3.
Why’s it always darkest right
before the dawn?
You have to stand up before fall down
You need to get lost before you get
found.1
Il
profumo. Il
profumo è la prima cosa di cui mi rendo conto. Profumo di
legna bruciata che mi
solletica le narici, profumo di casa. E il calore di un fuoco alle mie
spalle.
Devo
essere
sicuramente morta e finita direttamente all’inferno.
Non
pensavo che l’inferno
potesse avere un profumo così dolce.
Dischiudo
gli occhi
lentamente, abituandomi piano alla luce che mi circonda. Sbatto
lentamente le
palpebre, cercando di mettere a fuoco.
Sopra
la mia testa
non più il cielo oscuro, punteggiato di stelle, ma le travi
di legno scuro di
quella che sembra una baita.
Confusa,
mi alzò di
scatto, tentando di assumere una posizione di controllo: ma lo faccio
troppo in
fretta e la vista sembra di nuovo annebbiarsi per un istante, mentre mi
riappoggio al pavimento.
Due
braccia sono già
pronte a sostenermi.
“Fai
piano per
favore, hai preso una bella botta” mi sgrida una voce, ma nel
suo tono non c’è
vero rimprovero, il sollievo è così forte da
prevalere su ogni altra emozione.
Il
mio cuore manca
un battito o due, nel riconoscere quella voce.
Peeta
sta sistemando
meglio il cuscino di ventura, che ha preparato per me con uno zaino e
una
coperta, dietro la mia schiena. Cerco il suo sguardo, ma lui sembra
troppo
impegnato per voltarsi nella mia direzione.
Pensavo
che non l’avrei
mai più visto. Gli avevo già detto addio e invece
adesso è veramente qui, a
prendersi cura di me. Forse sono davvero morta.
Allungo
una mano,
cercando il suo viso. Gli sfioro il mento e i suoi occhi finalmente si
posano
su di me.
“Sei
veramente qui?”
sussurro.
Mi
regala uno di
quei sorrisi senza tempo, anche se velato da una certa tristezza.
“Sono
qui”.
Ringrazio
gli dei,
il fato, chiunque l’abbiamo tenuto in vita per me.
Sembra
indovinare i
miei pensieri: “Pensavi mi avessero già fatto
fuori, non è vero?” mi rivolge
una smorfia un po’ risentito, prima di scuotere la testa.
“Io…”
mi mordo le
labbra, in imbarazzo “Ero solo preoccupata. Tutta la mia
squadra non ce l’ha
fatta”.
“Lo
so. Anche la mia
è stata decimata. Eravamo rimasti in tre, prima che mi
allontanassi…”
Lo
guardo senza
capire.
“Ho
deciso di
lasciare la mia squadra e continuare da solo” mi spiega,
stringendosi nelle
spalle.
“Hai
lasciato la tua
squadra di tua iniziativa?”.
Improvvisamente
la
rabbia prende il sopravvento e non riesco a trattenermi dal tirargli un
pugno
sul braccio più vicino: “Sei matto?”.
La
sua smorfia di
dolore e il gemito che si lascia scappare mi sconvolgono: non pensavo
di essere
stata così violenta.
Seguo
il suo sguardo
e solo allora mi accorgo della fasciatura orribile e rossa di sangue
che
circonda il suo braccio destro.
“Peeta!”
gridò,
sollevandomi di nuovo di scatto.
“Ti
ho detto di non
muoverti così in fretta” cerca di ricordarmi lui,
con un’espressione divisa tra
il dolore e la preoccupazione.
Ma
l’adrenalina che
mi scorre nelle vene non mi permetterebbe di svenire un’altra
volta.
Svolgo
rapida la
benda e trattengo il fiato davanti alla ferita: dopo gli Hunger Games e
la
guerra non sono più facilmente impressionabile, e tuttavia
sento lo stomaco
contrarsi quando osservo lo scempio dei denti che hanno penetrato la
carne
quasi fino al muscolo.
“Oh
Peeta” mormorò
questa volta, gli occhi che bruciano.
“Quei
mostri avranno
avuto anche i miei occhi, ma di certo non i miei denti. Non mi
farebbero male
quelle zanne, non pensi?” il suo tentativo di scherzare ha
soltanto il
risultato di farmi sentire ancora più in colpa.
Frugo
nel kit medico
che Peeta ha lasciato aperto sul pavimento, cercando
l’occorrente per
disinfettare di nuovo la ferita.
“Ho
fatto da me…”
cerca di protestare, ma la mia espressione risoluta fa cadere ogni tipo
di
resistenza.
“Non
hai fatto un
gran lavoro da queste parti…”.
O
almeno non verso
se stesso. Come al solito si è preoccupato soltanto di me.
Rimaniamo
per
qualche minuto in silenzio. I ricordi dell’arena si fanno di
nuovo più forti.
“Perché
hai lasciato
il tuo gruppo?” domando d’un tratto, questa volta
cercando di frenare la mia
irritazione per la sua incoscienza.
Sbatte
una volta le
palpebre e mi ritrovo ad osservare le sue ciglia biondissime alla luce
del
fuoco che brucia in un camino dietro di noi.
“Sapevo
che eri in
pericolo. Sono dovuto venire a cercarti”.
“Sapevi?”
chiedo,
confusa.
Lui
si stringe nelle
spalle, incapace di trovare una risposta razionale.
Gli
assicuro la
nuova benda con una spilletta e sospiro: “Ti devo la vita,
ancora una volta”
ammetto, lo sguardo fisso sulla fasciatura.
Peeta
usa la mano
del braccio sano per toccarmi il mento, e costringermi ad alzare di
nuovo il
capo.
“Proteggerci
a
vicenda, è quello che facciamo. Ricordi?” mormora,
sfiorandomi le labbra con il
pollice.
“E
poi ho un debito
che non potrò mai saldare: hai cercato di salvare la mia
anima, Katniss”
aggiunge “Potrei salvarti la vita un milione di volte e non
sarei ancora
nemmeno lontanamente vicino a pagare il mio debito”.
“Cercato?”
La
domanda lascia il
mio corpo ancor prima che il cervello possa davvero formularla.
Abbandona
il
braccio, preso dallo sconforto: “Non credo possa essere
davvero salvato.
Qualcosa in me…” si blocca, litigando con le
parole “E’ danneggiato per
sempre”.
Improvvisamente
il
ricordo di quello che è successo nel bosco, prima che
perdessi i sensi, si fa
vivido nella mia mente, come un quadro o una fotografia.
Le
mani di Peeta
intorno al mio collo e i suoi occhi carichi d’odio. Il mio
terrore e la
disperazione nel momento in cui mi ero resa conto che stavo per morire
per mano
della persona che amavo.
Ma
sono ancora viva.
Non proprio in forma, a causa di quegli stupidi ibridi, ma viva e
vegeta.
Nessuno
è venuto in
mio soccorso. Si è fermato da solo.
“Cosa
è successo?”
gli domando, con cautela.
Quando
inizia a
parlare tiene lo sguardo fisso sulle fiamme, il cui riflesso danza nei
suoi
occhi e sui tratti del suo viso.
“Avevo
appena ucciso
l’ultimo lupo e stavo cercando di aiutarti, quando quel suono
si è fatto più
forte, insopportabile”.
Sì,
questo me lo
ricordo.
“E
poi,
all’improvviso, non ero più me stesso. Mi stava
controllando, di nuovo. I flash
e l’odio mi hanno sopraffatto. Tutto quello che desideravo
era…” rabbrividisce
al solo pensiero “Era ucciderti. Le mie mani erano
già strette intorno al tuo
collo, sentivo il sangue già scorrere più lento,
il tuo battito farsi più lieve
e poi…”.
Scuote
il capo.
Prendo la sua
mano, gli do una leggera
stretta, sperando che possa aiutarlo a continuare.
“Poi
ho visto la
paura dipinta sul tuo viso e qualcosa è scattato dentro di
me: ho rivisto il
tuo volto, di bambina, la disperazione alla notizia della morte di tuo
padre. E
poi ancora tu, con le tue trecce, in piedi su quello sgabello a cantare
per la
classe. Ho risentito la tua voce, cantare quella vecchia ballata della
valle e
anche io sono tornato un bambino. Quel bambino che alla prima nota
aveva capito
di essere irrimediabilmente spacciato. Per sempre”.
Always.
Mi
accorgo di aver
iniziato a piangere solo nel momento in cui una lacrima inizia a
scivolare
lungo il mio collo, facendomi rabbrividire.
Mi
scappa uno di
quei terribili e imbarazzanti singhiozzi. Peeta si volta di scatto e
quando mi
vede piangere cerca subito di asciugarmi il viso.
“Oh
Katniss, mi
dispiace tanto. Non avrei mai dovuto venire a cercarti, sapevo che
sarebbe
stato pericoloso” inizia a parlare a raffica, accarezzandomi
spasmodicamente il
capo “Ma sentivo che dovevo aiutarti. Temevo che qualcosa di
brutto stesse per
accaderti e quando ho visto gli ibridi attaccarti, per un attimo, per
un attimo
ho pensato di aver ragione. Naturalmente non avevo pensato che in
realtà ero il
perico…”.
Non
gli permetto di
andare avanti, poggiando le mie dita sulle labbra per zittirlo.
Davvero,
come può
non riuscire a capirlo? A vederlo?
“Peeta”
pronuncio
una volta il suo nome, aspettando che si calmi
“L’hai sconfitto. Ti sei
fermato. Sei tornato in te e mi hai salvato la vita”.
Sembra
rendersi
conto delle implicazioni di questo fatto per la prima volta.
“Questa
volta”
mormora alla fine “Ma la prossima…”.
“Mi
hai salvato”
ripeto, risoluta “Hai salvato entrambi.”
So
che sta per
ricominciare ad attaccarsi a qualche altra stupida convinzione, nel
tentativo
di denigrare se stesso, così sfrutto l’unica arma
che conosco per farlo tacere:
è un’ottima scusa per non pensare troppo a mia
volta a quello che sto facendo,
soddisfacendo quel desiderio che scalpita in un angolo della mia testa
da
quando mi sono risvegliata e che ho cercato di ignorare per tutto
questo tempo.
Mi
piego in avanti,
quel tanto che basta per poggiare le mie labbra sulle sue, in un bacio
gentile,
le punte dei nostri nasi che si sfiorano appena.
Potrebbe
essere un
suicidio, ma al momento non mi importa, non mi importa di nulla.
[to
be continued…]
1 = ‘Lost and found’ A
Rocket to the Moon
Hei there J
Mi
spiace un sacco
di aver interrotto il capitolo in questo modo :P
Ma
tornerò presto
con la seconda parte e spero di riuscire a farmi perdonare J
Thanks
a tutti i
lettori e soprattutto a chi ha trovato il tempo di commentare!
See
you all soon!
Franci