Storie originali > Introspettivo
Segui la storia  |       
Autore: Orient_Express    14/04/2013    3 recensioni
Il castello di carte si sta sfaldando davanti ai miei occhi e la verità inizia ad emergere in trasparenza sotto i giorni di menzogne, sotto il loro trucco sbavato. La bella favola è diventata una parata in maschera grottesca e patetica a cui non credo più nemmeno io.
Nessuno è così bravo a mentire a se stesso.
***
Guardiamo svogliati un film al computer, Rafael con la testa appoggiata sulla mia spalla mentre mi stringe piano una mano, mi accarezza coi polpastrelli le dita rovinate.
«Juan?»
«Mh?»
«Quando inizia il tradimento?»
Sussulto.
Dovunque inizi, io quel punto l’ho varcato.
«Perché?»
Scrolla le spalle, senza alzare la testa.
Mi chiedo distrattamente come faccia a sopportare i personaggi del film che si muovono inclinati da un lato, mi chiedo come può tollerarli mentre sfidano la forza di gravità e vivono le loro vite da una prospettiva tutta nuova.
«Così. Per sapere»
«Secondo te dove inizia?»
«Nella testa»,
risponde tranquillo, come se a questa cosa ci avesse pensato tanto.
[Prima classificata al contest “Le sfumature del dolore” indetto da phoenix_esmeralda; ha partecipato con il prompt "Tradimento"]
Genere: Erotico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Image and video hosting by TinyPic   






III
Ancora giovedì 24 maggio

Apro la porta.
Sai, Diego…
Mi ricorderò di lui per tutta la vita. 
È talmente bello… e si è fottuto il mio ragazzo.
Diego, è colpa mia.

 

Sussulto, mi sveglio di soprassalto al rumore della porta.
Smascherato.
Scoperto.
Sono solo davanti alla mia meschinità. 
Il mio delitto è messo a nudo, il crimine è sotto gli occhi di tutti.
C’è qualcosa di bello nel viso di Rafael.

 

Sussulto, mi sveglio di soprassalto al rumore della porta.
Non ho quasi il coraggio di respirare: Rafael sta guardando me, proprio me, mi guarda come se non credesse ai suoi occhi, mi guarda e mi ricorda di non essere l’unico, d’aver sempre condiviso Juan con qualcun altro, con una figura senza volto che ora acquista corpo e voce e profumo, mi ricorda che per me qui non ci sarà mai posto. Mi ricorda che Juan ha un fidanzato e il fidanzato è un ragazzo vero, con questo dolore negli occhi che riconosco dentro di me e nella testa mi rimbomba amplificato mille volte.
Juan non dice niente, non è come sembra, posso spiegare, perdonami, niente, non dice niente, quest’uomo solo dignitoso davanti al proprio delitto, svelato, non dice niente e forse non ha neanche fatto niente per non farsi scoprire, forse si è persino fatto scoprire di proposito, per porre la parola fine a questo dolore.
Rafael è un fiore.
Non c’è traccia delle mani rovinate di Juan sulle sue mani bianche né delle mie occhiaie sotto i suoi occhi lucidi. 
Invidio la sua giovinezza, vorrei succhiargliela via dal corpo.

 

C’è qualcosa di bello nel viso di Rafael, una traccia di bellezza intensa e perversa nei suoi occhi stralunati e nell’espressione stravolta.

 

Copriti!
La tua nudità è indecente!
La casa l’ha assorbita e me la risputa addosso mille volte nel bianco delle lenzuola, nel bianco dei muri gelidi, nel bianco della luce che amplifica il bianco doloroso della tua pelle, il bianco della tua pelle nuda che acceca la vista, insopportabile per chi ha la coscienza sporca.
Diego…
Hai mai voluto uccidere davvero?
Guardo per un lunghissimo momento questo ragazzo che è nel mio letto a fare quello che dovrei fare io eppure non sono io, questo ragazzo che dovrei essere io eppure non mi somiglia neanche un po’, e non c’è niente da fare: il fatto di non essere io questo ragazzo mi fa male.
Non piangere…
Da qualche parte, ci sarà pure un universo in cui lui non esiste… 
In cui tu solo hai mai toccato il suo corpo…
Dilato le narici per respirare, il prurito alle mani mi riscuote da tutto questo bianco e poso il mio sguardo stravolto su Juan, ancora immobile, ancora zitto.
Vorrei solo prenderti a schiaffi fino a sfigurare il tuo bel viso!

«Frocio… schifoso…»,

non riesco ad articolare bene, il dolore e il disgusto mi deformano la bocca,

«Con… che… coraggio…? Quattro anni, cazzo! Non vieni neanche a Natale! E tu… ti porti a letto il primo stronzo che vedi per strada!!»,

urlo, gli lancio contro la prima cosa che trovo sottomano, sento due lacrime affacciarmisi agli occhi, ma non piango per me, per la mia fiducia ferita.
Piango per te.
Per la tua miseria.

«Juan, mi fai pena…»

Non sopporto più la vista di quest’altro me così diverso e così perfetto: il candore della sua pelle nuda è nauseante.
Mi volto di scatto, corro via, dove non lo so, lontano da tutto quel bianco, lontano dalla tristezza di una vita intera passata a mentire.

***

Mi alzo in piedi di scatto, il movimento repentino di Rafael m’ha svegliato, più della porta che si è aperta interrompendomi il sonno, più della boccetta dura di Moschino contro lo sterno, più del suo sguardo stralunato e delle sue parole mi fai pena.
Il gesto repentino di Rafael mi sveglia finalmente dall’immobilismo e mi alzo in piedi di scatto, la testa mi gira, mi si offusca la vista, l’intera stanza s’inclina di lato. 
Mi accascio contro il materasso.
In un secondo sono di nuovo in piedi, le tempie pulsanti, recupero i pantaloni da ginnastica dal pavimento e li infilo, esco dalla stanza e corro via scalzo senza curarmi più né di Andrés né di chiudere la porta di casa.
Il rumore brusco di una frenata mi fa trasalire, sento lo stridio della gomma che graffia l’asfalto.
No…
Ti prego…

***

Sbatto un paio di volte le palpebre.
Nella stanza regna il silenzio, l’aria si svuota di ogni rumore.
Le urla di Rafael m’hanno lasciato intontito, come se avessi preso un sonoro schiaffo in pieno viso, anche se non lo so come sarebbe prendere uno schiaffo in pieno viso perché non l’ho mai preso e per fortuna, ma sento che sicuramente uno schiaffo mi lascerebbe così, umiliato, intontito e con un silenzio assordante che mi rimbomba nelle orecchie, come questo silenzio assordante che le urla di Rafael si sono lasciate dietro.
Fine dei giochi.
Sono solo in una casa in cui non tornerò più. 
In una casa in cui sono entrato senza permesso, di nascosto, come un ladro, portando con me solo il mio dolore indecente, in una casa che ho infettato con la mia presenza immorale giustificandola a me stesso con questa patetica ricerca di connessione, di calore che ho trovato e che ho perso, che mi ha lasciato dentro un dolore maggiore di quello con cui sono entrato, perché perdere qualcosa fa più male che non averla mai avuta: un dolore amplificato dagli occhi di Rafael in cui per un istante soltanto l’ho visto riflesso e l’ho saputo, che quel dolore era tutto mio.
Mi alzo in piedi, mi rivesto.
Prima di uscire prendo un altro fazzolettino e sto per soffiarmi di nuovo il naso quando lo sguardo mi cade per caso sull’altro comodino.
Prendo in mano la fotografia.
Rafael e Juan sorridono all’autoscatto, Rafael sorride con questo sorriso che gli piega le labbra rosa e che ora so d’aver strappato in mille frammenti.
Sospiro.
Lascio la foto sul comodino, appoggiata alla piccola lampada, spengo la luce e mi affretto ad uscire.

***

Esco in strada, Mozart si spaventa e scappa via, corre in mezzo alla strada, una macchina inchioda, la gomma graffia l’asfalto, lo stridio delle ruote e il rumore brusco della frenata sovrastano il picchiettio ritmato e sempre uguale della pioggia.
No…
Ti prego…
Lei apre lo sportello e scende di corsa dalla macchina, lui la segue in strada.
Lei si accuccia davanti alla macchina.

«Ehi, gattino…»

Allunga una mano e fa dei versi per chiamarlo.

«Dio, è un gatto!»,

sbotta lui, esasperato.
Lei prende il gatto in braccio e si alza.

«Mozart»,

forse il mio sussurro la spaventa, le sue spalle sussultano e si gira di scatto.

«Ehi… stai… stai bene…?»

Fa un passo nella mia direzione.
Annuisco, allungo le braccia verso di lei.

«Ma… è il tuo gatto…?»
«È… è la… mia… g-gatta…»,

riesco appena a balbettare. Tiro su col naso.

«Ah…»,

mi lascia la gatta tra le braccia, Mozart inizia a fare le fusa così rumorosamente che può sentirle anche lei.

«Io… scusalo… è… è comparso all’improvviso e… io… io credo che stia bene…»

Qualcuno suona un clacson, un’altra automobile si è fermata dietro la loro e lui la chiama per ripartire.

«Mi dispiace… Ma penso che stia bene!»,

mi dice ancora lei prima di rientrare in macchina, ma figurati, il povero gatto sta sicuramente meglio di me.
Mozart…
…non ho che te…
Resto imbambolato sul posto, tiro di nuovo su col naso e non so distinguere le lacrime che mi cadono dagli occhi dalla pioggia che mi picchietta sulla testa, questa pioggerella sottile che quasi non si sente sulla pelle, che mi bagna i capelli e mi inumidisce le guance.
Stringo tra le dita convulse il suo bel pelo grigio, inzuppato di pioggia, gli artigli del gatto mi affondano nella carne fredda delle braccia, ignoro i suoi tentativi di liberarsi dalla presa disperata con cui me lo stringo al petto.
Diego…
Hai mai avuto uno scoppio di pianto così feroce da non fermare le lacrime?
Da non zittire i singhiozzi?
Due braccia forti mi stringono, sussulto spaventato e allento la presa.
Mozart si divincola, balza a terra.

***

Lascio la porta della casa socchiusa.
Sto per uscire e scendere in strada quando un gatto mi corre tra i piedi e s’intrufola nell’appartamento, spingendo la porta con il muso e spaventandomi anche un po’. Nel buio dell’atrio non l’avevo visto arrivare.
Già, un gatto.
Non riesco a evitare un tenue sorriso, gli angoli delle labbra si piegano verso l’alto.
Ora sì che si spiega tutto, gli occhi lucidi gli starnuti il naso che cola.
Scuoto piano la testa, dovrò buttare a lavare i vestiti.
Ho dimenticato il burro di karité.
Non ho nessuna intenzione di tornare a cercarlo.
Esco in strada e m’incammino deciso senza fermarmi a cercare Juan con lo sguardo, lo sguardo basso, solo la pioggia leggera che mi bagna la fronte con queste goccioline sottili e il fresco umido contro la pelle, sul viso, sulle mani e sulle caviglie.
M’incammino deciso, lo sguardo basso, e non cerco Juan con lo sguardo, perché ora lo so che non lo vedrò mai più e che quello era un addio e che la nostra storia d’amore ha esalato l’ultimo respiro, e non mi giro a cercarlo perché la fine è arrivata e anche se a dirgli addio non ero pronto quando si arriva così vicini alla fine è meglio andare da soli. E non mi giro a cercarlo perché non voglio vedere com’è finita, perché voglio immaginarlo, perché voglio pensare che sia finita bene perché spero tanto che Rafael ti perdoni, perché ho visto quanto ti ama e ho visto anche quanto lo ami.
E perché pensare che finirà bene mi scioglie un po’ questo nodo che fa male in fondo al petto.
E spero tanto…
…che Diego perdoni me.

***

Il gatto si divincola e balza a terra, anche Rafael strattona e cerca di divincolarsi ma lo stringo tra le braccia e non cedo alla gomitata che mi affonda tra le costole né ai colpetti confusi con cui cerca di farmi male sulle braccia né alle sue mani che tremano di rabbia e si aggrappano disperate alle mie mani e mi afferrano le dita e cercano di allentarne la presa, senza riuscirci, perché lo stringo così forte da farci male alle braccia e aderisco il petto alla sua schiena magra umida di pioggia e in quella stoffa umida affondo la fronte, cerco senza riuscirci di asciugarci le ciglia.

«Lasciami!! Subito!»
«No!»
«Schifoso! Lasciami! Non mi toccare!»
«Rafa ti prego–
«Stronzo!»
«Ti prego
… Mi sento una merda–
«Lo sei!»
«Lo so! Non mi lasciare!»
«Ma smettila! Frocio! Adesso non ti vergogni?»
«No Rafael non mi vergogno sono frocio e sono una merda ti prego non mi lasciare lasciali guardare non me ne frega ti prego è questo che sono che guardino tutti ti prego ti prego non mi lasciare…»

 

La sua voce si fa un sussurro confuso contro la mia spalla, Juan singhiozza patetico con la faccia affondata nella stoffa della maglietta e balbetta cose senza senso, mi soffia il respiro caldo sulla pelle bagnata che ad ogni respiro si scopre sempre più fredda.
Vorrei soffocare…
...ogni respiro che fai…*
[1]
Serro le mani attorno alle sue, non ho più forza se non nelle dita che stringono le sue mani piccole e rovinate, ci conficco dentro le unghie finché non le sento affondare nella carne sempre calda delle sue dita ma Juan non dice niente, Juan non fa niente, non molla la presa.
Passa qualche automobile e i fari ci illuminano impietosi e crudeli, restituiscono al mondo e a noi stessi il ritratto di questo dolore, due figure patetiche e grottesche sul ciglio della strada scalze seminude abbracciate immobili bagnate di pioggia e di lacrime, ma guardate pure! Non soffrite mai, voi?
Inclino appena la testa all’indietro e mi sorprendo a desiderare che Juan sia appena più alto per potergli appoggiare la nuca contro la spalla, le spalle che amo tanto, che ho sempre amato, vorrei che fosse più alto anche solo di dieci centimetri, adesso basterebbero, ma perché in preda al dolore si pensano sempre le cose più assurde?
Perché farti male è così difficile?
Inclino la testa all’indietro e guardo il cielo coperto di nuvole e la pioggia picchietta ritmata e sempre uguale sul mio viso e lava via le lacrime non appena si formano tra le ciglia e scivolano giù, e finalmente scopro la meraviglia del pianto, di questo pianto talmente feroce da non riuscire a zittire i singhiozzi, e mi appoggio al suo petto senza smettere di stringergli le mani di ferirgli le dita senza riuscire a rilassare i muscoli contratti della schiena delle spalle e delle braccia e lo so, che servirà tanto tempo per riuscire di nuovo a rilassarmi così a stretto contatto così contro il suo petto caldo e non lo so ancora, se a questo abbraccio disperato seguiranno
glaciali silenzi
ore di parole
urla
pianti
altri abbracci disperati
perdoni
insulti
porte sbattute in faccia
o timidi sorrisi,
mani che forse asciugheranno le lacrime dagli occhi arrossati
mani strette con forza a toccare le mani
o baci umidi di rugiada…
Non so ancora quando tornerà il giorno in cui tra le sue braccia forse meno disperate riuscirò finalmente a rilassare di nuovo i muscoli contratti e a chiudere gli occhi abbandonarmi al profumo e stringere le spalle che voglio credere di essere l’unico ad aver mai stretto mentre facevamo l’amore, non lo so quando arriverà quel giorno ma quello che so nel profondo è che se qualcosa potrà salvare questa relazione dal naufragio, se un giorno qualcosa potrà forse portarmi nel petto il perdono, se qualcosa mi darà mai pace so che sarà quel bacio, sarà quel bacio e saranno le parole di Diego il mio ragazzo mi tradisce.
O forse… sono io che mi lascio tradire…
Ed è per quel giorno, che adesso rientro in casa e non lo abbandono qui per sempre scalzo sotto la pioggia leggera.

***

Apro la porta di casa.
Sono stanco.
L’appartamento è buio e silenzioso. 
Ma soprattutto silenzioso.
Nessun brusio.
E questo è strano, perché la porta non era chiusa a chiave e quindi mi aspettavo di trovare Diego in salotto, perché è appena passata l’ora di cena, perché è proprio l’ora in cui Diego sta stravaccato sul divano a guardare la tv invece di venirmi incontro e sussurrarmi alle labbra ‘bentornato’, perché ogni ora è l’ora in cui Diego sta stravaccato sul divano a guardare la tv e invece ora il silenzio assoluto della casa all’improvviso cancella ogni traccia della nostra vita vissuta in due.
Scrollo le spalle.
Sarà uscito dimenticandosi di chiudere a chiave la porta.
Tolgo le scarpe mentre cerco di far tacere quest’orrendo sospetto che mi stringe le viscere e mi rosicchia da dentro.
Ma dove sei?
Mi hai tradito?
Scuoto la testa, cerco di non pensarci, tolgo le scarpe e lascio che la giacca sgoccioli sul pavimento.
La pioggia precipita al suolo e forma una piccola pozzanghera, questa pioggia che mi ha lavato la pelle e la coscienza, quasi che a lavarmi la pelle potessi davvero ripulirmi dentro, lavare via il ricordo di Juan troppo bello e troppo brutto per non paragonarlo ad una malattia mortale da cui il mio cuore guarirà, il ricordo di Rafael troppo brutto e basta, perché uno dei due o io o lui doveva semplicemente non esistere, per non fare male, il ricordo del ragazzino di vent’anni che sono stato tanti anni fa e che si affacciava all’amore convinto di essere appena migliore, non tanto, in realtà, ma forse un po’ sì, convinto fino all’ultimo di poter essere il fidanzato perfetto che non sono mai stato.
Questa pioggia è proprio quello che ci voleva per concludere la giornata, per iniziare una nuova vita, la vita che sempre inizia dall’acqua, dai liquidi.
Anche la mia nuova vita inizierà dai liquidi, e il liquido sono le lacrime che ho visto come un velo sugli occhi di Rafael, il liquido è questa pioggia che mi ha allentato un po’ il nodo che faceva male nel petto e il liquido è il succo di frutta alla pesca.
Entro in cucina, accendo la luce, apro il frigorifero, prendo il cartone del succo di frutta, quando ho aperto quello alla pera?, chiudo il frigorifero, prendo un bicchiere, verso il succo di frutta nel bicchiere, ce n’è così poco da riempirlo solo di un paio di dita, bevo lentamente il succo freddo stringendo il vetro freddo tra le dita e quando non ce n’è più neanche una goccia appoggio il bicchiere nel lavello.
Ci lascio scorrere dentro un po’ d’acqua fredda. Lo sciacquo, senza sapone, passo le dita sulla superficie gelida bagnata dall’acqua gelida per ripulirlo. Lo asciugo.
Asciugo le mani.
Lo rimetto al suo posto.
Verso un pochino d’acqua nel cartone vuoto, lo scuoto.
Lo svuoto.
Lo accartoccio e lo getto via differenziando il tappo nella plastica e il contenitore nella carta.
Questo è il primo passo della mia nuova vita.
Esco dalla cucina.
Voglio farmi un bagno.
Voglio spogliarmi di tutti vestiti, buttarli a lavare e liberarmi degli allergeni del gatto, come chi si libera di una giornata troppo pesante, come se lavare i vestiti potesse bastare a ripulirmi la coscienza.
Voglio raschiarmi via il Moschino dalla pelle.
Ma prima voglio accasciarmi sulla poltrona in stile vittoriano e chiudere gli occhi e affondare il viso tra le braccia e forse dormire, o piangere forse, ricordare per l’ultima volta o per l’ennesima volta.
Voglio accasciarmi sulla poltrona e aspettare Diego, se mai tornerà, voglio trovare le parole giuste per dirgli che di mentire non ho più voglia, a nessuno dei due.
Entro in salotto e accendo la luce.

«Aah!»

Cristo santo, che spavento!

«Mi hai fatto paura!»
«Scusa»

Diego è seduto sul divano, alza la testa e mi guarda negli occhi.

«Ma…»,

mi porto una mano al petto, il cuore batte furioso,

«Che facevi al buio?»

Scrolla le spalle, non risponde.

«Pensavo non ci fossi…»
«Perché sei già a casa?»

Non ha nessuna intonazione particolare, nessuna espressione.
Faccio un lungo sospiro, mi prendo il tempo che mi serve.
Mi avvicino al divano, mi accuccio davanti a lui, gli appoggio le mani sulle ginocchia.
Picchietto i polpastrelli sulla stoffa dei pantaloni, dal mignolo all’indice, con un solo colpo secco, e poi di nuovo dal mignolo all’indice, un altro colpo secco, e così via, senza dire niente e senza guardarlo.

 

Non dico niente, gli osservo solo le dita bianche e lunghe, con le nocche grandi e le ossa che formano un disegno in rilievo e sembrano parlare, anche ora che Andrés sta zitto.

«Diego… io devo dirti una cosa…»

Parla con la voce bassa e grave di chi il nodo non se lo tiene più dentro, e questo mi fa paura.

«Non dirla»
«No, ascolta»,

alza lo sguardo su di me e il suo sguardo è deciso, fermo,

«Io–
«Andrés non voglio saperlo»,

gli appoggio una mano sulla mano e la stringo appena,

«Va bene così»
«No…! Non va bene…!»

Sussurra con gli occhi lucidi, sembra deglutire a fatica, la pietra dura del suo pomo d’Adamo si alza e si abbassa,

«Se non mi fai parlare, io…»
«Non dire nulla»
«No, tu non capisci! Io non sono come pensi tu!»
«Lo so»

Spalanca gli occhi e scuote la testa, il labbro inferiore trema appena, gli premo con forza una mano contro la bocca prima che parli e soffoco su quelle labbra ogni parola.

«Andrés, ho capito, lo so. Non dire altro, ti prego. Io l’ho capito…»

Neanch’io sono come pensi tu.
Chiude gli occhi.
Si alza lentamente, interrompe il contatto.
Mi alzo insieme a lui.
Mi appoggia la fronte sulla spalla, mi circonda la vita con le braccia.
Inizio ad accarezzargli lentamente la schiena.

«Ehi…»
«Mh…?»
«Ultimamente, mi sembri molto stanco… Forse… posso farti un massaggio…?»

Annuisce, senza alzare la testa dalla mia spalla.

«Grazie…»,

lo sento mormorare contro il mio petto.
In questo abbraccio stanco sento sulla pelle di entrambi l’odore di un altro uomo.
L’amato, l’odiato profumo, lo sento e lo so che da qualche parte nel mondo c’è uno stronzo con lo stesso profumo di Rafael e non lo so, se questo profumo mi piace oppure no, e penso che mai lo saprò, ma già l’ho capito, che Moschino mi rimarrà per sempre nel petto.

 

Respiro sulla mia pelle il suo profumo, anche adesso porto Moschino nell’aria: il profumo di una storia d’amore mai nata, di una storia d’amore rinata e di una storia d’amore ferita. Il profumo di questo amore rinato che mi trema nel petto, spaventoso e spaventato. Il profumo di questo amore fragile che forse si salverà dal naufragio.


 


 

*[1] Frase ispirata alla canzone dei Modà, Meschina, “[…] che soffocherei… tutti i respiri che fai”.



Ringraziamenti

Ringrazio mia sorella eos_92 per aver letto in anteprima questo racconto e per aver ragionato pazientemente con me su ogni aspetto di cui io avessi voglia di ragionare; ringrazio taemotional per aver letto anche lei la storia in anteprima, per aver ragionato con me sui nomi dei personaggi e per aver realizzato il banner a inizio capitolo; questo racconto originariamente era stato pensato come fanfic sugli SHINee, che ho effettivamente pubblicato qui su EFP con il titolo "Il Castello dei Destini Incrociati": rinnovo dunque i miei ringraziamenti a chiunque ho già ringraziato in quella sede.
Ringrazio di cuore chiunque abbia letto fin qui, chi ha impiegato del tempo a lasciarmi un commento, chi ha inserito questa storia tra le seguite, le preferite o le ricordate.
  
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Introspettivo / Vai alla pagina dell'autore: Orient_Express