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Autore: Glory Of Selene    21/04/2013    3 recensioni
E' una missione che non può essere rifiutata.
"Voglio Kakashi Hatake. Portatemelo qui.
Vivo?
So che sarebbe impossibile. Il suo cadavere mi basta.
"
Un cacciatore esperto, si muove nell'ombra.
Kakashi non è abituato ad essere preda, nè a rimanere sempre un passo indietro a qualcuno.
Kakashi non è abituato a molte cose. Non è abituato, per esempio, a provare amore.
"«Chi pensi verrà?»
«Qualcuno in grado di valutare le nostre intenzioni e la nostra pericolosità. Hatake Kakashi, sicuramente.»
«E tu come fai a dirlo, si può sapere?»
«La nostra guida è in ritardo.»
«In rit… oh». Un attimo di silenzio, poi: «Quindi tu l’hai letto tutto, il fascicolo che ci hanno dato su di lui.»
«E tu non l’hai fatto perché tanto sono io che devo occuparmi di lui.»
«Lo sai? Sei la persona più saccente che conosca.»
"
Genere: Avventura, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gai Maito, Kakashi Hatake, Nuovo Personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Prima dell'inizio
Capitoli:
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Gli occhi di Akahito erano castani.
Erano di un castano scuro e profondo, un colore ai limiti del nero che avrebbe potuto nascondere qualsiasi cosa, qualsiasi cosa abbastanza crudele da sapersi confondere senza alcun problema tra le tenebre più dense.
Daisuke li osservava, era capace di smascherare quel loro inquietante nascondino, li vedeva stillare veleno, tingersi di una crudeltà imperiosa ma non per quello priva di una sorta di fascino peccaminoso.
«Un gesto davvero premuroso!» esclamò, mentre tentava di mantenere intatta la sua facciata affabile. «Mi dispiace solo che ti sia scomodato per questa sciocchezza, dato che la missione verrà portata a termine tra pochi giorni.»
Per Daisuke era vitale non dover essere costretto a scontrarsi con lui, perché sapeva di non avere alcuna possibilità di vittoria. Avrebbe dovuto sistemare ogni cosa con le parole.
Quegli occhi lo guardarono con una nota di sadico divertimento che non gli piacque affatto.
«Come sta Reiko?» domandò l’altro, cambiando repentinamente discorso, come se non gli fosse importato nulla della risposta appena ricevuta.
Daisuke si strinse nelle spalle. Una goccia di sudore gli attraversò in quel momento la nuca, per scendere fino al collo e percorrere infine tutta la colonna dorsale. Riusciva a sentire il suo gelo, vertebra dopo vertebra. «Sta come sta di solito.»
«Ritardare non è da lei.»
Daisuke rimase impassibile. «Kakashi Hatake non è un ninja come gli altri.»
«No di certo!» fu l’immediata risposta dell’altro, che ebbe uno strano guizzo ad illuminargli lo sguardo. «Non per Reiko, almeno.»
«Che cosa intendi?»
Ma ancora una volta il suo interlocutore preferì cambiare discorso. «Lo sai? Proprio ieri stavo riflettendo su noi shinobi». Il suo era uno dei più normali toni di conversazione che si potesse adottare. Si tolse il cappuccio, lasciando che gli ricadesse sulle spalle una morbida coda di lisci capelli castani, quasi come i suoi occhi, ma con diverse prepotenti sfumature di rosso ramato che li rendevano di un colore simile a quello del sangue rappreso. «Pensavo che, quando un ninja non è particolarmente portato per il combattimento, viene istruito o per la medicina o per lo spionaggio». Passeggiava avanti e indietro, le mani giunte dietro la schiena, come se non avesse alcuna preoccupazione al mondo. «E quando guardo te, vedo un sistema andato avanti per generazioni fallire miseramente». Smise di camminare, per fissarsi nuovamente sul suo viso. «Pessime attitudini in campo medico, ma soprattutto una totale, patetica incapacità nel bluffare.»
Daisuke provò mille diverse sensazioni nell’unico istante in cui il suo avversario ebbe soffiato le ultime parole. In testa a tutti c’era la paura, seguita a ruota da una rabbia irrazionale per la consapevolezza di essere costretto a farsi insultare senza poter replicare minimamente.
Strinse i pugni, ma il suo sorriso si allargò in una risata rilassata. «Non posso che darti ragione, Akahito. È per questo che ci siete voi, dico bene?»
Anche Akahito rise, e la sua risata fu tanto falsa quanto lo era stata quella del suo sottoposto.
«Vedo che sei accomodante stasera. Mi piaci.» Daisuke sentì una mano stringersi sulla propria spalla. «Che ne dici di fare due passi insieme, mentre mi racconti di quello che sta succedendo alla tua amica?»
Attimi di silenzio. Attimi di sguardi, e tensione, il risultato era uno solo ed era scontato, entrambi sapevano perfettamente chi tra loro due potesse permettersi di essere sicuro di sé.
Poi Daisuke si scostò con fermezza, e indietreggiò di un passo. «Ti assicuro che non c’è nulla che non vada, torna a casa tranquillo.» Girargli le spalle gli costò una considerevole forza di volontà, sentiva la sua pericolosità bruciargli dritta sulla nuca, come quello scuro sguardo velenoso che lo fissava. «Porterò a Reiko i tuoi saluti.»
Un passo.
Il suo cuore non voleva smettere di battere all’impazzata.
Un altro passo.
Davvero, ce l’aveva fatta? Era riuscito a convincerlo a lasciarlo andare?
«E’ davvero così importante per te quella Reiko, da volerla accompagnare anche nel più basso tradimento?»
Ogni fibra e ogni cellula nel corpo di Daisuke si congelò. Anche il suo cuore, per un istante, si fermò nel suo moto perpetuo.
Si voltò, lentamente, il terrore che aveva cominciato a corroderlo dall’interno, ora che le deboli sbarre della sua gabbia erano state definitivamente spalancate dalle parole dell’uomo che era venuto a prenderlo.
Era stato scoperto.
Gli occhi di Akahito sorridevano con lui, dell’espressione propria di un cacciatore che ha appena trovato una preda debole. «Ops! Ho detto qualcosa che non va?»
Daisuke si riscosse solo quando lo vide tirare fuori entrambe le mani dal mantello rosso scuro. Lo conosceva bene, e sapeva che di solito le mostrava soltanto quando era in procinto di un combattimento.
Si accorse in ritardo delle lame di due shuriken scagliarsi fulminee contro di lui, fu per un pelo che riuscì a balzare indietro e andare fuori dalla portata del lancio. Le armi si conficcarono nel terreno a pochi centimetri dai suoi piedi.
Datti una calmata, si disse ingoiando a fatica la tremenda paura che l’aveva assalito, altrimenti la prossima volta quei cosi te li ritrovi dritti in fronte.
«Oh, vogliamo giocare stasera?» sussurrò l’avversario senza mutare la propria espressione da predatore. Estrasse un fioretto da sotto il mantello.
Anche Daisuke estrasse il kunai, portandolo davanti a sé in posizione di difesa, e così rimasero, in stallo, ad osservarsi.
«Che cosa vuoi da noi, si può sapere?»
Stoccata. Il ninja la parò in una scarica di adrenalina, per ritornare com’era prima, esattamente quello che aveva fatto il suo avversario.
«Io niente, ma il Generale era preoccupato. Siamo partiti con voi.»
«“Siamo”…» mormorò Daisuke tra sé e sé.
Akahito faceva parte di quel gruppo ristretto di ninja che godevano del rarissimo favore del Generale. Un favore a suo parere effimero, ma che li teneva su un piedistallo rispetto a tutti gli altri, per quel poco tempo che durava. Quanti altri ce n’erano, del suo stesso rango, pronti ad ucciderli? Erano davvero venuti solo per loro? Solo per Reiko, semmai., si corresse.
Un’altra serie di stoccate, una dietro l’altra, il ritmo era aumentato, e Daisuke sapeva che faceva tutto parte del gioco. Lui non tentava neanche di attaccare, si limitava a difendersi e schivare, sapeva che non sarebbe mai riuscito a vincere contro un ninja del genere. Sperava nella fuga, nel raggiungere l’albergo in tempo, sparire con Reiko in qualche Villaggio sconosciuto. Cambiare colore dei capelli, nome, abitudini persino. Poter vivere. C’aveva rinunciato, ormai, ad una speranza del genere.
Una striscia infuocata sul braccio sinistro lo riscosse dalle sue fantasticherie; non erano passati neanche cinque minuti, e già il suo sangue cominciava a scorrere. Si fermarono. Lui ansimava, e si premeva la ferita con una mano.
«A quanto pare i timori del nostro Generale erano fondati. Lo ammetto, non mi aspettavo arrivaste a tanto.»
«Ti stai sbagliando.»
Ma l’altro rise. «Ancora neghi l’evidenza? Il terrore ti farebbe davvero dire qualunque cosa!»
Per l’ennesima volta Daisuke incassò l’insulto senza dire nulla. Non aveva più importanza ciò che Akahito poteva aver scoperto delle loro titubanze a proposito della missione, in quel momento la priorità stava nel salvarsi la pelle. Ringuainò il pugnale e unì le mani. Le sue dita si mossero velocemente a comporre i primi segni che gli passarono per la testa; e già sul terreno sotto i loro piedi cominciavano ad addensarsi neri grumi di pura oscurità.
Gli ammassi di tenebra si contorsero, fino a diventare dei bozzoli di pece, dai quali infine uscirono le creature più mostruose che potessero essere mai immaginate. Sembravano un distillato di buio, e parevano terribilmente affamate; i loro occhi erano vuoti, ma dalle loro bocche costantemente aperte provenivano urla mischiate a spettrali sussurri che facevano venire in mente solo luoghi divorati dalle fiamme e segnati da un destino di sofferenza.
Quando Akahito alzò lo sguardo vide che anche Daisuke, sciogliendosi, era diventato una di quelle cose, e gli si avvicinava famelico. La vista della sua trasformazione disumana ebbe il potere di infrangere per un attimo la sua freddezza, solo un terribile istante in cui dentro di lui ci fu spazio soltanto per un panico folle e incontrollato.
Poi fu sorpreso da un forte colpo alla nuca, e finì a terra.
Daisuke non perse tempo a verificare le condizioni dell’avversario né a compiacersi della riuscita della propria arte illusoria, ne approfittò per fuggire invece; si voltò, e cominciò a correre.
«Hai fatto uno sbaglio, Daisuke!»
L’urlo rabbioso di Akahito lo raggiunse dopo pochi istanti, ma neanche allora si fermò, aumentò il passo, il cuore impazzito più per la paura che per la corsa.
«Torna indietro, vigliacco!»
Non fermarti, non fermarti, non hai possibilità contro di lui…!
Un sibilo nell’aria, ma troppo veloce questa volta perché potesse essere schivato. Il kunai gli si andò a conficcare dietro il ginocchio, facendolo cadere rovinosamente sui ciottoli della strada con un gemito soffocato di dolore.
Intanto il suo avversario si era rialzato, la rabbia che gli ardeva nello sguardo, così alto e implacabile nel suo mantello color sangue sembrava un angelo portatore di morte pronto ad abbattersi su di lui. Realizzò alcuni sigilli con le mani, velocissimo, sempre con la spada in pugno, che poi strinse saldamente avvicinandosi alla propria preda.
Daisuke era stato pronto a morire per il proprio Villaggio, ma non lo era a lasciare la vita in quel modo, schiacciato a terra come un verme, senza aver combattuto, privo di onore, privo di compassione. Strinse i denti, puntò la gamba sana sul terreno e aggrappandosi ad un tronco tornò in piedi. Lo guardava negli occhi, l’uomo che mai avrebbe voluto incontrare in combattimento, ormai si era abituato alla scossa febbrile della paura che continuava a pervaderlo da capo a piedi.
«Ora osserva attentamente.» mormorò Akahito prima di menare un fendente all’aria davanti a sé. Tra i due, nel bel mezzo di una via di Konoha, si aprì un grande squarcio nero come solo il nulla poteva essere. «Osserva, e godi del Soffio della Futakuchi-Onna
Dal varco emerse una donna, vestita di un lungo abito dello stesso colore del mantello di Akahito. Le mani giunte in grembo sorreggevano un teschio appena spolpato, e la testa, dai capelli neri che fluttuavano intorno a lei in maniera innaturale, era posizionata al contrario sul collo, gli occhi inorriditi di Daisuke fissavano una nuca nella quale era incisa la smorfia di un’orribile bocca.
Non appena la creatura emise il suo verso disumano, fu come se quell’urlo gli provocasse un’esplosione interna: una fitta di insopportabile dolore, poi la vista che si annebbiava sempre di più, fino a lasciare il buio totale dietro di sé. Dopo gli occhi, cominciarono a scomparire anche gli arti, si portarono fuori dalla sua sensibilità lentamente, prima le gambe e poi le braccia, infine tutto il corpo, finché non fu rimasto solo con i propri pensieri concitati e il proprio panico.
Aveva, sì, sentito parlare della tecnica segreta di Akahito…
«Odio i vigliacchi.» sentì ringhiare a pochissimo da sé, e quando ricevette un forte pugno allo stomaco si accorse che poteva provare dolore, ed era la sensazione più sgradevole che avesse mai provato, soffrire senza avere nemmeno coscienza del proprio corpo. «Darei qualsiasi cosa per poterti uccidere, sì, proprio qui, ma gli ordini sono stati precisi, non si uccidono le pedine che vanno sacrificate per la missione. Un vero peccato, non trovi?»
Daisuke si stupì. Avevano intenzione di utilizzarlo per lo scopo nonostante il tradimento?
Ma certo, non possono sacrificare ninja come Reiko o Akahito. Solo io posso portare a termine il sigillo per evitare che tutta Konoha si rivolti contro di noi.
Quell’improvvisa consapevolezza gli donò la pazza e illogica sensazione di avere in mano un enorme potere.
«Illuso, sul serio credi che accetterò di farlo un’altra volta? Puoi andartene a fanculo.»
«Che noia… quanto sei prevedibile. Vuoi davvero costringermi a dirti quello che potrebbe succedere se ti rifiutassi?»
«Non otterresti alcun risultato con la tortura.»
«Certo che no.» Capì che Akahito gli si era avvicinato all’orecchio solo quando avvertì il suo sussurro a pochi centimetri da sé. «Ti dice nulla il nome Koichi Aosawa?»
Daisuke non aveva alcuna percezione del proprio corpo, ma seppe di essere sbiancato.
«O forse, dovrei dire Koichi Kitajima…» continuò l’altro, compiaciuto dalla reazione che aveva ottenuto.
 
«Daisuke!»
Non l’aveva mai vista sorridere così.
«Non indovinerai mai che cosa ti devo dire!»
Era bellissima quando sorrideva così.
«Daisuke, sono incinta!»
 
«Devi starmi lontana, Shiori.»
Ogni sorriso era scomparso. Rimaneva solo un’espressione orribile, nei suoi occhi pieni di panico, sul suo viso rigato dalle lacrime.
«No… ti prego, io…»
Si stringeva il ventre, ancora piatto, come se ci si volesse aggrappare.
«Mi dispiace. Addio.»
 
Il buio nero nel quale era immerso si era ora tinto di una rossa sfumatura di disperazione.
«Come…»
Akahito rideva. Si prendeva gioco del suo terrore. «Non si può nascondere nulla al Generale, credevo lo sapessi.»
Daisuke non aveva mai creduto alle voci superstiziose che attribuivano origini divine al capo dell’ordine, ma in quel momento non riuscì a sentirsi altrimenti che un povero mortale preso di mira da un dio crudele. L’invincibilità del suo signore gli pareva ovvia, come gli sembrava invece folle la speranza che solo un attimo prima aveva avuto, di sfuggirgli.
 
«Chi è il padre?»
Vedeva la sagoma della donna avvicinarsi sfocata, attraverso le lacrime che gli riempivano gli occhi.
«…Sono io.»
Così, da un istante all’altro, come se fosse stata una cosa di nulla importanza, si ritrovò tra le braccia una vita, proprio là dove quella della donna che aveva amato gli era stata strappata via.
«Si chiama Koichi. È stato appena abbandonato dalla madre, non gli è rimasto nessuno. A parte lei.»
Si ricordava di non essere riuscito a prendere un solo respiro, tanto era stata forte l’emozione che l’aveva colpito.
«Quanto…» La sua voce era debole e strozzata.
«Sette mesi.»
Il peso di tutto quel tempo passato lontano da Shiori e dal bambino che aveva portato in grembo gli crollò sulle spalle tutto in una volta, non riusciva a sopportarlo. La Shiori che conosceva non sarebbe mai stata capace di compiere un gesto del genere, lui sapeva di essere stato la causa del suo disperato cambiamento. Curvò visibilmente la schiena, ma allo stesso tempo strinse ancora di più a sé il piccolo. Dormiva.
Koichi era bellissimo. Aveva i capelli dorati del padre, anche se i lineamenti, ancora abbozzati è vero, ma inconfondibili, portavano a pensare al volto radioso della madre.
«Sarà lei ad occuparsene, d’ora in poi?»
Daisuke ci pensò, e lo vide, lo vide davvero. Se stesso, che teneva per mano un bimbo. Tutto ciò che gli era rimasto della persona che aveva amato, il dono più bello che avesse ricevuto, poterlo crescere, assistere passo dopo passo lungo il cammino difficile che lo avrebbe spettato. Sarebbe stata una vita bella. Sarebbe stata la vita che avrebbe desiderato.
Ma vide anche dell’altro. Vide il corpo di quel bambino deturpato dai viticci neri del sigillo, lo vide  allenarsi fino a rompersi le ossa, lo vide combattere contro la propria volontà, lo vide uccidere ed essere ucciso, un’infinità di volte – come un vecchio disco rotto –, perché quello sarebbe stato il suo destino.
Guardò il suo viso, così sereno nel sonno, e gli si strinse il cuore. Rammentò, una per una, tutte le ragioni per cui aveva abbandonato Shiori, perché lei e suo figlio vivessero sereni, e lontani dall’ordine, prima di tutto.
«No.»
«Co… come?»
«Affidatelo ad una famiglia adottiva. Non voglio riconoscerlo. Anzi,» l’aveva posato a lato come se fosse stato un pacco indesiderato, e si era alzato. «le sarei grato se tenesse nascosto il mio rapporto di parentela. Voglio che nessuno sappia che io sono il padre.»
«…Come desidera.»
 
… Ma non era servito a niente. Dover guardare il proprio figlio crescere da lontano, come un estraneo, come un ladro. Non era servito a niente.
Aveva sempre saputo di non essere portato per fare il ninja, ma aveva creduto di saper fare una cosa, ovvero di voler bene ai propri affetti. Ed era riuscito a fallire anche in quello.
Prese un respiro profondo.
«Se accetterò di eseguire gli ordini, Koichi non dovrà essere sfiorato minimamente dall’ordine. Tenetelo lontano da tutto questo… ti scongiuro, Akahito.»
Un forte calcio, dritto in ventre. Daisuke sopportò, senza un gemito.
«Non c’è limite alla tua mancanza d’orgoglio, vero? Guardati, sconfitto, mentre mi implori come un verme!» Un altro colpo, che venne incassato in silenzio come il precedente. «Patetico. Ma almeno riguardo a questo non hai ragione di preoccuparti: il Generale non cerca altri falliti come te.»
Fu come se un gran peso gli fosse stato levato dal petto. Si accorse che persino la paura che l’aveva dominato durante tutto lo scontro si era affievolita.
«D’accordo, allora. Farò quello che vuoi.»
 
***
 
Bianco.
Bianco, bianco, bianco. Una macchia. Bianco. Bianco. Una crepa. Bianco, bianco, bianco… Kakashi girò la testa con fastidio. Non gli piaceva tutto quel bianco. Si sistemò una mano dietro la testa, per sorreggerla, tastò la comodità della sua nuova posizione e si disse che sarebbe proprio stata ora di ridipingere il soffitto della camera.
Un comodino, ora, davanti ai suoi occhi. Una lampada, su quel comodino, insieme a varie cianfrusaglie abbandonate alla rinfusa. C’era un libro, un mazzo di chiavi, un kunai, uno shuriken rotto, un orrendo pupazzetto rosa che gli era stato donato dalla vicina di casa per il suo compleanno – stentava a ricordarselo lui, il giorno del suo compleanno, mentre la sua vicina sembrava non aspettasse altro –, qualche spicciolo, un piatto vuoto ma zeppo di briciole appoggiato molto precariamente tra la copertina del libro e la base della lampada, una pallina da ping pong e un paio di fogli spiegazzati. Il lavoro che avrebbe dovuto svolgere, teoricamente.
Aggrottò la fronte e tornò nuovamente ad osservare il soffitto. Almeno, il bianco non poteva ricordargli i doveri che stava trascurando. Afferrò la sveglia, appoggiata sul ripiano dietro la sua testa, e lesse stancamente l’ora. Due e mezza di notte.
Sospirò, e in quel sospiro c’era tutto il suo sfinimento. L’ultima volta che allungò la mano fu per spegnere l’interruttore della lampada sul comodino; qualcosa cadde, ma non sprecò un solo istante a preoccuparsi di che cosa potesse essere stato. Socchiuse gli occhi, mentre si abbassava la maschera, e l’aria che sentì sul viso fu al contempo liberatoria e spiacevole. Si mise su un fianco e si tirò le coperte fino al naso. Poco importava se fuori non faceva molto freddo, lui aveva sempre bisogno delle coperte per dormire, e questo era uno di quei fatti irrilevanti della propria psicologia che nessuno conosceva.
Quasinessuno.
Chiuse gli occhi; l’incoscienza arrivò con il suo mantello ovattato dopo pochi minuti.
 
“Kakashi si svegliò, di nuovo, ma non era stato un bel risveglio. Era stato un risveglio angosciato. Perché sentiva quell’odore.
Scese dal letto, congestionato, gli faceva male il cuore, ad ogni battito, avrebbe voluto strapparselo dal petto – conosceva quell’emozione. Non rammentava il suo nome, ma sapeva di averla già provata, una volta, di fronte ad uno degli ultimi deliri di suo padre.
I suoi piedi si sporcarono di sangue.
L’osservò inorridito imporporare i suoi piedi nudi, allargarsi in una pozza lungo tutto il pavimento, ecco, era del suo odore che stava parlando.
Ma c’era chi del sangue si vestiva. Era una dea, ed era pochi metri da sé. Il sangue davanti a lei si piegava, con la reverenza di un fedele vassallo, le si avviluppava intorno servile, la vestiva di seta, sì, seta rossa come il sangue era il suo vestito.
Eppure la sua pelle era immacolata.
A Kakashi cedettero quasi le gambe, perché non era abituato a percepire la bellezza, mentre allora, sì, allora venne accecato dallo splendore che si trovava davanti. Non aveva mai visto nulla di simile.
La dea solo allora aprì gli occhi, e puntò lo sguardo su di lui. I suoi occhi erano bianchi – ciechi –, ma tradivano la stessa angoscia che anche lui aveva provato prima, insieme ad una tristezza così profonda da risultare quasi struggente. Era un dolore che rovinava ma allo stesso tempo acuiva la bellezza disumana di quella donna.
Non è contenta, realizzò Kakashi. Non è contenta di poter vestire il sangue.
Mosse un passo verso di lei. Non poteva sopportare di vederla soffrire in quel modo, come se ogni centimetro di quell’abito meraviglioso fosse per lei uno spillo conficcato nella pelle, voleva aiutarla, doveva aiutarla, perché si accorse di provare il suo stesso dolore. Allungò una mano.
Tutto divenne improvvisamente sfocato.”
 
«…REIKO!» gridò nell’alzarsi di scatto a sedere, spingendo via tutte le coperte.
Ansimava.
La stanza era buia e immacolata. Non c’era traccia di sangue.
Si portò una mano al petto.
Ma il suo cuore batteva ancora come aveva fatto nel sogno, e lui ancora provava quelle emozioni, tutte, e ancora vedeva davanti agli occhi il volto commovente della dea.
Le aveva dato il nome di Reiko.
Se ne accorse solo allora, come si accorse di quanto il viso del sogno fosse simile a quello della ragazza straniera.
La cosa non poté che infastidirlo, e indurlo a soffocare tutti quei sentimenti in un angolo del suo cuore. Fu più complicato del solito, perché il suo cuore ancora batteva così forte, ma era diventato un maestro in quel genere di cose, e dopo qualche minuto fu in grado di dire di essere tornato com’era prima di addormentarsi.
Accese la luce – erano le sei del mattino, tanto valeva che si preparasse per uscire.
Prese dall’armadio i primi indumenti puliti che gli capitarono sottomano, e con quelli si diresse in bagno per la solita doccia mattutina. Si accorse, mentre era sotto l’acqua calda, di aver completamente perso l’appetito. Constatò che non sarebbe stato un gran problema mentre si vestiva davanti allo specchio appannato dal vapore.
Tornò in camera da letto solo per prendere le chiavi e i documenti dell’Hokage, provocando una preoccupante frana che coinvolse praticamente tutti gli oggetti che era riuscito a far stare sul comodino approfittando di un sistema di equilibri assai delicato. Decise di afferrare al volo solo il piatto, e riappoggiarlo poi delicatamente sul piano ormai vuoto, perché non aveva la minima voglia di mettersi a raccogliere dei cocci dopo una nottata come quella che aveva passato. Ignorò tutto il resto e uscì dalla stanza.
 
«Kakashi!»
L’esclamazione lo raggiunse qualche metro lontano dalla soglia di casa sua. Si fermò, e aspettò che la persona che l’aveva chiamato gli venisse incontro.
Si stupì quando riconobbe Daisuke. Era diverso da come se lo ricordava, era sudato, e aveva qualcosa di disperato negli occhi.
«La prego di scusarmi, sensei, ma non sapevo a chi altri rivolgermi.» riprese lo straniero quando terminò la propria corsa angosciata, tra un ansito e l’altro.
«Che cos’è successo?»
«Si tratta di Reiko.»
Quel nome scatenò in lui una pioggia di brividi, che gli bruciarono sulla pelle come tanti sottili aghi appuntiti. Rimase impassibile, anche se la sua fronte si corrugò di preoccupazione. «Sta male?»
Forse nel suo tono di voce c’era un più apprensione di quanto fosse lecito ad un jonin che stava compiendo il proprio lavoro.
«E’ stata rapita!» esclamò Daisuke, e allora Kakashi capì il motivo dell’angoscia che aveva intravisto nei suoi occhi castani, perché era quella che ora provava anche lui. «Li ho inseguiti finché ho potuto, ma le tracce scompaiono appena fuori dalle mura del villaggio.»
«Dove, esattamente?»
Per tutta risposta, Daisuke riprese a correre. «Mi segua!»
Kakashi non se lo fece ripetere due volte, schizzò anche lui dietro allo straniero, che faceva strada.
Davanti ai suoi occhi c’era solo l’immagine del volto addolorato della donna del sogno. Forse, nella realtà, sarebbe riuscito a salvarla.
 
 
 
Ciò che dice l’Autore
 
Ciao a tutti e buona domenica! ^^
Devo scusarmi perché ho aggiornato questo capitolo molto in ritardo, ho avuto un calo d’ispirazione davvero assurdo, tanto che non riuscivo a scrivere neanche una riga, per quanto avessi già in mente piuttosto bene quello che avrebbe dovuto accadere in questo sesto capitolo. Per fortuna ultimamente riprendendolo in mano sono riuscita a sbloccarmi e a combinare qualcosa di decente.
Da questo momento in poi credo proprio che ci saranno meno parole e più combattimenti, che so già che mi faranno dannare; spero che questo primo assaggio d’azione che ho dato all’inizio del capitolo sia piaciuto a tutti! Fatemi sapere cosa ne pensate, sono davvero importanti per me le vostre impressioni :D
Grazie a tutti quelli che hanno letto fin qui, ovviamente a The Edge e ad Urdi che recensiscono sempre, e a coloro che l’hanno inserita tra le seguite.
Un bacione,
Glory.
 
PS: Consiglio questa canzone, è quella che mi ha aiutato a scrivere il capitolo (io la trovo stupenda **). http://www.youtube.com/watch?v=bPfEntyxJTg
 
  
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