Quando
riaprii gli occhi il mio sguardo era annebbiato e sentivo gli occhi
gonfi.
Il mio corpo era un qualcosa quasi staccato dalla mia
coscienza, estraneo alla mia volontà. Non riuscivo a dare
alcun
ordine di movimento nemmeno alle gambe, ero totalmente irrigidita.
E
in effetti avevo freddo. Ero stretta convulsamente alla coperta di
lana ma riuscivo a vedere la neve che cadeva fuori e sentivo il gelo
penetrare dalla finestra come mille aghi che mi pungevano la
pelle.
Dovevo alzarmi e allontanarmi dall’apertura.
Ma ne
valeva veramente la pena?
In quegli ultimi mesi non mi ero mai
resa conto di quanto la mia vita fosse pericolosamente in bilico. Mi
ero limitata a stringere i denti e a concentrarmi su tutto
fuorché
la mia condizione. Avevo indirizzato ogni mio singolo pensiero
all’uovo, al drago, al cavaliere, al futuro di
Alagaësia, come
avevo sempre fatto nella mia vita. E tutto quello senza rendermi mai
conto che quasi sicuramente io non avrei mai fatto parte di quel
futuro. La mia condizione mi impose di essere egoista, per una volta,
ed ebbi paura.
Fu in quel momento che capii con orrore di stare
morendo. Un velo di lacrime appannò ancora di più
la mia già
confusa vista.
Anni di sacrifici e sofferenze e me ne sarei andata
così. Sola, abbandonata a me stessa, strappata alla vita da
una
stupida e banalissima febbre che non potevo curare.
Non sentii
Durza entrare, lo vidi quando era già chino su di me, ma non
riuscivo a distinguere bene i suoi lineamenti. L’unica cosa
che
riuscii a percepire fu il rosso dei suoi capelli. E il suo odore di
menta, ovvio.
Conobbi d’un tratto una strana leggerezza. Almeno
non ero più sola, non volevo andarmene da sola.
Cercai di muovere
le labbra in quella che sicuramente sarebbe stata una supplica, ma mi
sentivo la gola arida e la voce impastata.
Poi d’improvviso
qualcosa di fresco si posò con sicurezza sulla pelle sudata
e
bollente di febbre della mia fronte.
Mi diede un sollievo
immediato, anche se non diminuì il freddo che sentivo
addosso. Capii
che era la mano di Durza. In un attimo di lucidità, sentii
le parole
dello Spettro riecheggiare quasi dolorosamente nella mia testa,
mentre la sua mano mi sfiorava con leggerezza il viso.
«Sei una
stupida, Elfa» gracchiò. E nella sua voce percepii
il panico.
Poi
la mano si scostò, e fu di nuovo il buio.
Disperata, smarrita, al
limite della sopportazione fisica, afflosciai il capo sul legno del
giaciglio.
E mi abbandonai alla morte.
Un silenzio pacifico
mi avvolgeva in maniera totale ed ero al caldo, finalmente. Il mio
corpo non bruciava più per la febbre, non mi era
più difficile
respirare.
Ero morta?
Beh se era così bello morire, avrei
dovuto farlo prima.
Ma fui presto smentita. Sentivo dolore in ogni
parte del corpo, ed era così presente da dover essere vero
per
forza.
Cercai di aprire gli occhi, ma c’era troppa luce, non ci
riuscii.
Crollai in un sonno nero e privo di qualsiasi
percezione.
Il cigolio di una porta che si apriva, il fruscio
di passi leggeri, il respiro di un’altra persona in piedi
accanto a
me.
«Ebbene?» domandò una voce.
Il suono mi giunse
lontanissimo, come se venisse da un’altra dimensione.
Una mano
piccola, morbida e calda, si posò sul mio viso e lo
sfiorò
delicatamente, per poi ritrarsi.
Un’altra voce, probabilmente
del proprietario della mano si librò nell’aria.
Era dolce, soave,
incredibilmente argentina e musicale.
Ma le parole che pronunciò
mi turbarono.
«Complimenti, mio signore. Hai tra le mani
nientemeno che la.. » un sottile fischio di approvazione
precedette
il resto della frase «la principessa degli Elfi, Arya di
Ellesméra,
figlia della regina Islanzadi e del re..»
«Puoi andare».
Una
voce incolore e fredda. Durza.
I passi leggeri frusciarono
nuovamente via.
Il respiro calmo accanto a me persisteva.
Volevo
alzarmi, ma la stanchezza ebbe la meglio su tutto e piombai
nuovamente nell’oblio, cullata da quel suono ripetitivo e
regolare.
Non avrei ricordato quella breve conversazione. Se non
molto tempo dopo, quando sarebbe stato troppo tardi.
Quando
aprii finalmente gli occhi, pensai di stare ancora sognando. La luce
rossastra di una candela posata accanto a me ingentiliva le pareti di
pietra grigia della stanza sconosciuta in cui mi trovavo.
Lasciai
correre pigramente gli occhi intorno a me. Era un ambiente spoglio,
arredato con il solo letto in cui ero distesa -un vero letto! Con un
vero materasso di paglia- e privo di finestre. Capii di essere ancora
nelle prigioni sotterranee perché l’aria sapeva di
marcio ed
umidità.
A quel punto mi concentrai su me stessa. Ero decisamente
viva. Respiravo ed ero piuttosto indolenzita.
Stirai le braccia e
le gambe e mi lasciai sfuggire una smorfia. Le croste delle ustioni,
dei graffi e delle frustate, tiravano dolorosamente.
Scostai la
coperta pesante sotto cui ero accoccolata e mi alzai cautamente in
piedi.
Niente febbre, niente tosse, niente mal di gola ed
equilibrio stabile. Perfetto. Rispetto alle mie ultime condizioni,
ero decisamente in forma. Avevo solo una fame terribile.
Indossavo
anche abiti puliti, che non mi appartenevano. Una pesante camicia
bianca e troppo grande, che mi raggiungeva quasi le ginocchia, con le
maniche arrotolate sui polsi e un paio di pantaloni di lana grigia,
da contadino. In compenso ero ancora scalza e c’era una conca
rossastra per ogni unghia dei piedi che mancava.
Qualcuno mi
doveva anche avere fatto un bagno perché la mia pelle era
pulita e i
capelli non erano più sudici. Mi strinsi una ciocca tra le
mani e la
portai alle narici. Muschio. E salvia, forse. Chiunque mi avesse
lavato i capelli lo aveva fatto con degli oli profumati.
Ma
chi..?
Durza?
Oh. Speravo vivamente di no! Teoricamente avevo
ancora una dignità. Sentii le orecchie andarmi in fiamme.
In ogni
caso mi aveva guarita. Perché lo aveva fatto?
Dei passi
riecheggiarono fuori dalla porta e riconobbi immediatamente la
camminata rapida del mio nemico.
Lo Spettro aprì la porta
distrattamente, sovrappensiero, e sussultò quando mi vide
alzata.
«Oh bentornata tra noi Elfa!» esclamò
con aria
sorpresa. «Non mi aspettavo di trovarti in piedi».
«Mi hai
curata» decretai, con una tale sicurezza che parve
un’accusa.
Durza
si ricompose e mi gettò un’occhiata vacua.
«Te l’ho già detto:
morta non mi servi, non ancora».
In condizioni normali mi sarei
dovuta inchinare a baciargli le mani per ringraziarlo della sua
cortesia. Ma insomma.. non ero propriamente di fronte ad un qualsiasi
uomo di quella terra.
Ma la mia buona educazione ebbe comunque un
minimo di sopravvento.
«Grazie» dissi coincisa.
Esibì un
ghigno. «Non sforzarti di ringraziarmi. Fidati quando ti dico
che
non l’ho fatto certo perché tenevo alla tua
salute».
I suoi
denti erano regolari e stava masticando una foglia di menta. Doveva
essere un vizio, come quello di Brom di fumare la pipa e quello di
Oromis di fissare il vuoto.
Sollevai una ciocca dei miei capelli.
«Muschio e salvia?»
Si strinse nelle spalle. «Mi pare meglio di
niente».
Lasciai ricadere il braccio e lo fissai arrabbiata ed
imbarazzata. «Hai criticato con tanta asprezza Lord Barst per
il suo
comportamento svergognato e poi ti sei anche permesso di farmi un
bagno?»
«Non mi permetterei mai» ribatté lui
posandosi la mano
sul cuore in un ironico giuramento. «Il bagno te lo ha fatto
una mia
serva, ma se lo desideri me ne occuperò personalmente da
oggi in
poi».
Gli tirai un debole pugno sulla spalla e solo in quel
momento mi resi conto di quanto le mie forze fossero ancora fiaccate.
«Non osare».
«Come preferisci» si chinò fino a
sfiorarmi
l’orecchio con la bocca, «Principessa».
Sobbalzai. E
Durza rise.
Come..? Ricordai all’improvviso quello che mi aveva
detto quando mi aveva rivelato di sapere cos’era lo
Yawë.
Sappi
che verrò a sapere tutto prima o poi, che tu collabori o
meno. Ho i
miei mezzi.
Deglutii. A quanto pareva ci stava riuscendo
perfettamente.
Lo Spettro mi girò intorno con calma inquietante.
«Principessa Arya dunque? E guardiana della pietra.. E
ambasciatrice, anche. Notevole. La vostra specie è stupida
al punto
di mandare i reali in missioni pericolose quale la tua, oppure siete
veramente a corto di guerrieri capaci?»
Non risposi alla
provocazione e rimasi immobile.
Ma mentre mi era alle spalle,
sentivo una morsa di inquietudine serrarmi lo stomaco. Non sapevo
cosa aspettarmi da lui. Mi aveva guarita, ma mi aveva anche fatto
capire che il suo non era stato un gesto di pietà.
Si fermò
accanto a me. «Potrei chiedere un riscatto per una merce di
tale
valore, che dici?»
Con le labbra serrate per la rabbia mi voltai
nella sua direzione. «Credi davvero che gli Elfi siano
disposti a
cedere qualcosa per riavermi indietro?» sibilai.
«Ti sbagli di
grosso».
L’espressione di Durza si accigliò e si
indurì. «Non
farmi ridere, sei la loro principessa».
«Ti ho già detto di non
pretendere di conoscermi, Spettro. Io ricopro tutti questi ruoli
perché così ho voluto. E non dare per scontato
che il mio popolo
sia così debole da cedere ad un ricatto. Gli Elfi sono
pronti a
sacrificare senza esitazione se stessi e gli altri per il bene
superiore. E in questo momento il bene superiore è liberare
Alagaësia dal dominio del tuo re assassino».
«Quello lo avevo
capito. Ma la solidarietà che avete tra di voi è
scarsina».
Alzai
il mento. «Lo scopo finale è più
importante della mia vita».
Mi
afferrò una mano. «Quindi mi stai suggerendo di
tenerti con me
ancora qualche mese».
Lo guardai sospettosa mentre osservava la
mia mano con interesse. «Se non avessi voluto tenermi qui mi
avresti
lasciata morire» osservai.
«Forse». Accarezzò il dorso della
mia mano.
La ritrassi rapidamente. Durza alzò gli occhi sui miei
e vi lessi uno strano turbamento.
«Mi hai costretto, Elfa. Non mi
lasci altra scelta».
«Cosa?» soffiai confusa.
Mi afferrò
gli avambracci e chiuse gli occhi. Un istante dopo la mia mente
subiva un attacco talmente violento che non riuscii a fare
nient’altro se non concentrare tutte le mie energie per
difendermi
e ritirarmi in me stessa.
L’assalto non aveva un fronte solo, ma
veniva da almeno quattro punti e la sua forza circondava la mia
coscienza in maniera totale.
Controllai rapidamente tutte le mie
barriere e svuotai la mente. La situazione rimase di stallo
così a
lungo che le gambe cominciarono a tremarmi, così come
tremavano le
labbra sottili e crudeli dello Spettro.
Dovevo trovare un modo per
distrarlo e liberarmi dal suo assalto. Qualsiasi cosa.
Finii per
afflosciarmi a terra e l’idea fu talmente azzardata che
funzionò.
Durza fece un’espressione sorpresa mentre gli cadevo inerte
tra le
braccia e una piccola breccia si aprì nella sua mente. Ne
approfittai e lo assalii.
Lo Spettro urlò e battito di cuore dopo
un fiume di immagini e ricordi non miei si riversò nella mia
mente.
Carsaib si era allontanato parecchio dal suo maestro, lo
sapeva. Ma lui si divertiva così e Haeg lo lasciava fare
perché
sapeva di poterlo ritrovare con facilità e perché
sapeva che ogni
tanto aveva bisogno di stare da solo per non impazzire dal dolore per
il ricordo della sua famiglia massacrata. Ma ormai erano passati
tanti anni e il ragazzo aveva imparato a convivere con la
sofferenza.
In quel momento avvistò lo stesso Haeg, l’uomo che
lo aveva preso con sé come se fosse un figlio, che si stava
avvicinando tra la distesa di sabbia e arbusti, ridendo come un
matto.
«Carsaib!» gridò. «Aspettami
ragazzo!»
Ma lui non
aveva intenzione di muoversi di un pollice e aveva già
posato le
bisacce a terra. Gli sorrise, malandrino. «Ho trovato una
sorgente!
Ma se non ti sbrighi si prosciugherà!»
Senza abbandonare il
sorriso si voltò in direzione dello specchio
d’acqua. Una folata
di vento gli scostò il cappuccio del mantello dal viso e lui
intravide nell’acqua il riflesso di un giovane uomo alto, dal
viso
ovale, gli occhi castani così brillanti da sembrare fatti di
luce
pura e una cascata di capelli scarlatti lunghi fino alle
spalle.
Guardò con attenzione e capì di essere lui
stesso. Era
da tempo che non guardava la sua immagine. Erano cambiate molte cose
da quando sua madre possedeva ancora uno specchio d’argento..
Il
ricordo gli procurò una lancinante fitta di dolore al
petto.
«NO!»
L’urlo che mi trapassò dolorosamente le
orecchie era reale.
Misi a fuoco il viso di Durza e non cercai
nemmeno di trattenere lo stupore quando riconobbi i tratti del
ragazzo che avevo visto un istante prima. La pelle era decisamente
molto più pallida e le iridi rossicce, i capelli tagliati
corti, la
mascella più pronunciata e i lineamenti più
maturi. Ma per il
resto..
Lo Spettro stava sudando copiosamente e aveva gli occhi
fuori dalle orbite mentre cercava di riprendere il controllo della
sua mente.
Il controllo della sua mente. Che avevo avuto io.
Mi
lanciai nuovamente all’attacco. Era la mia occasione. Era la
mia
prima, unica occasione da mesi. Ma non riuscii a respingere
l’ennesima ondata di immagini
Carsaib era distrutto.
Fisicamente e spiritualmente. Il suo maestro, il suo secondo ed
ultimo padre era morto. Anche Haeg era sparito tra le ombre, anche
lui lo aveva abbandonato. Era solo.
Le gambe gli tremavano per lo
sforzo di contrastare la tempesta di sabbia che si stava scatenando
da quelle che sembravano ore. Aveva un braccio ripiegato sugli occhi
per proteggerli e tuttavia nemmeno quello riusciva a frenare le
lacrime che gli stavano inondando le guance, inumidendo le labbra
aride e spaccate.
Inciampò e cadde. Gridò quando una pietra gli
urtò le costole, mozzandogli il respiro.
Rimase disteso a terra,
senza le forze necessarie per rialzarsi.
Haeg era morto perché
lui non era stato abbastanza forte da difenderlo. Era rimasto con il
suo maestro per degli anni, eppure non era riuscito a diventare
abbastanza potente per riuscire a fermare i predoni che li avevano
assaltati. E Haeg era corso incontro alla sua morte per salvarlo.
Un’ennesima volta.
Uno straziante grido di rabbia e sofferenza
scivolò tra le sue labbra.
Lo avrebbe vendicato, sì. Avrebbe
chiesto aiuto agli Spiriti più potenti che conoscesse.
Conosceva i
rischi, li conosceva benissimo, ma non gliene importava più
nulla.
Comportarsi in maniera irreprensibile non era servito a
salvare il suo maestro e neppure la sua famiglia.
Si sarebbe
spontaneamente consegnato alle ombre se quello gli avesse permesso di
mettere fine al dolore dilaniante che sentiva dentro. E sapeva che
l’immagine di Haeg sanguinante non l’avrebbe mai
abbandonato se
non lo avesse vendicato.
Si alzò in piedi con nuova
determinazione. Se la vendetta era la soluzione, era pronto a
diventare qualsiasi cosa pur di realizzarla. Anche uno Spettro.
«ELFA
ESCI DALLA MIA TESTA!» sbraitò Durza.
Con una rapidissima azione
mi respinse, riunendo la sua mente alle altre tre e
ricostruì le sue
barriere. Boccheggiai per l’improvvisa violenza e
indietreggiai
fino a cadere a sedere sul materasso. Mi afferrai la testa cercando
disperatamente di mettere ordine tra i miei pensieri e i ricordi
dello Spettro.
Uno schiaffo fortissimo mi rivoltò il viso
dall’altra parte. Prima che avessi il tempo di reagire Durza
mi
afferrò per la gola e mi sollevò da terra.
«Brutta sgualdrina!»
imprecò ansimando, le iridi da gatto a scavarmi la
coscienza. Non
mancai però di notare che i suoi occhi erano lucidi e folli,
ardenti
di una rabbia che raramente gli avevo visto.
Gli artigliai le mani
che mi serravano il collo scalciando con i piedi.
Non riuscivo a
respirare.
Lo Spettro parve finalmente rendersi conto che se
avesse continuato in quella maniera mi avrebbe uccisa e
allentò la
presa, permettendomi di poggiare i piedi a terra. Tossii.
Un altro
schiaffo mi raggiunse in viso. «Non farlo mai
più!» sputò.
«Hai..
hai cominciato tu» balbettai, cercando di riprendermi.
«Non
prenderti gioco di me, Principessina».
«Durza lasciami»
ordinai, riuscendo persino ad apparire calma.
Con evidente
riluttanza, lo fece. Poi si volse in direzione della porta.
«Dimentica» disse solo.
Mi massaggiai il collo. «Chi era
quell’uomo?»
Mi fulminò con un’occhiataccia stizzita. Va
bene, me l’ero cercata. «Mi sembra di averti detto
di
dimenticare».
Presa da un improvviso assalto di spavalderia,
spinsi il mento in fuori. «Costringimi».
Lo Spettro si precipitò
nella mia direzione ringhiando rabbiosamente. «Ho tutti i
mezzi che
mi servono per farlo».
«Finora non ti è andata molto bene, no?»
Evidentemente avevo trovato Durza in un momento di debolezza. E
la tentazione di approfittarne per fare a lui anche solo un millesimo
di tutto il male che avevo subito io era troppo allettante.
«È
dunque questa la grandezza degli Elfi? Tu non sai niente»
scandì,
«eppure ti permetti di giudicare».
Alzai il mento. «So di te
più di quanto tu sappia di me».
Rise, una risata aspra che non
gli si trasmise agli occhi. «E da quali fonti di
grazia?»
«Ajihad»
dissi semplicemente.
La reazione dello Spettro fu spropositata. Il
pallore cadaverico del suo viso assunse un minimo di colore, un nervo
del collo si tese pericolosamente e un paio di capillari uscirono in
rilievo sulla sua fronte.
«Non nominare il suo nome di fronte a
me».
«Deve essere difficile accettare di esserti lasciato
fuggire un umano, un umano che è anche riuscito a rovinarti
l’arma».
«Non credere che mi irriti così tanto il
graffietto
sulla mia spada. Quello è stato frutto di un incantesimo
bastardo,
perché nessun materiale al mondo potrebbe scalfire la mia
lama. E ti
posso assicurare che non è stato lui a farlo. Se non fosse
intervenuta.. una persona in suo aiuto, non ce l’avrebbe mai
fatta
a sfuggirmi». Scosse rabbiosamente la testa. «Ma
quell’uomo..
merita la morte più di quanto la meriti io».
Distolse lo sguardo e
ispirò profondamente, cercando di recuperare un minimo di
controllo.
«Faresti meglio a tacere» lo informai freddamente.
«Ajihad sta combattendo per la libertà da decenni,
e lo fa
egregiamente. Difende i deboli e gli oppressi dal tuo re con
un’energia non indifferente. È il miglior capo che
i Varden
potessero desiderare e non puoi nemmeno osare a paragonare la tua
vita alla sua».
«I Varden seguono un assassino» disse. La sua
rabbia era sfumata in qualcos’altro. Un dolore ed un
rimpianto
antichi e profondi come solo il mare poteva essere.
Scacciai il
turbamento che mi sovvenne in seguito alle sue parole. Stava mentendo
sicuramente, probabilmente stava solo cercando di screditare Ajihad
ai miei occhi. E io sapevo benissimo di chi fidarmi dovendo scegliere
tra lui e il capo dei Varden.
Durza mi guardò con serietà.
«Anche tu credi alle favole che ti racconta? Sei ingenua,
piccola
Elfa. Ma del resto è sempre così, solo coloro che
non temono di
mostrare gli orrori di cui ci siamo macchiati vengono additati come
male, mentre chi li cela riesce a nascondersi dietro una maschera e
mischiarsi al gregge, come un lupo tra gli agnelli».
«La tua è
invidia» decretai, recuperando parte della mia freddezza.
Il
sorriso diabolico che gli deformò le labbra parve una
conferma.
«Dovrei punirti in maniera diversa» disse
lentamente, afferrandomi
per le spalle e facendomi indietreggiare fino a che la mia schiena
non venne in contatto con la parete di pietra gelida della
stanza.
Presi a dibattermi, ma Durza mi bloccò, appiccicandosi a
me al punto che sentii addosso ogni pollice del suo corpo granitico,
i suoi capelli sul viso, le sue gambe mischiate alle mie.
Il
respiro mi si mozzò in gola. Restai a fissare il suo volto
niveo,
atterrita, senza capire bene cosa volesse fare. I suoi occhi avevano
di nuovo quella strana luce, di odio, di dolore, di rabbia e di
follia.
Chinò lievemente il capo di lato. Sentii il suo fiato
freddo accarezzarmi il collo.
Un tremito involontario mi salì tra
le vertebre e mi squassò le membra.
«Togliti» ordinai, con la
voce strozzata per la paura.
Durza rise piano. «Quando imparerai
a rispettarmi, forse».
Soffiò delicatamente sulla mia pelle,
facendomi venire i brividi.
«Finiscila» protestai cercando uno
spazio tra di noi per poter puntellare le mani su di lui e
allontanarlo da me, «mi fai freddo».
Mi afferrò le mani e me le
bloccò lungo i fianchi. «Ah, dunque hai
freddo..»
A quel punto
furono le sue labbra a toccare la mia pelle.
Rimasi immobile e
rigida come un pezzo di legno mentre Durza chiudeva la bocca sulla
mia gola, con forza. Un bacio caldo, poi un altro, un altro e un
altro. Scese fino alla clavicola.
«D-Durza smettila» lo ripresi
flebilmente, sconvolta dal suo comportamento, perdendo ogni ferreo
autocontrollo sull’espressione del mio viso, che
rifletté i miei
sentimenti.
Ed era così vicino che sentii il suo petto scuotersi
alla risata crudele che gli arrivò alle labbra.
Sollevò la testa
e si staccò lievemente da me, giusto lo spazio necessario
per
portare il viso all’altezza del mio. I nostri nasi quasi si
toccavano.
Sgranai gli occhi. «Hai finito?» chiesi con voce
stridula.
«No» fu la secca risposta, accompagnata da
un’espressione maligna.
Mi divincolai nervosamente. «Non vorrai
ridurti ad approfittarti di me Spettro..»
Voleva essere
un’osservazione ironica, ma mi resi conto di temere che
quella
possibilità non fosse poi così assurda. Avrebbe
benissimo potuto
farlo, non ero in grado di contrastarlo, anche se dopo
l’episodio
con Barst mi ero sentita al sicuro sotto quel punto di vista.
«Non
sono ridotto male a tal punto» mi informò
scrutandomi il viso e
sollevando le sopracciglia quasi con stupore. Cercai di recuperare il
mio contegno e la mia maschera di impassibilità, ma quella
svanì
non appena Durza tornò a respirare sul mio collo.
Mi morse, tanto
che sobbalzai sentendo i suoi denti appuntiti graffiarmi appena, ma
poi prese a succhiare delicatamente la mia pelle. Poi con forza
sempre maggiore.
Ero indignata, inorridita, schifata. Ma non potei
fare nulla per impedirgli di fare ciò che voleva.
Quando lo
Spettro si staccò da me e mi lasciò andare,
riuscii finalmente a
respirare in maniera più tranquilla. Con qualche spanna di
distanza
tra di noi, mi sentivo più padrona della mia situazione.
«Perché?»
chiesi sfiorandomi il punto in cui mi aveva toccata.
«Per
punirti» ringhiò. «Hai ragione tu, le
torture su di te non
funzionano come dovrebbero. Ma questo..» rise gelidamente,
disegnando un piccolo cerchio sulla mia gola «..forse questo
ti
resterà più impresso»
Mi voltò bruscamente le spalle e sbatté
la porta.
«Domani si balla bellezza» sussurrò
dolcemente, dallo
spioncino.
Era la minaccia più spaventosa che mi avessero mai
rivolto ed ebbe il potere di rievocare in un solo istante una serie
infinita di immagini e sensazioni spiacevoli.
Poi mi ricordai che
lo Spettro mi aveva baciato il collo. Con una smorfia schifata mi
diressi al catino e mi affrettai a gettarmi dell’acqua gelida
sulla
pelle.
Nella penombra della mia cella impiegai diversi istanti
prima di notare una macchia appena più scura
all’altezza della
gola.
Solo in quell’istante capii in maniera totale cosa aveva
voluto dire lo Spettro.
Sulla giugulare, nonostante la mia pelle
scura, spiccava un livido violetto, risultato dei suoi baci non
richiesti.
Marchiata.
Era una delle cose più umilianti
che avessi mai subito in vita mia. O per lo meno rientrava tra le
prime dieci. Molte, guarda a caso, dovute a Durza.
Colpii
rabbiosamente l’acqua, cancellando la mia immagine.