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Autore: Shichan    11/04/2013    3 recensioni
Il basket e Aomine l’avevano salvato.
Ma c’era stato anche un tempo – e se ne vergognava terribilmente – in cui aveva maledetto entrambi con tutte le sue forze.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Altri, Daiki Aomine, Ryouta Kise
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nonostante Momoi l’avesse chiamato per parlargli della possibilità di rendere concreta l’idea per il compleanno di Aomine, Kise aveva dovuto rifiutare. A voler essere completamente sinceri, forse avrebbe potuto in qualche modo raggiungerli se il campo estivo con il Kaijou fosse finito prima – al momento della chiamata nulla era stato ancora deciso definitivamente – ma, seppure ancora nel dubbio, non aveva dato la propria disponibilità. Non che non si fosse rivelata una scelta saggia: non aveva più saputo se l’uscita fosse stata confermata, ma lui era e sarebbe stato ancora per due giorni in ritiro con la squadra.
Per la precisione ora stava cercando di respirare, sfinito dal caldo quanto dall’allenamento appena conclusosi, con la fastidiosa sensazione della stoffa che aderiva alla pelle, il tessuto a dir poco fradicio, i capelli biondi zuppi.
Moriyama, passandogli accanto, gli lasciò cadere l’asciugamano sulla testa: «Andiamo a fare il bagno, non morire.» gli disse scherzosamente, sebbene sfinito quanto lui. Kise sorrise, cercando di trovare la forza di alzarsi – aveva dolori ovunque!

Sentendo vibrare il cellulare nella propria tasca si scusò con i senpai accennando al telefono e lasciando così intendere il motivo del suo allontanarsi, lasciando poi la stanza dove avevano finito di mangiare e dove si stavano trattenendo per chiacchierare.
Richiusa la porta alle proprie spalle, portò l’apparecchio vicino all’orecchio dopo aver risposto meccanicamente: «Pronto?»
«È un brutto momento?» sentì chiedere dall’altro lato, il tono placido e gentile che era inconfondibile, recentemente, anche senza il nome salvato in rubrica: «No, abbiamo finito di mangiare da un po’. Però sono a pezzi.» si lamentò, mentre raggiungeva la stanza che condivideva con un altro paio di matricole. Una volta dentro fu felice di notare che, durante la cena, il personale dell’albergo si era premurato di aprire e sistemare i futon.
«Allenamento sfiancante?» indovinò – non che fosse difficile – la voce di Jun.
«Da morire! Nonostante gli esami per l’università Kasamatsu-senpai ci ha comunque accompagnati e affianca il nuovo capitano nella guida degli allenamenti… è persino più severo del solito!» spiegò come se non fosse nemmeno concepibile.
Jun ridacchiò dall’altro lato: «Kasamatsu-san è il senpai a cui sei più legato, se non ricordo male. Già ti manca all’idea che a breve si diplomerà?»
Sebbene non visto, per ovvie ragioni, il biondo incurvò le labbra in un sorriso grato: «Un po’. Ma se glielo dico raddoppierà il mio lavoro durante l’allenamento!» aggiunse, terrorizzato all’idea, facendo ridere Jun.
«E per il compleanno?» chiese a bruciapelo, tanto che Kise tacque per diversi istanti: «Ho mandato un sms. Di auguri. E ho detto che mi dispiaceva non esserci, di divertirsi e di salutare gli altri.» riassunse brevemente.
Era stato strano: non stava scrivendo bugie, quindi non ci sarebbe dovuto essere quel bisogno di controllare il testo diverse volte, ma lui l’aveva fatto. Non aveva raccontato chissà quali particolari episodi a Jun, ma supponeva che dopo i discorsi fatti – e le proprie domande – l’altro avesse intuito senza troppe difficoltà quali pensieri gli affollassero la mente. Aveva avuto l’incredibile delicatezza di non dire nulla, ma era chiaro: possedeva una sensibilità tale da avere il tatto di informarsi su come andava e come stava con domande semplici, senza risultare pressante o inopportuno.
«Come va il lavoro?» chiese, sia per interesse reale che per non far durare troppo il silenzio; il più grande stava certamente per rispondere, quando Kise sentì una voce estranea interromperlo: «Va bene ordinare cinese, Jun?»
Gli diede il tempo di rispondere e, prima che potesse chiedere, l’altro modello lo anticipò: «Scusa, Akira non ha un gran tempismo per queste cose. Il lavoro tutto bene, comunque.» assicurò.
«Akira-san è lì? Possiamo sentirci un altro giorno.» propose subito.
«No, è tutto ok. Ho chiamato io, fra l’altro, e dobbiamo aspettare la cena come avrai sentito. Poi, se sei tu, Akira non se la prende: dice che non ti considera affatto un rivale.» spiegò palesemente divertito, facendo ridacchiare lo stesso Kise.
«Non è carino da dire, però, ho la sensazione che dovrei sentirmi offeso.» disse, minimamente serio.
Jun da parte sua tacque per qualche istante: «Dipende.» ammise.
«Eh? Da cosa?» domandò stupito – non aveva inteso seriamente le parole che lui stesso aveva pronunciato, e non credeva che l’avrebbe fatto lui. Era quindi incuriosito di cosa avesse spinto il più grande a pronunciare quell’unica parola.
«Posso dirtelo, ma non prenderla male. Non volevo forzarti ed ho evitato finora di tirare fuori l’argomento.» ammise Jun con una nota di serietà nel tono usato, ma che rimase comunque di base cortese com’era sempre nei suoi confronti.
«Uhm, direi di sì. Ma mi stai preoccupando.» dovette confessare il biondo. Tacque, e lo stesso il suo interlocutore finché non prese parola, con una delle domande più dirette che gli avesse rivolto fino a quel momento: «Il pensiero di baciare un uomo ti risulta disgustoso? Perché se la risposta è sì, questo è il motivo per cui Akira non ti considera minimamente come rivale.» fece notare.
Kise rimase in silenzio, ammutolito e imbarazzato.
Capiva perfettamente la domanda di Jun, non solo quella pronunciata, ma anche l’interrogativo che questa nascondeva. Fino a quel momento quando avevano parlato Kise non aveva mai fatto domande che entrassero troppo nello specifico: era stato non solo perché non potevano vantare un’amicizia intima tale che discorsi simili sembrassero naturali, ma anche perché la confusione che si era formata era – a suo avviso – già troppa. Aveva pensato di doversi soffermare su altre cose (quali, di preciso, non lo sapeva neanche lui), prima di impelagarsi in qualcosa che avrebbe reso tutto ancora più complicato.
Non era sicuro nemmeno lui, che tutto non fosse altro che l’ammirazione che aveva sempre creduto di provare; non c’erano neanche stati episodi particolarmente sconvolgenti che potessero portarlo a dubitare – una di quelle cose da manga, per esempio.
«…Non lo so.» ammise in un mormorio; forse, pensò Jun senza dirlo, era troppo presto per quella domanda.
Stava prendendo in considerazione di cambiare argomento, quando il biondo lo anticipò: «Quando siamo andati a fare il regalo» iniziò «Momoicchi ha detto una cosa. Sai, Aominecchi alle medie era un vero fissato del basket e il compagno di squadra con cui andava più d’accordo era Kurokocchi. Se li conoscessi ti sembrerebbe strano, perché non si somigliano affatto, ma nel basket sono sempre andati d’accordo. Erano davvero imbattibili, sai?» disse, nel tono una traccia dell’entusiasmo che aveva sempre caratterizzato il suo modo di parlare dei due compagni di squadra. Tanto allora quanto adesso credeva ancora che ai tempi della Teikou fossero fenomenali insieme.
«E giocano ancora insieme?» chiese con calma Jun, senza mettergli fretta.
«Ah, no, ora sono in due licei diversi, ci siamo incontrati tutti come avversari.» spiegò immediatamente, facendo cadere il silenzio; non sapeva nemmeno bene perché avesse iniziato quella conversazione, a dire il vero.
«Aominecchi e Kurokocchi erano davvero legati. Poi però sono successe alcune cose – ad Aominecchi – e aveva smesso di venire ad allenarsi. Nemmeno Kurokocchi ha potuto farci niente, lui era davvero giù.»
«E tu non eri giù, Ryouta-kun?»
Kise non rispose subito, e le sue labbra si incurvarono in un sorriso mesto: certo che gli era dispiaciuto, lui che ogni giorno aveva praticamente tampinato il moro pur di giocare contro di lui in un continuo tentativo di batterlo e superarlo, non importava quanto fosse difficile o quanto impegno avrebbe richiesto. Per la prima volta la sola idea di doversi sforzare era stata la cosa più bella che gli si potesse presentare davanti.
Ma che avrebbe mai potuto fare, lui?
«Sì, ma non importava. Se non poteva convincerlo Kurokocchi, non valeva nemmeno la pena provare. Non è che io non abbia tentato di portare di nuovo Aominecchi in palestra, ma… era inutile. Proprio come pensavo. Se si era allontanato persino da Kurokocchi era impossibile per noi. Alla fine, non eravamo proprio quella che avresti definito una squadra, sai? Perciò, ecco, nessuno ci ha badato troppo, perché Aominecchi comunque veniva alle partite.» continuò, di nuovo una pausa breve.
«Questo… Kuroko-kun?» provò ad indovinare, conscio dell’abitudine dell’altro di aggiungere “-cchi” ai cognomi altrui «Era solo un amico per Aomine-kun?» domandò Jun, forse per provare a semplificargli il compito, il racconto che sembrava pesargli dalle prime battute.
«Non lo so.» rispose quasi bruscamente il biondo, accorgendosene in un secondo momento: «Ma Momoicchi ha ragione. Loro sono sempre stati come un mondo a parte. Nessuno di noi aveva un rapporto simile con altri compagni, figurarsi con loro. Era come se oltre un certo punto non si potesse proprio arrivare. Beh, ora c’è Kagamicchi con Kurokocchi. Ma ho pensato che forse, ora che si sono chiariti, magari le cose sarebbero state come prima.» ammise, e non avrebbe saputo dire nemmeno lui se il tono utilizzato era stato quello di speranza nel veder tornare due compagni di squadra e amici ad avere un buon rapporto, o uno di rifiuto quasi.
«E non vuoi vederlo di nuovo.»
«Cosa?» chiese, risvegliato quasi bruscamente dal proprio flusso di coscienza.
«Aomine-kun e Kuroko-kun in quel “mondo tutto loro” che c’era alle medie. Non vuoi vederlo.» ripeté Jun, e ciò che stupì Kise non fu tanto l’affermazione in sé, quanto che l’avesse pronunciata con una sicurezza tale che sembrava l’altro stesse parlando di qualcosa che riguardava lui, non Ryouta. Come se fosse così ovvio che non c’era bisogno di essere lui – Kise – per capire, avere certezze.
Lo spaventò: Jun vedeva più chiaramente di lui una verità che lo riguardava così da vicino e dalla quale, era ovvio ormai, aveva inconsciamente cercato di scappare.
Perché prima di qualsiasi cosa, il pensiero era egoista e terribile, pieno di un’invidia che in passato aveva capito di provare e che lo aveva fatto vergognare di se stesso. Era riuscito ad uscirne una volta, e aveva sperato – forse si era anche illuso, in realtà – che non ci sarebbe ricaduto più.
Invece erano bastate poche parole pronunciate in maniera del tutto casuale perché di nuovo il dubbio lo assalisse, portandolo a quei pensieri che facevano di lui un pessimo amico; sospirò senza curarsi di nasconderlo al suo interlocutore, affondando il viso nel cuscino.
«Ryouta-kun?» sentì chiamare Jun, al quale replicò con un semplice “mh”, solo per dar segno di stare ascoltando: «Va tutto bene.» disse l’altro, sorprendendolo.
Si era aspettato molte altre parole, altre frasi, altri avvertimenti persino; non quella rassicurazione tanto semplice.
«Potrà sembrarti di no, potrai pensare che è un tragedia. Ma la verità è che devi pensare con calma. Non cercare la risposta come se avessi una scadenza o qualcosa di simile. Va be—
«Ohi.» sentì parlare la voce che all’inizio della chiamata si era rivolta a Jun e che, quindi, ricollegò ad Akira.
«Akira… san?» azzardò, concedendosi un minimo dubbio per non essere sgarbato.
«Sì. Senti, quand’è che torni da dove stai ora?» chiese con familiarità, come se lui e Kise si conoscessero da anni e fosse, quella, una conversazione abituale tra loro.
«Tra un paio di giorni.» replicò senza ancora cogliere perfettamente il punto della situazione. Akira non parve pensarci granché, quasi avesse deciso cosa dire senza che questo dipendesse strettamente dalla risposta del modello.
«Va bene, allora quando torni, vieni qui da noi e parli con Jun di qualunque sia la tua paturnia al momento. Poi ti fare dare l’indirizzo da lui.» tagliò corto con fare pratico, e probabilmente passò il telefono nuovamente al castano senza aspettare la sua risposta, perché Kise sentì – la voce leggermente più lontana come quando si mette da parte il telefono per parlare a qualcuno nelle proprie vicinanze – Akira rivolgersi a Jun.
«Ecco, sistemato.» che a Ryouta sembrò burbero ma che, lo sentì distintamente, fece ridacchiare l’altro modello: «Ho già detto che Akira non è molto paziente, a volte?» fece eco Jun.
«Qualche volta, sì.» scherzò su Kise.
«Però non ha tutti i torti, sarebbe meglio parlarne a voce. E poi non ti voglio trattenere troppo, se sei con i tuoi compagni di squadra.» aggiunse il castano, con quel modo di rivolgergli delle premure che sembrava proprio tipico della sua persona.
«Non ci sono ancora, ma penso che arriveranno a breve. Allora poi ci vediamo quando torno.» replicò semplicemente: non sapeva se sarebbe andato direttamente al proprio rientro a casa, ma per adesso pensò che andasse bene dire così, visto che – altrimenti – Jun sarebbe stato capace di rimanere al telefono pur di rassicurarlo sul fatto che non era un problema.
«Ti mando l’indirizzo per mail.» disse lui, chiudendo la chiamata con l’aggiunta di un breve saluto.

Rientrato dal campo estivo si era accordato con Jun per incontrarsi la settimana successiva – dopo la quella di pausa per il ritiro con la squadra non aveva potuto avanzare pretese, dovendo dare la precedenza ad un servizio fotografico.
Ne era stato anche abbastanza contento per la verità; aveva avuto tempo di pensare con calma e più razionalmente possibile alle cose di cui aveva parlato con Jun, cercando di fare chiarezza da solo prima ancora che con il collega.
Aveva sempre intimamente saputo di aver avuto, alle medie, una sorta di complesso nei confronti di Kuroko dopo il primo periodo di perplessità in merito alle sue capacità. Ciò che non aveva capito allora, però, era che il complesso non era stato solo relativo alle abilità sul campo da basket – o, meglio, alla capacità di sacrificarsi per la squadra come Kuroko aveva sempre fatto con loro, pur continuando a mantenere intatto il suo amore per lo sport fino a che la loro “squadra” non si era definitivamente sfaldata. Era sempre stato qualcosa di più profondo e complicato, a cui non aveva dato nome e che, forse, non aveva nemmeno mai riconosciuto.
Non ne aveva mai parlato con nessuno, anche perché non ci aveva nemmeno mai pensato lui stesso fino ad un certo punto; ma l’invito – a suo modo brusco – di Akira lo aveva portato a credere che quello sarebbe potuto diventare l’argomento di conversazione con Jun, quel giorno.
Aveva quindi seguito la mappa inviata per e-mail e raggiungere l’appartamento non era stato difficile; piuttosto aveva dovuto fare attenzione a camuffarsi un minimo per non essere fermato in strada e – soprattutto – per non rischiare di creare problemi al collega.
Certo di aver evitato entrambe le cose e raggiunto l’appartamento suonò. Si era aspettato che la porta venisse aperta da Jun, benché la targhetta esterna portasse un altro cognome – il che lasciava intendere che quella fosse casa di Akira, con ogni probabilità.
Quando, però, al posto del castano si ritrovò davanti qualcuno mai visto prima capì che non era così: di fronte a lui stava un ragazzo che non spiccava quanto Jun, ma Kise era certo che, a modo suo, attirasse spesso lo sguardo altrui.
Ad occhio e croce era di qualche centimetro più basso di Jun – che era a sua volta un poco più basso di Kise, aggirandosi sull’1.83 –, i capelli neri che per lunghezza ricordarono al biondo quelli di Atsushi e che erano in quel momento tenuti indietro sulla frangia, con l’aiuto di un paio di forcine. Gli occhi scuri, bei lineamenti, espressione di chi era stato interrotto durante qualcosa; abbassando un poco lo sguardo notò che aveva le maniche della maglia scura tirate su fino al gomito. A vederlo così, pensò Kise, l’immagine minacciosa che si era formata nella sua mente si andava sfaldando velocemente.
Sorrise, amichevole.
«Salve, sono Kise Ryouta, il collega di—»
«Jun, sì. Sei quello che non sa ancora in che squadra gioca
Suo malgrado, Kise lo guardò perplesso, non sapendo bene cosa rispondere: squadra? Lui lo sapeva in che squadra giocava – e di solito anche chi parlava con lui…
Vide Akira alzare gli occhi al cielo, come spazientito: «Quello che intendo è se sei ga—»
«Quello che intende» lo interruppe Jun dopo uno scappellotto leggero al moro, comparendo sulla soglia a propria volta «è che non sai del tuo orientamento sessuale. È un modo di dire.» spiegò il castano, sorridendogli mentre Akira sbuffava, facendosi da parte per lasciar entrare Kise.
«Non era offensivo.» puntualizzò, chiudendo la porta e muovendosi con familiarità dall’ingresso, guidando il biondo e Jun – sebbene quest’ultimo non ne avesse certo bisogno – in direzione di quella che si rivelò essere la cucina. Sul tavolo Kise individuò senza difficoltà dei sandwich, alcuni già pronti in un piatto ed altri in fase di preparazione.
Senza badare troppo alle formalità Akira raggiunse il tavolo, riprendendo con la preparazione – occupazione da cui, evidentemente, l’arrivo di Ryouta l’aveva distratto.
Jun gli sorrise, incoraggiante: «Ci siamo un po’ attardati.» ammise «È andato tutto bene? Hai avuto problemi a trovare casa?» domandò, ricevendo come risposta immediata uno scuotere della testa bionda.
«Nessun problema, anzi! E ho portato questi.» aggiunse, porgendogli la busta che aveva nella mancina: «Non sapevo se a te e Akira-san piacciono alcuni dolci in particolare, quindi sono andato sul classico.» spiegò mentre Jun prendeva la busta con un “grazie”, andando a posarla poco distante da dove si trovava il moro.
«Jun, dammi una mano a finire.» disse Akira mentre il castano era nei paraggi, rivolgendosi poi allo stesso Ryouta quasi distrattamente: «Siediti dove preferisci.»
Individuando una sedia non troppo distante Kise vi prese posto, osservandoli senza fissarli troppo insistentemente, ma studiando nell’insieme la cucina e soffermandosi di tanto in tanto su di loro. Akira era diverso da come lo aveva immaginato, o meglio: se accostava l’idea che si era formata dai racconti di Jun  prima al suo modo di parlare – al telefono e, ora, dal vivo – e poi al suo aspetto, non riusciva a considerare tutto nell’insieme come se lo era aspettato.
Non sembrava una cattiva persona, anzi: burbero con gli estranei, forse, e tendenzialmente ironico; ma era stato gentile abbastanza da invitarlo a casa propria per discutere cose personali con Jun, e si stava dimostrando comunque cortese nel preparare addirittura qualcosa – anche se quello, forse, rientrava nella semplice educazione.
«Direi che bastano. Che facciamo con questo?» chiese Jun, tra le dita una fettina di pomodoro evidentemente avanzata.
«Aaaahm.» Kise rimase sorpreso dalla naturalezza con cui il moro si sporse, aprendo la bocca col chiaro intento di farsi imboccare; vide Jun abbozzare un sorriso accondiscendente e assecondarlo, guardando poi in direzione di Kise quasi a scusarsi: «Akira è un po’ viziato.» fece notare.
Ryouta stava per dire che non c’era alcun problema, ma Akira stesso lo anticipò: «Non vedo quale sia il dramma. Sa che sei gay e che sono il tuo ragazzo. Ed è in casa mia.» fece notare, puntando repentinamente lo sguardo sul biondo: «O la cosa ti infastidisce?» chiese a bruciapelo, recuperando il piatto con i sandwich per portarlo nell’altra stanza.
A Kise sembrò, per un attimo, un animale che si sentiva minacciato; lo guardò: «Affatto. Non vedo perché dovrebbe.» replicò schietto, accompagnando il tutto con un sorriso. Akira si mosse con un’alzata di spalle leggera nel passargli accanto, per uscire dalla cucina.
Jun raggiunse subito il biondo e gli posò una mano sulla spalla: «Non è sempre così brusco.» confessò «È solo preoccupato. Non tutti reagiscono come te.» concluse semplicemente, facendogli cenno di seguirlo. A Kise non servì chiedere ulteriori spiegazioni: era facile immaginare quale fosse la reazione media delle persone, purtroppo.
Spostandosi nell’altra stanza – non era un salotto enorme, anzi, ma ben tenuto – trovarono Akira seduto su uno dei cuscini vicini al tavolino basso, davanti alla tv. Leggermente proteso in avanti, stava attaccando delle cuffie mentre, sullo schermo – il simbolo dell’assenza di volume nell’angolo in alto a sinistra – passavano il titolo della console che solo allora il biondo notò accesa.
«Scusa se non mi sposto di là mentre parlate.» prese a dire Akira, cogliendo di sorpresa il modello che si stava accomodando su invito di Jun «Ma tengo la tv di qua e in mezzo all’altra stanza c’è un progetto pieno di colla che si sta asciugando. Comunque ho le cuffie, fingi che io non ci sia.» continuò, e prima che Ryouta potesse dire qualcosa, l’altro aveva già coperto le orecchie e portato tutta la propria attenzione sulla schermata iniziale del gioco aspettava solo il primo comando per dare inizio alla partita.
Per il poco che adocchiò prima che Jun richiamasse la sua attenzione su di sé, sembrava un picchiaduro.
«Siamo d’accordo che, quando finiamo di parlare, gli faccio un cenno. In ogni caso lui è contento con sandwich e videogame più di quanto tu possa credere.» assicurò il castano per rompere il silenzio, avvicinandogli un poco il piatto in una tacita esortazione a servirsi da solo. Kise allungò una mano, prendendo un sandwich e portandolo alla bocca, dandogli un morso per poter poi – dopo averlo gustato – ringraziare e complimentarsi. Non che fosse così difficile fare dei panini o dei tramezzini, ma stava cercando di riordinare le idee.
Era sembrato scontato andare lì per parlare, ma in realtà non aveva minimamente pianificato cosa dire o meno a Jun: non sapeva in cosa l’altro fosse interessato, cosa volesse dirgli prima che Akira al telefono li interrompesse e lui – Kise – non aveva mai analizzato l’argomento “Aomine” con qualcuno, da nessun punto di vista per la verità.
«Posso farti qualche domanda, Ryouta?» fu Jun a rompere il silenzio, abbandonando la formalità del “-kun” che aveva mantenuto fino a quel momento; non era particolarmente scortese, considerando che era proprio il castano il più grande dei due e che nonostante questo non erano poi così distanti come età. Soprattutto, visto il tipo di argomenti piuttosto personali che ultimamente affrontavano insieme, Kise supponeva che fosse normale il non suonare così strano essere chiamato per nome da Jun.
Ad essere sinceri, più di una volta dall’ultima chiamata aveva preso in considerazione di non mettere di mezzo l’altro in quel discorso, perché benché non sembrasse agli occhi della maggior parte delle persone che avevano avuto a che fare con lui o che ancora oggi lo frequentavano, Kise non era mai stato il tipo da parlare dei propri problemi né da mostrarli. Certo, si lagnava di allenamenti duri e ingiustizie nei suoi confronti di continuo, ma mai una volta dalla sua bocca erano uscite lamentele su qualcosa di serio – fossero stati questi problemi in casa o che riguardavano comunque la sua sfera personale.
«Sì. Ma potrei essere un po’ confusionario con le risposte, sai?» ammise con un sorrisetto divertito, quasi a mo’ di scusa; contrariamente a quelle che erano le sue intenzioni, vide l’espressione di Jun farsi seria, non dura ma diversa dalla solita gentilezza che c’era di base nel suo sguardo.
«Ah, non perché non te ne voglio parlare! È solo che non sono abituato, di solito ci penso da solo.» si affrettò a chiarire, temendo che l’altro avesse frainteso il suo non saper destreggiarsi in quel tipo di situazioni con il non voler rispondere alle domande troppo invadenti.
Lo vide sospirare: «Il discorso che stiamo facendo è delicato. Non voglio forzarti a dirmi cose che vuoi tenere per te, specialmente perché penso che sia legittimo provare imbarazzo su questi argomenti. Ma vorrei che tu non mi dicessi indistintamente che “va tutto bene” o che  “non c’è problema”. Perché io lo so che il problema c’è, Ryouta. Lo so meglio di chiunque altro, forse persino meglio di te.» concluse, stupendo il biondo e facendolo – per un attimo – quasi vergognare, in un certo senso.
Non importava quante insicurezze avesse al momento: aveva quasi dimenticato, entrato in quella casa, che Jun ed Akira dovevano sapere meglio più di tutti come fosse la fase attraverso cui stava passando, che essa si trasformasse in rifiuto o accettazione, che si rivelasse una questione fondata o campata per aria.
Sospirò piano, mentre le parole brusche di Akira assumevano una connotazione del tutto legittima e giusta, e la serietà di Jun sembrava l’unica cosa non fuori posto lì tra loro.
«Scusami.» borbottò, sentendosi quasi in dovere di rivolgergli quelle parole, sebbene il motivo fosse ancora piuttosto confuso nella sua mente; e Jun, con la pazienza di un fratello maggiore che ha rimproverato il minore rilassò i lineamenti in un sorriso buono, di quelli che Ryouta aveva notato essere propri della sua persona più di una volta con gli occhi e col pensiero.
«Non c’è bisogno di scusarsi. So che hai capito cosa intendo, ora.» lo rassicurò.

Inizialmente rispondere alle sue domande non era stato facile, non tanto per la complessità delle stesse, quanto più perché si era più volte trattato di qualcosa a cui aveva dovuto dare una forma precisa per la prima volta in quel momento, quasi improvvisando. Un conto era aver sempre avuto l’idea lì, da qualche parte e tenerla per sé, intricata e complessa come nasceva, senza bisogno di spiegarla a terzi; un altro si era rivelato essere provare a renderla parola.
Parlare di Kuroko, per Kise, non era mai stato difficile così come non lo era stato – o lo era persino meno – parlare di Aomine; la cosa che invece non era mai cambiata rispetto al passato era stata l’estrema difficoltà nel dover accennare ai due in relazione l’uno all’altro, raccontando del passato. Il disagio che avrebbe forse provato Aomine nel ricordare i propri errori e il senso di impotenza di Kuroko al ricordo della propria incapacità nei confronti della situazione di allora si mescolavano in lui appartenendogli entrambi in modo diverso e doloroso, a tratti.
Di Aomine provava il disagio di una situazione vissuta da protagonista e spettatore al tempo stesso, di aver notato, essersi reso conto ed essersi infine arreso; di Kuroko invece condivideva l’incapacità che aveva dettato il non poter fare nulla per riportare Aomine indietro sul campo da basket, fosse stato anche costringendolo o finendo in una rissa che Akashi non avrebbe di certo gradito, e il senso di colpa per aver – infine – lasciato perdere.
Aveva raccontato a Jun, sebbene non nei minimi dettagli, di come si era convinto di non poter far nulla basandosi sul rapporto che aveva sempre legato i due e che, benché fosse indubbiamente forte, non fosse stato affatto sufficiente a sistemare le cose. Gli aveva spiegato di come capisse perfettamente cosa intendeva Momoi quando accennava al mondo personale dei due ex compagni, di quell’intesa che sembrava persino surreale a volte, di come fosse sempre stata limitata al campo di basket in un certo senso – Aomine e Kuroko stessi avevano sempre affermato come la loro sintonia fosse pressoché nulla al di fuori di quello sport che li accomunava – eppure avesse sempre fatto sentire chiunque altro chiuso fuori, impossibilitato ad avvicinarsi oltre una linea invisibile ed immaginaria.
Aomine, a quel tempo, aveva contato solo ed unicamente sull’altro ragazzo; il rapporto con lui, con Kise, era stato diverso.
Era stato – aveva spiegato a Jun – qualcosa considerabile forse meno di un legame vero e proprio, fatto di ammirazione quasi cieca e della frustrazione di un gioco infinito, come quando da bambino cerchi di afferrare l’acqua con le mani e quella alla fine scivola via.
Se avesse dovuto descriverlo con una sola parola, Ryouta avrebbe scelto “inseguire”.
Continuamente, senza sosta, senza arrivare mai.
Non era sembrato così male, in realtà, ai tempi: aveva sempre rappresentato un continuo stimolo che fino ad allora era stato sconosciuto – migliorare, migliorare, migliorare.
Al di fuori di un campo da basket, però, era diventata solo una causa persa per qualcuno che alla sconfitta non era abituato, e che alla facile vittoria era stato invece viziato ancora di più proprio da quella “squadra”.
Jun aveva lasciato che parlasse liberamente, con i propri tempi e modi, interrompendolo solo quando Kise taceva e sembrava aver bisogno di un’altra domanda per ricominciare; allora il castano gliene aveva rivolte diverse, con lo stesso tono pacato che sembrava suggerirgli che non c’era fretta né obbligo di rispondere.
Lentamente, Ryouta aveva parlato sempre più a ruota libera, forte di un carattere aperto abbastanza da sapersi destreggiare nel silenzio di una conversazione interrotta per impaccio, di una parlantina da pubblico e di facciata diventata parte integrante di lui anche fuori dal lavoro di modello.
Dai tempi della Teikou il discorso si era spostato solo su Kuroko e poi solo su Aomine, sulla stima per entrambi – sebbene di diversa natura; poi, senza alcun preavviso, all’ennesima pausa del biondo Jun lo aveva guardato, spostando alternativamente gli occhi da lui ad Akira, e poi di nuovo su Kise.
Quando questi aveva assunto un’espressione perplessa, Jun aveva formulato una domanda diretta e precisa, una di quelle che non ti permettono di tergiversare nella tua risposta.
«Forse ti ho già fatto questa domanda» aveva premesso «ma penso sia giusto fartela di nuovo, o ancora di più se fosse la prima volta. Ryouta, c’è una cosa essenziale alla quale devi pensare e devi capire bene la risposta. Devi capire se l’idea di fare con un uomo quello che si suppone dovresti fare con una donna ti disgusta completamente o se invece a rendertelo sopportabile o addirittura desiderabile sia il fatto che si tratti di Aomine-kun in quanto uomo e non come persona.»
La verità era che Kise aveva sempre rimandato: non era un tipo codardo, no, e non si poteva dire che non affrontasse di petto le questioni quando queste si ponevano davanti a lui. Nel suo essere niente più di un adolescente, pensava di aver tutto sommato “attutito la caduta” in altre occasioni – quando aveva saputo di Haizaki e la sua ragazza, quando dal proprio talento era risultato solo isolamento o qualcosa che vi somigliava molto.
Aveva sempre saputo che il punto di quella questione fosse esattamente ciò che si nascondeva nelle parole di Jun; che prima di essere un problema di cosa pensava Aomine, o di come era ora il suo rapporto con Kuroko, o ancora di come era stato si trattava di una cosa sua, di guardare dentro di sé, sviscerare fino a non poterne più.
Riguardava Ryouta e basta: era a Ryouta che doveva chiedere cosa provava, da lui che doveva capire il disgusto o l’accettazione, da lui che doveva cogliere i segnali, di lui che doveva placare il timore, chiarire la confusione, consolare la paura.
Ryouta e basta.
E quando l’aveva capito, quando la risposta gli era stata data, con la coda dell’occhio aveva visto Akira lanciargli un’occhiata di sottecchi e sospirare piano, aprendosi in un sorriso consapevole di troppe cose; poi, aveva pianto.


Jun aveva dimostrato molta pazienza nei suoi confronti: benché – per fortuna – il suo non fosse stato certo un pianto disperato ma lo sciogliersi naturale di una tensione e il farsi avanti di una consapevolezza che spesso spaventava, il castano lo aveva tranquillizzato per tutto il tempo, non tanto con le parole quanto più con il semplice gesto di passargli una mano fra i capelli.
Dall’esterno sarebbe potuto sembrare assurdo, dato il breve periodo che era servito loro per avvicinarsi, dando l’impressione di una forzata confidenza; Kise però aveva, forse con fin troppa facilità, collegato tutto al motivo di quella loro recente frequentazione: qualcosa che lo riguardava da vicino, intimamente, proprio come personale era per Jun.
Come quando un giorno qualcuno ti rivelava di una perdita in famiglia, o di una situazione che implicava i sentimenti e che stai passando o hai passato a tua volta.
L’empatia era così forte, che inevitabilmente si costruiva un legame molto più velocemente del normale; così era stato con Jun.
Kise aveva persino abbozzato un sorriso quando sulla soglia, al momento di andare via, Akira gli aveva dato una pacca leggera sulla spalla, rivolgendogli uno sguardo non così diverso da quello con cui lo aveva accolto, ma con una sfumatura di gentilezza in più: «Se hai bisogno non fare il cretino. Jun sta spesso qui.» aveva detto, in un invito indiretto ma premuroso a modo suo – doveva essere sembrato davvero scombussolato, prima.
Ed era uscito, con la promessa di prendere il moro in parola.
Certo non si era aspettato di non avere un minimo di pace nemmeno nel tragitto tra casa di Jun e la propria – che non erano poi così distanti, dopotutto.
Invece, quando era ad un passo dalla stazione, una pacca sulla spalla l’aveva colto di sorpresa facendolo voltare; Kise non sapeva se il karma esisteva davvero, ma se così era, la certezza che questo si divertisse alle sue spalle fu palpabile.
«A-Aominecchi…?!»

 

 

 

 

Segnalo un errore nel precedente capitolo, che la mia immensa pigrizia non ha ancora corretto.
Convintissima che Kasamatsu fosse di un anno più piccolo di Imayoshi avevo accennato all’essere diplomando di quest’ultimo ma non di Yukio – differentemente da come si trova in questo capitolo.
Chiedo venia, il mio neurone solitario era fritto

   
 
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