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Autore: Il_Club_Delle_Felci    19/04/2013    2 recensioni
Lei è la classica pecora nera, lei è la non voluta.
Lei è una potenza gelida e distruttiva, lei è la non amata.
Lei è sarcasmo allo stato puro, lei è solo una ragazza.
Lei ha un nome, si chiama Eve.
Ma questa lei ha anche dei sentimenti.
E, sorprendentemente, saranno degli anelli di cipolla a costringerla a rivelarli.
Muovendosi in una città fuori dal tempo, riuscirà Eve a scoprire il suo destino trovando finalmente il suo passato?
FF scritta a 4 mani :3
Ci troverete anche l'ammhore e parecchio sarcasmo.
Durrie e Donnie
(questa storia è stata pubblicata su altri siti con account diversi, quindi NON DENUNCIATECI PER PLAGIO, siamo sempre noi due!)
OGNI 100 VISUALIZZAZIONI VI PERVERRA' UN SIMPATICO VIDEO IN CUI DAREMO SFOGO ALLA NOSTRA DEFICIENZA BALLANDO PER IL VOSTRO DILETTO.
Genere: Commedia, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 10 GIUNGIAMO DALLA MORTE PER CRETINAGGINE, MA VOI NON SAPRETE PERCHE'. MUHAHAHAHAHA.

E per festeggiare come si deve, eccovi il capitolo 10.
Let's read! :3
As usual, grazie a chi ci recensisce e segue nonostante i ritardi ^^'
(colpa della Beta, obvio)
Un bacione,
Durrie e Donnie

Ah, e giusto perchè siamo un'associazione a delinquere culturale: oggi è la festa di Baron Samedi, Loa che attende le anime dei defunti durante il loro passaggio nell'aldilà.
(voodoo time, yay XD)

Anelli di cipolla

Capitolo 10

 

 

Mattina.

L’aria frizzante mi accarezzava la pelle in mille onde pungenti, soffermandosi poi a giocare allegramente tra le tende arancioni e crema della mia finestra. 
Mi ero appena alzata, erano più o meno le 6:45 del mattino, un’alba stupenda tingeva di rosso e rosa il cielo, dovevo ancora prepararmi per scuola e già non vedevo l’ora di sentire la campanella che ci avrebbe mandato tutti a casa. 
La sveglia tipica di una liceale media.
Ah dolce, dolce normalità. 
Magari fosse stato solo quello, magari fosse stato tutto così semplice…


Mi ero svegliata da un bel po’, gli occhi fissi sulla volta del soffitto, cercando una qualche traccia di comprensione negli sguardi vuoti degli dei dell’affresco. 
A volte mi sembrava di cogliere un qualche brillio compassionevole, ma non appena mi distraevo anche solo una frazione di secondo quelle espressioni ieratiche alle quali ero tanto abituata si trasformavano in ghigni feroci, in volti distorti dall’odio e dalla collera.

Mi sa proprio che qualcuno li avrebbe fatti presto ridipingere.

Mi stropicciai la faccia con la mano, grugnendo con la mia tipica finesse, e infine mi decisi a muovere il culo per prepararmi ad affrontare la giornata. 
Evvaaaaaai
.
Balzai in piedi con un brio che non mi apparteneva e mi buttai a capofitto nell’armadio per cercare qualcosa che potesse adattarsi al mio umore pigro. 
Riemersi con una bracciata di maglie, un due/tre paia di pantaloni e qualche maglione, che buttai senza troppi crismi sul letto ancora sfatto, sbuffando. 
Iniziai a disincastrarmi dal pigiama, nel mentre valutando cosa avrei potuto indossare quel giorno.
Uff, la moda non è proprio mai stato il mio forte, fosse per me jeans e maglietta andrebbero bene sempre e comunque, ma guai a uscire vestita sciattamente con mia madre nei paraggi.
Sarebbe stata capace di farmi saltare scuola per condannarmi allo shopping forzato. 
Per casualità mi scappò uno sguardo allo specchio che stava dentro l’anta del mio immenso guardaroba, e inconsciamente mi soffermai a lungo a fissare la fasciatura candida che mi stringeva le spalle in un premuroso e sterile abbraccio. Rabbia si avvicinò da un angolo, una strana espressione sul viso incolore.
«Buongiorno anche a te, cara»,  dissi istintivamente, senza rifletterci sopra. 
Fantastico. 
Ora non solo vedevo cose inesistenti, ma ci parlavo pure. Tanto valeva.
«Sto uscendo pazza, vero Rabbia? Sto letteralmente andando fuori di capoccia, stress post traumatico codesto egregio par di palle» 
Per tutta risposta Rabbia inclinò la testa.
Sospirai. 
«Sai una cosa? Fanculo. Dài, almeno renditi utile e sii una di quelle allucinazioni che ti aiutano a scegliere cosa indossare per essere abbastanza scollata da non sembrare una suora sul pinguino andante, ma nemmeno troppo zoccolosa con le tette di fuori. Ah, e deve coprire tutti queste bende del cavolo, per cui niente robe che lasciano scoperte le spalle»


Sì, diosanto, le spalle.
Non ne potevo più degli sguardi delle mie compagne di classe, delle domande chiocciate rivolte più per curiosità che per reale interesse, di gente che fino al giorno prima non ti cagava che iniziava a preoccuparsi di te e della tua salute, che ti trattava come se fossi fatta di porcellana.
Per non parlare della prima volta che avevo dovuto spogliarmi per educazione fisica dopo l’incidente (perché a quanto pare anche se passi l’ora seduta devi cambiarti lo stesso, non ho mai ben capito se per supportare moralmente i tuoi compagni sudanti o che): quando mi ero tolta la maglietta avevo sentito un accorato coretto di “oh” di stupore alla vista delle fasciature che mi coprivano tutto il torso e buona parte della schiena. Avevo preso le mie cose e mi ero andata a cambiare nel bagno, come di solito fanno le ragazze grasse che non vogliono sbandierare la loro cellulite davanti alle cosce anoressiche delle loro compagne bulimiche o ai fisici sportivi delle immancabili atlete.
E avevo pianto in silenzio, giusto un po’.
Solo un pochino, seduta sopra il coperchio del water, smocciolando nella carta igienica, per fare strisciare un po’ fuori la frustrazione che provavo dentro. 
E quella era stata una delle prime volte in cui Rabbia mi era apparsa una vera amica. Non aveva né riso né ghignato né urlato. Era semplicemente rimasta lì, a fissarmi in silenzio con quei suoi occhietti fiammeggianti, e aveva teso la sua mano nera verso di me, come per aiutarmi a tirarmi in piedi. Io ovviamente non ero riuscita a stringerla, ma in qualche modo il gesto mi aveva consolato, e avevo trovato la forza sufficiente per uscire dal bagno e affrontare la classe a testa alta.
Mi ero giustificata con un «Se avessi mangiato anche tu quello che ho mangiato io ieri mi sa che ci saresti direttamente morta dentro quel bagno» e mi ero seduta sulla panchina addossata al bordo assieme ad una ragazza coi crampi mestruali, come se fossi una normale ragazza che sta seduta durante l’ora di sport con i suoi normali compagni di classe in un normale liceo. Avevo anche chiacchierato un po’ con l’altra inferma del giorno, commentato un paio di deretani decisamente carini e ripassato letteratura italiana.
Normalissimo.
Solo che io vedevo una ragazza in più di tutti gli altri, seduta immobile in cima alla spalliera, totalmente incurante delle palle che a volte le volavano vicinissimo. Sembrava perennemente in ombra, nonostante le luci della palestra. La profe non la richiamava, nessuno apparte me la notava.

Sbuffai, e mi guardai nello specchio, due grucce in mano, Rabbia al mio fianco.
«Che ne dici? Meglio la camicia blu o il top quello a righe?»

Scesi per fare colazione con un ritardo epico, facendomi tutte le scale di culo sul corrimano e afferrando al volo una fetta biscottata con burro e marmellata tristemente abbandonata sul tavolo del cucinino.
Me la ficcai in bocca, trangugiandola mentre armeggiavo con la cerniera del giubbetto che, cavolo, non voleva proprio collaborare, in corpo la sensazione che più mi sbrigavo più l’autobus era un miraggio. Porconando in sanscrito mi fiondai fuori dall’ingresso sgambando nelle scarpe mezze slacciate, correndo come una dannata verso il cancello.
Inciampai.
Caddi come una demente totale sul selciato, salvandomi di poco la faccia. Mi rialzai, le cicatrici non del tutto guarite che protestavano, con la tremenda sensazione che i nani da giardino mi avessero visto e che ora stessero ridendo di me. Così tirai al più vicino un calcio per farlo cadere, giusto per sicurezza, per assicurarmi che non lo raccontasse a nessuno. Fu in quel momento che qualcuno alle mie spalle urlò. 
«Serve un passaggio?»
Gualtiero stava appoggiato con disinvoltura allo stipite, facendo roteare le chiavi dell’auto attorno all’anulare, la giacca di pelle maròn piegata sottobraccio. In quel momento però mi sembrava più un’apparizione angelica che altro.


«Non avrei mai creduto di arrivare a dirlo in tutta la mia vita, ma potrei amarti, sai?»


«Non ti ci abituare, è solo che devo passare a ritirare dei documenti a Bergamo e diciamo che il tuo bus è passato alla fermata» controllò l’orologio al polso «due minuti fa, se è in orario.»


«Sei odioso quando fai così il precisino, sai?»
«Oh che smemorato che sono, cosa stavo facendo? Di sicuro non stavo offrendo uno strappo ad una sorella così ingrata come te, giusto?»


«Amorevole fratello, per il sangue che ci unisce, porteresti questo culo che soffre ancora tanto le botte dell’incidente fino ad un luogo dove egli potrà abbeverarsi al fiume della conoscenza?»


«Non sei male ad adulare, che ne dici se intanto che guido continui?»


Si avviò verso il garage, o per meglio dire la rimessa, e io gli trotterellai allegramente dietro.


«Per quello dovresti come minimo accompagnarmi per tutto il tour di Gigi d’Alessio, ogni singola tappa, e procurarmi un pass per il backstage»


«Sono occasionalmente gentile, non sordo, e tantomeno masochista»

Ok, l’inferno si era definitivamente congelato.
Mio fratello. Mio fratello Gualtiero De Cervis stava facendo battute di spirito vagamente ironiche e senza alcuna traccia di stronzaggine. 
Schiantarmi contro una macchina era stata probabilmente una delle idee più geniali che io avessi mai avuto, davvero. Incubi notturni e il mio inquietante spettro incolore che mi perseguitavano di notte e di giorno a parte, stavo fottutamente bene. 
A scuola avevo causato abbastanza pena nei solitamente frigidi cuori dei miei compagni di classe, e anche se non andavamo a braccetto ballando la polka chiamandoci “amici del cuore”, comunque riuscivo a scambiare qualche parola ogni tanto senza ringhiar loro contro. La mia ultima teoria era che la botta in testa che avevo presto mi aveva in qualche modo compromesso l’area del cervello responsabile dell’astio e dell’odio, e cavolo se la cosa mi andava bene!
Ero passata da un polo negativo e pessimista ad uno positivo e decisamente più allegro. 
Essere pseudo schiantate su un marciapiede da un’auto ha i suoi impensabili aspetti positivi, tipo tuo fratello che mette in moto sorridendoti con calore.
E il baluginio sinistro nei suoi occhi è solo un’illusione, ovviamente…


«Insomma, possiamo dire che tu stia recuperando bene, no?»


«Uhm, sì, c’è, va meglio sì dai, ecco»


Non appena passato il cancello, Gualtiero aveva iniziato a tempestarmi di domande. Un quarto grado che per quanto cordiale e gioviale (insomma, è di GUALTIERO che stiamo parlando), mi stava mettendo decisamente a disagio. 
Va bene preoccuparsi, però insomma, mi aveva sempre ignorato per un decennio, iniziare a fregarsene così all’improvviso solo perchè mi ero quasi ammazzata non era l'apoteosi dell'amore fraterno, ecco.

«Cos’è, non hai voglia di parlare con me?»


«Nah, è che sono un po’ stressata, sai, ho una verifica…»


«Vuoi che ti faccia saltare? Ti firmo io la giustifica!»


Ok, questo era decisamente troppo strano.
Rabbia si sporse da sopra il tettuccio, dove stava viaggiando saldamente ancorata, per infilare la testa nel rettangolo di vetro che mi divideva dall’aria pungente della strada, quasi ad assicurarsi che tutto stesse andando bene. La fissai negli occhi, rimproverandola senza parole, finché non si decise a ritrarsi al suo posto. Rimasi a guardare fuori, fortunatamente eravamo praticamente arrivati, così il silenzio imbarazzante non durò oltre lo strettamente necessario. Mentre uscivo dall’auto, Gualtiero mi ripeté la sua offerta, ma rifiutai con cortesia provando, con un sorrisino timido, a convincerlo che non c’era bisogno che facesse così l’apprensivo. A quel punto ogni forma di gentilezza sparì, mi guardò di sbieco dal posto di guida e non appena chiusi la portiera partì in sgommata, lasciando due strisciate fumanti sull’asfalto ingrigito.

Meno male che siamo noi donne quelle col ciclo.

***

"Re…re… respirare, ad occhi chiusi, prova a farlo anche tu. La mia ragione si farà sentire. È ciò che conta, non c’è niente di più… oh Gigi solo tu dai queste emozioni!"

«EVELINADECERVIS!»


Scattai in piedi, strappata via con violenza dai miei sogni erotici su Gigi.


«Sissignora, profe signora, mi dica!»


Orco. Mi ero addormentata di nuovo in classe. Si notava tanto che non dormivo ‘sto granché la notte?


«Dal preside, ORA.»


«Non stavo facendo nulla di male, non stavo disturbando nessuno, cosa ho fatto?»


«Stavi dormendo, nella MIA ORA. Tu-non-ti-devi-permettere, hai capito?»
Riuscivo a vedere le sillabe che si snocciolavano per l’aria, il naso della Bondavalli che fremeva ad ogni parola che esalava fuori dalle sue labbra pseudoultracentenarie.


«Professoressa, non stavo dormendo, glielo…glielo giuro! Stavo…stavo facendo riposare gli occhi!»


«Ah sì? Cosa sapresti commentarmi in merito alla spiegazione, allora?»


«Uuuuuuuhm…»


Eve, questo è il momento di tirarsi fuori dai guai con la classe che ti è propria. Veloce, pensa, cosa stava spiegando?


Con la coda dell’occhio vidi il ragazzo ciccione che mi sedeva vicino stava scribacchiando qualcosa sul mio banco alla velocità della luce.


NO!  TREN GITA GE


«Ma lei non stava assolutamente spiegando, profe, come faccio a commentare qualcosa sul fatto che ci stava dicendo a che ora è il treno che dobbiamo prendere per andare in gita al museo oceanografico di Genova?»


Sperai enormemente di aver azzeccato.


La Bondavalli mi fissò con gli occhi più stretti che una persona possa umanamente avere, ma non ebbe nulla da controbattere. 
L’avevo fregata anche questa volta. Realizzai di essere ancora dritta in piedi quindi mi sedetti, svaccandomi giusto un po’ sulla schiena, ostentando una superiorità e una tranquillità che non provavo in quel momento.


La vecchia riprese a fare lezione, riservandomi ancora giusto un paio di occhiatacce ogni tanto.


Mi girai verso il ciccio salvatore, che ricordai corrispondere al nome di Marcello Beretta, per ringraziarlo per il suo gesto d’aiuto.
Presi la matita e scrissi subito sotto le sue parole. Grazie. Hai salvato il mio culo, ti devo un favore!
Mi sorrise timidamente, ma vedevo che stava sudando. Evidentemente l’emozione di opporsi al potere aveva causato il surriscaldamento del pingue strato di lardo che lo ricopriva, e che ora iniziava a colare dall’attaccatura di quel cespuglio di unti ricci dal color castano anonimo. 
Mi rispose subito.
Dovere. Quella è una stronza, e lo sanno tutti che ce l’ha su con te per la storia della macchinetta.
Sorrisi. 
In quel momento suonò la campanella, così impacchettai veloce le mie cose. «In ogni caso ti devo un favore, Beretta. E non scherzo, penso che anche chi sparla di me sappia che sono di parola!» 
Gli battei una virile pacca sulla spalla, ma lui non se l’aspettava e si sbilanciò in avanti. Si aggiustò gli occhiali che gli erano così scivolati dal naso e si congedò.


«Va bene, ciao Evelina…a domani?»


Non ho la più pallida idea del perché quel saluto così innocente mi parve una domanda d’importanza filosofica.


Uscendo, mi ritrovai immersa nel più grande ed immenso stormo di piccioni che io avessi mai visto nella mia breve ma intensa vita. Peggio di Piazza San Marco a Venezia e Piazza Duomo a Milano combinate insieme durante il raduno annuale dei piccioni malvagi con piani per la conquista del mondo.


Giusto fuori dal portone dell’istituto c’era una distesa di topi volanti, tutti sull’attenti, che occupavano ogni centimetro disponibile, un tappeto tubante così fitto che non si riusciva quasi a vedere la pavimentazione sottostante. Metà dei miei compagni di scuola se ne erano già andati, molti stavano scattando foto dell’inusuale assemblamento col cellulare, ridendo e pregustando i “mi piace” che avrebbero ricevuto su Facebook entro poco. Un gruppetto di ragazze discuteva la proposta di chiamare il TG5 per dare la giusta copertura mediatica all’avvenimento, «Tanto la Parodi non ci impiega nemmeno troppo ad arrivare». I maschi si gettavano impavidi nel mezzo del mucchio cercando di pestarne più che potevano, le femmine facevano gran scena di aver paura e schifo sperando di suscitare l’empatia o la pena dei prodi maschi sopracitati, forse aspettandosi che da un momento all’altro il loro principe azzurro sarebbe spuntato fuori tra uno di loro per salvarle da quei mostri orribili per poi portarle in braccio fino al loro castello incantato. 
Il risultato d’insieme era che da una parte c’erano bambini dementi con un’igiene alquanto discutibile, dall’altra zoccolette con aspirazioni romantiche oltremodo sopravvalutate.
Tutti quelli con un minimo di cervello se ne erano semplicemente andati, e io mi apprestavo a seguire il loro saggio esempio.


Io personalmente odio i piccioni, fosse per me li ucciderei tutti, non risparmierei nemmeno i cuccioli –dubbio amletico: i piccoli di uccello possono essere definiti cuccioli?- li farei sparire dalla faccia della terra. Mi avviai per la mia via, tranquilla, ma non potei resistere dal canticchiare Povia: «…più o meno come fa un piccione…la la laaa» mentre ne prendevo a calci un paio per aprirmi una strada in mezzo a quelle ali grigie. La triste sorte dei piccioni: tutti li odiano, tutti li schifano, tutti li pestano, nessuno che si preoccupi mai per loro.
Però in prima battuta sono loro che si fanno odiare e schifare: se non fossero così inutili e fastidiosi magari qualcuno ce li avrebbe anche in simpatia.


Inaspettatamente, la cosa mi fece riflettere assai.
Fanculai i miei pensieri filosofici e non appena un piccione mi si avvicinò troppo alla gamba, gli tirai una sanissima pedata.
E fu allora che lo vidi andare a fuoco.
«Alla faccia di fare come il piccione!» urlai.


Saltai indietro, spaventatissima. Una rapida sequenza d’immagini mi fulminò le retine.

Scintilla.

Calore.

Fuoco.

Dolore.

Iniziai a correre.


Non sapevo dove stavo scappando, ma c’erano pochi dubbi sul da cosa.
Le mie gambe continuarono, non si fermarono, incuranti delle proteste dei miei polmoni da accanita fumatrice.
Alla fine rallentai il passo, col fiatone e la faccia appiccicaticcia di sudore, la parrucca storta in testa. 
Porcaccia la merda. 
Per colpa di qualche coglione che si era divertito ad incendiare piccioni io avevo appena fanculato un mese buono di terapia per lo stress post traumatico.

Grazie, davvero.

Mi riaggiustai i capelli, e cercai di orientarmi.


Non appena realizzai dove ero, la mascella mi cadde più o meno all’altezza delle ginocchia.


Ero sulle Mura. Vicino alle strisce pedonali. Vicino alla fermata dell’autobus. Vicino ad un ceppo tagliato da poco, con evidenti segni di bruciature su ogni lato.


A volte il destino esagera con l’ironia, davvero. Scappare dai ricordi per solo ritrovarcisi ancora più invischiati dentro.
Fantastico, semplicemente fantastico.
Rassegnata da cause di forza maggiore, attraversai la strada -controllando tremila volte a destra e a sinistra prima di osare fare un solo passo- e andai a sedermi a gambe incrociate sul tronco tagliato, abbandonando la cartella appoggiata ad una radice.
Rimasi lì qualche minuto, pensando a cose senza senso, finché una voce, un po’ esitante, un po’ felice e un po’ stupenda mi raggiunse.

«Hey, ciao!»

Non dimenticherò mai quel ciao e tutte le cose alle quali mi portò.

  
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