lì per parlare, ma in realtà non aveva minimamente
pianificato cosa dire o meno a Jun: non sapeva in cosa l’altro fosse
interessato, cosa volesse dirgli prima che Akira al telefono li interrompesse e
lui – Kise – non aveva mai analizzato l’argomento “Aomine” con qualcuno, da
nessun punto di vista per la verità.
«Posso farti qualche domanda, Ryouta?» fu Jun a rompere il silenzio,
abbandonando la formalità del “-kun” che aveva
mantenuto fino a quel momento; non era particolarmente scortese, considerando
che era proprio il castano il più grande dei due e che nonostante questo non
erano poi così distanti come età. Soprattutto, visto il tipo di argomenti
piuttosto personali che ultimamente affrontavano insieme, Kise supponeva che fosse
normale il non suonare così strano essere chiamato per nome da Jun.
Ad essere sinceri, più di una volta dall’ultima chiamata aveva preso in
considerazione di non mettere di mezzo l’altro in quel discorso, perché benché
non sembrasse agli occhi della maggior parte delle persone che avevano avuto a
che fare con lui o che ancora oggi lo frequentavano, Kise non era mai stato il
tipo da parlare dei propri problemi né da mostrarli. Certo, si lagnava di
allenamenti duri e ingiustizie nei suoi confronti di continuo, ma mai una volta
dalla sua bocca erano uscite lamentele su qualcosa di serio – fossero stati
questi problemi in casa o che riguardavano comunque la sua sfera personale.
«Sì. Ma potrei essere un po’ confusionario con le risposte, sai?» ammise con un
sorrisetto divertito, quasi a mo’ di scusa; contrariamente a quelle che erano
le sue intenzioni, vide l’espressione di Jun farsi seria, non dura ma diversa
dalla solita gentilezza che c’era di base nel suo sguardo.
«Ah, non perché non te ne voglio parlare! È solo che non sono abituato, di
solito ci penso da solo.» si affrettò a chiarire, temendo che l’altro avesse
frainteso il suo non saper destreggiarsi in quel tipo di situazioni con il non
voler rispondere alle domande troppo invadenti.
Lo vide sospirare: «Il discorso che stiamo facendo è delicato. Non voglio
forzarti a dirmi cose che vuoi tenere per te, specialmente perché penso che sia
legittimo provare imbarazzo su questi argomenti. Ma vorrei che tu non mi
dicessi indistintamente che “va tutto bene” o che “non c’è problema”. Perché io lo so che il
problema c’è, Ryouta. Lo so meglio di chiunque altro, forse persino meglio di
te.» concluse, stupendo il biondo e facendolo – per un attimo – quasi
vergognare, in un certo senso.
Non importava quante insicurezze avesse al momento: aveva quasi dimenticato,
entrato in quella casa, che Jun ed Akira dovevano sapere meglio più di tutti
come fosse la fase attraverso cui stava passando, che essa si trasformasse in
rifiuto o accettazione, che si rivelasse una questione fondata o campata per
aria.
Sospirò piano, mentre le parole brusche di Akira assumevano una connotazione
del tutto legittima e giusta, e la serietà di Jun sembrava l’unica cosa non
fuori posto lì tra loro.
«Scusami.» borbottò, sentendosi quasi in dovere di rivolgergli quelle parole,
sebbene il motivo fosse ancora piuttosto confuso nella sua mente; e Jun, con la
pazienza di un fratello maggiore che ha rimproverato il minore rilassò i
lineamenti in un sorriso buono, di quelli che Ryouta aveva notato essere propri
della sua persona più di una volta con gli occhi e col pensiero.
«Non c’è bisogno di scusarsi. So che hai capito cosa intendo, ora.» lo
rassicurò.
Inizialmente rispondere
alle sue domande non era stato facile, non tanto per la complessità delle
stesse, quanto più perché si era più volte trattato di qualcosa a cui aveva
dovuto dare una forma precisa per la prima volta in quel momento, quasi
improvvisando. Un conto era aver sempre avuto l’idea lì, da qualche parte e
tenerla per sé, intricata e complessa come nasceva, senza bisogno di spiegarla
a terzi; un altro si era rivelato essere provare a renderla parola.
Parlare di Kuroko, per Kise, non era mai stato difficile così come non lo era
stato – o lo era persino meno – parlare di Aomine; la cosa che invece non era
mai cambiata rispetto al passato era stata l’estrema difficoltà nel dover
accennare ai due in relazione l’uno all’altro, raccontando del passato. Il disagio
che avrebbe forse provato Aomine nel ricordare i propri errori e il senso di
impotenza di Kuroko al ricordo della propria incapacità nei confronti della
situazione di allora si mescolavano in lui appartenendogli entrambi in modo
diverso e doloroso, a tratti.
Di Aomine provava il disagio di una situazione vissuta da protagonista e
spettatore al tempo stesso, di aver notato, essersi reso conto ed essersi
infine arreso; di Kuroko invece condivideva l’incapacità che aveva dettato il
non poter fare nulla per riportare Aomine indietro sul campo da basket, fosse
stato anche costringendolo o finendo in una rissa che Akashi non avrebbe di
certo gradito, e il senso di colpa per aver – infine – lasciato perdere.
Aveva raccontato a Jun, sebbene non nei minimi dettagli, di come si era
convinto di non poter far nulla basandosi sul rapporto che aveva sempre legato
i due e che, benché fosse indubbiamente forte, non fosse stato affatto
sufficiente a sistemare le cose. Gli aveva spiegato di come capisse
perfettamente cosa intendeva Momoi quando accennava al mondo personale dei due
ex compagni, di quell’intesa che sembrava persino surreale a volte, di come
fosse sempre stata limitata al campo di basket in un certo senso – Aomine e
Kuroko stessi avevano sempre affermato come la loro sintonia fosse pressoché
nulla al di fuori di quello sport che li accomunava – eppure avesse sempre
fatto sentire chiunque altro chiuso fuori, impossibilitato ad avvicinarsi oltre
una linea invisibile ed immaginaria.
Aomine, a quel tempo, aveva contato solo ed unicamente sull’altro ragazzo; il
rapporto con lui, con Kise, era stato diverso.
Era stato – aveva spiegato a Jun – qualcosa considerabile forse meno di un
legame vero e proprio, fatto di ammirazione quasi cieca e della frustrazione di
un gioco infinito, come quando da bambino cerchi di afferrare l’acqua con le
mani e quella alla fine scivola via.
Se avesse dovuto descriverlo con una sola parola, Ryouta avrebbe scelto
“inseguire”.
Continuamente, senza sosta, senza arrivare mai.
Non era sembrato così male, in realtà, ai tempi: aveva sempre rappresentato un
continuo stimolo che fino ad allora era stato sconosciuto – migliorare,
migliorare, migliorare.
Al di fuori di un campo da basket, però, era diventata solo una causa persa per
qualcuno che alla sconfitta non era abituato, e che alla facile vittoria era
stato invece viziato ancora di più proprio da quella “squadra”.
Jun aveva lasciato che parlasse liberamente, con i propri tempi e modi,
interrompendolo solo quando Kise taceva e sembrava aver bisogno di un’altra
domanda per ricominciare; allora il castano gliene aveva rivolte diverse, con
lo stesso tono pacato che sembrava suggerirgli che non c’era fretta né obbligo
di rispondere.
Lentamente, Ryouta aveva parlato sempre più a ruota libera, forte di un carattere
aperto abbastanza da sapersi destreggiare nel silenzio di una conversazione
interrotta per impaccio, di una parlantina da pubblico e di facciata diventata
parte integrante di lui anche fuori dal lavoro di modello.
Dai tempi della Teikou il discorso si era spostato solo su Kuroko e poi solo su
Aomine, sulla stima per entrambi – sebbene di diversa natura; poi, senza alcun
preavviso, all’ennesima pausa del biondo Jun lo aveva guardato, spostando
alternativamente gli occhi da lui ad Akira, e poi di nuovo su Kise.
Quando questi aveva assunto un’espressione perplessa, Jun aveva formulato una
domanda diretta e precisa, una di quelle che non ti permettono di tergiversare
nella tua risposta.
«Forse ti ho già fatto questa domanda» aveva premesso «ma penso sia giusto
fartela di nuovo, o ancora di più se fosse la prima volta. Ryouta, c’è una cosa
essenziale alla quale devi pensare e devi capire bene la risposta. Devi capire
se l’idea di fare con un uomo quello che si suppone dovresti fare con una donna
ti disgusta completamente o se invece a rendertelo sopportabile o addirittura
desiderabile sia il fatto che si tratti di Aomine-kun in quanto uomo e non come
persona.»
La verità era che Kise aveva sempre rimandato: non era un tipo codardo, no, e
non si poteva dire che non affrontasse di petto le questioni quando queste si
ponevano davanti a lui. Nel suo essere niente più di un adolescente, pensava di
aver tutto sommato “attutito la caduta” in altre occasioni – quando aveva
saputo di Haizaki e la sua ragazza, quando dal proprio talento era risultato
solo isolamento o qualcosa che vi somigliava molto.
Aveva sempre saputo che il punto di quella questione fosse esattamente ciò che
si nascondeva nelle parole di Jun; che prima di essere un problema di cosa
pensava Aomine, o di come era ora il suo rapporto con Kuroko, o ancora di come era stato si trattava di una cosa sua,
di guardare dentro di sé, sviscerare fino a non poterne più.
Riguardava Ryouta e basta: era a Ryouta che doveva chiedere cosa provava, da
lui che doveva capire il disgusto o l’accettazione, da lui che doveva cogliere
i segnali, di lui che doveva placare il timore, chiarire la confusione,
consolare la paura.
Ryouta e basta.
E quando l’aveva capito, quando la risposta gli era stata data, con la coda
dell’occhio aveva visto Akira lanciargli un’occhiata di sottecchi e sospirare
piano, aprendosi in un sorriso consapevole di troppe cose; poi, aveva pianto.
Jun aveva dimostrato molta pazienza nei suoi confronti: benché – per fortuna –
il suo non fosse stato certo un pianto disperato ma lo sciogliersi naturale di
una tensione e il farsi avanti di una consapevolezza che spesso spaventava, il
castano lo aveva tranquillizzato per tutto il tempo, non tanto con le parole
quanto più con il semplice gesto di passargli una mano fra i capelli.
Dall’esterno sarebbe potuto sembrare assurdo, dato il breve periodo che era
servito loro per avvicinarsi, dando l’impressione di una forzata confidenza;
Kise però aveva, forse con fin troppa facilità, collegato tutto al motivo di quella
loro recente frequentazione: qualcosa che lo riguardava da vicino, intimamente,
proprio come personale era per Jun.
Come quando un giorno qualcuno ti rivelava di una perdita in famiglia, o di una
situazione che implicava i sentimenti e che stai passando o hai passato a tua
volta.
L’empatia era così forte, che inevitabilmente si costruiva un legame molto più
velocemente del normale; così era stato con Jun.
Kise aveva persino abbozzato un sorriso quando sulla soglia, al momento di
andare via, Akira gli aveva dato una pacca leggera sulla spalla, rivolgendogli
uno sguardo non così diverso da quello con cui lo aveva accolto, ma con una
sfumatura di gentilezza in più: «Se hai bisogno non fare il cretino. Jun sta
spesso qui.» aveva detto, in un invito indiretto ma premuroso a modo suo –
doveva essere sembrato davvero scombussolato, prima.
Ed era uscito, con la promessa di prendere il moro in parola.
Certo non si era aspettato di non avere un minimo di pace nemmeno nel tragitto
tra casa di Jun e la propria – che non erano poi così distanti, dopotutto.
Invece, quando era ad un passo dalla stazione, una pacca sulla spalla l’aveva
colto di sorpresa facendolo voltare; Kise non sapeva se il karma esisteva
davvero, ma se così era, la certezza che questo si divertisse alle sue spalle
fu palpabile.
«A-Aominecchi…?!»
Segnalo un errore nel
precedente capitolo, che la mia immensa pigrizia non ha ancora corretto.
Convintissima che Kasamatsu fosse di un anno più piccolo di Imayoshi avevo
accennato all’essere diplomando di quest’ultimo ma non di Yukio –
differentemente da come si trova in questo capitolo.
Chiedo venia, il mio neurone solitario era fritto 3