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Autore: _maya96_    22/04/2013    2 recensioni
Era accaduto tutto così velocemente, neanche mi ero resa conto di cosa fosse realmente successo. Una serie di immagini sfocate, a cui cercai di dare un senso, mi trapassò la mente, mentre chiudevo gli occhi, forse per l’ultima volta.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Klaus, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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-Wounded Soul-
 
-Anima Ferita-
 
 
    
L’affetto per le persone è un lusso che ci si può permettere soltanto dopo aver eliminato tutti i nemici. Fino ad allora, chiunque tu ami sarà un ostacolo che ti priverà del coraggio e corromperà il tuo giudizio.”
 
-Orson Scott Card. Empire-

 
 
 
Come una strada attraversata dalla luce il tempo scorre in silenzio.
Le persone perse nei loro sentieri sono destinate a rinascere, mentre le loro profonde paure sono costrette a seguirli. A sprofondare con loro nella vita. In quell’esistenza che gelidi attimi eterni sembrano portar via.
Il cielo desidererà sempre il sangue, mentre i fiori attenderanno la pioggia, su un freddo terreno senza cuore non degno di nome. Questo giorno trasformerà il domani in sera e le nostre anime si uniranno in una sola. Ma poteva davvero essere quello che avevo desiderato così fortemente?
Doveva essere lui che avevo così tanto atteso? Così tanto sperato e immaginato?
L’unico al mondo che avessi così tanto temuto. L’unico al mondo che consideravo un mostro?

I mostri non esistono, sono solo le nostre paure che prendono i loro volti.

Questo avevo sempre pensato. Questo avevo sempre creduto, ma mai avevo immaginato che tutto questo potesse non essere reale.
Non avevo mai sospettato che i mostri esistessero realmente. Che uscissero dai nostri pensieri. Dagli incubi della notte e che camminassero indifferenti alla luce del sole.
Ma lui lo faceva. Lui lo faceva continuamente e questo non faceva altro che aumentare la paura che avevo nei suoi confronti. Quel terrore che mi paralizzava come un  veleno e mi uccideva lentamente prosciugandomi goccia per goccia.
Ma come poteva essere così crudele?
Come poteva usare la mia famiglia contro di me? Minacciarla. Ferirla. Solo per ottenere ciò che voleva. Per ottenere l’unica cosa che gli interessava e che l’aveva distratto dalla sua eterna immortalità.

Saprai solo quello che ti concederò di sapere, nulla di più.

Ma io, in fondo, non conoscevo ancora nulla di lui. Non conoscevo nulla se non la sua crudeltà, la sua cattiveria e la sua arroganza. Conoscevo solo le sue ombre. Il suo lato oscuro, ma non potevo sapere cosa si celasse realmente nella sua anima. Cosa si nascondesse nel profondo del suo cuore. Lo stesso che non batteva dentro il suo petto. Lo stesso che non provava più alcun tipo di sentimento. Lo stesso cuore, che fingeva ormai di essere vivo.
Ma come potevo sconfiggere una persona che non esisteva neanche? Che fingeva di vivere come se fosse una persona normale. Come se quell’eterna esistenza, apparentemente infinita, fosse soltanto uno scherno protettivo per un animo  sensibile, geniale, ma in fondo solo.
Forse non avrei mai potuto farlo. Forse non sarei mai riuscita a sconfiggerlo. Forse il mio fallimento era già stato segnato. Come se fosse già stato scritto da un qualcuno che si divertiva a vedere la mia frustrazione. A vedere la mia solitudine sfiorare la sua, sapendo che nessuno avrebbe mai potuto aiutarmi, perché lui me lo aveva vietato.
Ero sola. Completamente e inesorabilmente sola. Non avevo mai pensato che si potesse essere soli fino a questo punto. Non avevo mai immaginato che qualcuno al mondo potesse sentirsi tale. Non avevo mai considerato che questo qualcuno potessi essere io.
Non sapevo cosa fare. Non sapevo cosa dire o come comportarmi.
La mia famiglia. Le persone che amavo. Le uniche che mi erano rimaste erano ridotti a dei burattini. A degli schiavi soggiogati a fare quello che lui voleva. Ad essere manipolati, come se il loro volere non fosse importante. Come se le loro vite non valessero nulla.
Ma perché doveva farmi questo?
Come poteva essere così meschino?
Se nessuno al mondo è davvero privo di cuore, lui forse doveva essere l’unica eccezione che confermava quella regola.
Io lo odiavo. Dio, quanto lo odiavo. L’odiavo così tanto. Così intensamente. Questo odio mi divorava. Mi lacerava. Mi esplodeva nel petto così forte da bruciarmi.
Lo sentivo diffondersi su tutto il resto del mio corpo e faceva male. Faceva così male perché il mio odio non era abbastanza. Il mio odio non riusciva a fermarlo. Era completamente e totalmente inutile. Io ero inutile perché non avevo nemmeno la forza di salvarli. Di liberarli da quel mostro i cui occhi meschini trasmettevano solo indifferenza.
Di proteggerli da quella bestia di una cattiveria glaciale, che mi congelava e non mi faceva camminare. Non mi faceva respirare, ma la cosa peggiore era che non mi dava la forza di fuggire. Di scappare da lui.
Non ci riuscivo. Non riuscivo a controllarmi. Non riuscivo a smettere di stargli accanto nonostante tutto il male che mi stava infliggendo. Nonostante la mia vita stesse cadendo a pezzi per colpa sua io non riuscivo a stargli lontana.
Continuavo ad andare da lui. A cercarlo. A desiderarlo. Perché dannazione dovevo fare così. Perché non riuscivo ad allontanarmi da quel demone dagli occhi di ghiaccio, di una freddezza quasi morente. Perché non riuscivo a fuggire da quel mostro senza vita. Perché non scappavo da quel vampiro privo di cuore.
Odiavo tutto questo. Odiavo me stessa. Odiavo la mia debolezza che lui riusciva abilmente a manipolare. Odiavo il fatto di odiarlo. Di provare per la prima volta questo tipo di sentimento. Odiavo ogni singolo dannato aspetto di lui.
Ma forse lo odiavo semplicemente perché non riuscivo completamente ad odiarlo.
Non riuscivo a farlo. Forse non ne ero capace. Forse non conoscevo ancora cosa fosse l’odio, ma se dovessi in qualche modo dargli un volto, gli darei il suo, perché tutto quel rancore, tutta quella furia che provavo verso di lui. Tutta quella rabbia che mi nasceva da dentro e mi bruciava le viscere era reale. Così reale che quasi riuscivo a toccarla.
La sentivo soffocarmi. Comprimermi il petto, nascondendomi l’aria, mentre mi divampava all’interno come un fuoco doloso. Lo stesso fuoco che accompagna all’Inferno.
Ma come poteva non essere ancora abbastanza?
Come poteva il mio odio essere così inutile da non scalfirlo minimamente?
Lui non provava sentimenti. Lui non sentiva dolore e di certo non poteva capirlo, ma davvero non riusciva a vederlo dentro il mio sguardo? Davvero non riusciva a distinguerlo nelle mie iridi. In quella parte di anima così vicina alla vita e che lui di certo non doveva possedere?

Guarda gli occhi, Alba. Gli occhi non mentono.

Così diceva sempre mio nonno. Così diceva tutte le volte.
Ero certo che anche Klaus riuscisse a distinguere cosa celasse il mio sguardo, ma la sua anima era totalmente indifferente da non accorgersi neanche.
Ma non gli avrei permesso di portarmi via gli unici frammenti di felicità. Non poteva continuare a farlo, perché in qualche modo sarei riuscita a fermarlo.
Felicità. Chissà cosa s’intende quando si parla di felicità.
Forse gratitudine. Forse apprezzamento. Forse ringraziamento. O forse semplicemente nulla.
Forse non siamo nemmeno destinati ad essere felici. Forse la gratitudine non centra niente con la gioia. Forse l’essere grati significa dare il giusto valore alle cose. Apprezzare le vittorie e accettare le sconfitte.
Essere riconoscenti per le cose che conosciamo  o per le cose che, invece, non conosceremo mai. Ma alla fine della giornata il fatto che abbiamo ancora il coraggio di restare in piedi è già un ringraziamento sufficiente per essere vivi, nonostante la fatica che ci vuole per un essere umano, che questo ci piaccia o no.
Forse era realmente quello che mi distingueva da lui: faticare ogni giorno solo per restare in vita, assaporando ogni istante come se fosse l’ultimo. Essere costantemente sull’orlo della morte e quanto soddisfacente potesse essere sopravvivere. Forse era quello che desiderava così ardentemente.
Per questo forse non voleva uccidermi, nonostante potesse farlo ad occhi chiusi, nonostante avesse fatto di tutto per rovinarmi la vita, minacciando di ferire le persone che amavo. Ma lui non voleva questo. Uccidermi non era nei suoi piani. Non l’avrebbe mai fatto, solo per non farmi avere quell’opportunità a cui lui era stato strappato via e questa era la prova del suo odio.
Forse anche lui mi odiava. Mi odiava almeno quanto io odiassi lui e questo sentimento corrisposto era così intenso da distruggerci entrambi.
Per questo dovevo precederlo. Per questo mi trovavo lì. Se lui era un passo avanti a me io dovevo esserne due. Solo così avrei potuto salvarli, anche se così facendo probabilmente avrei rischiato la mia unica vita.
Ma il rischio questa volta era estremamente necessario.
Il freddo colore viola di quei fiori riempiva l’aria e il loro inesistente profumo parve raggelarmi il cuore, mentre le solitarie pareti di quella stanza, colmata da libri, mi rinchiudevano in una gabbia di parole.
Mi servivano risposte. Avevo bisogno di porre un fine alle mie domande. Quelle incessanti domande che mi colpivano avide la mente e forse quello era l’unico luogo in cui avrei potuto finalmente comprendere. L’unico luogo in cui avrei potuto finalmente capire.
Allungai la mano e sfiorai i delicati petali di quella pianta, così lentamente avendo paura che si potesse spezzare sotto il mio tocco da un momento all’altro.
Verbena. Così l’aveva chiamata la signora Miller.

Si dice che siano le piante protettrici della mente.

Da chi ci proteggono?

Dalle belve del tempo.

Forse era quella semplicemente la risposta. Forse era quella che stavo cercando. Forse era quel semplice fiore che alla fine di tutto mi avrebbe salvata.
Mia mamma li amava e in quel preciso momento mi accorsi di quanto avesse sempre avuto ragione.

“Anche se conosci il luogo in cui nascondo le chiavi non dovresti entrare quando la biblioteca è chiusa”.

Mi voltai velocemente e l’immagine della signora Miller prese posto davanti a me, ma prima che se ne accorgesse riuscii a strappare qualche petalo di quei piccoli fiori e a nascondermeli in tasca.

“Mi scusi, ma avevo bisogno di parlare con lei” dissi a bassa voce, avendo paura che qualcuno fosse lì ad ascoltare.

Non potevo dire a nessuno quello che avevo saputo e probabilmente non dovevo neanche trovarmi lì. Se lui lo avesse scoperto…se solo se ne fosse accorto…
Probabilmente ero già morta.

“Di cosa vuoi parlare?” Mi chiese lei, sedendosi su una sedia vicino alla scrivania.

Cosa potevo dirle? Come potevo iniziare il discorso, senza rompere quell’accordo che avevo stretto con Klaus?
Lui aveva la mia famiglia in mano. Lui aveva la mia vita. Lui poteva farne qualsiasi cosa e io non potevo fermarlo. Non avevo la forza. Non avevo il coraggio e se anche lo avessi avuto probabilmente avrei perso in partenza.

“Mi chiedevo…” dissi sospirando parole senza senso. “Se lei poteva dirmi qualcosa riguardo alle belve del tempo”.

La sua espressione non mutò. I suoi lineamenti non si contorsero, quasi come se fosse normale una simile domanda. Quasi come se la stesse aspettando. Come se stesse attendendo questa mia assurda richiesta.
Come potevo essere così prevedibile?
Se lei era riuscita a capirlo così facilmente forse anche Klaus l’aveva già fatto. Forse era solo questione di tempo. Forse questo scoccare di interminabili secondi erano solo scanditi dai miei ultimi attimi di vita, ma non dovevo pensarci. Dovevo continuare. Dovevo sapere. Dovevo capire. Questo era l’unico modo. Questa era la mia unica possibilità che avevo di sconfiggerlo.

“Si dice che le belve del tempo siano le creature più vicine all’Inferno” disse la sua voce roca, mentre si avvicinava al tavolo dove risiedevano due calde tazze di tè. Forse sapeva che sarei venuta. “Sono dei non-morti e il loro corpo immortale ha il potere di rigenerarsi”.

Allungai silenziosamente la mano ed afferrai quella tazza bollente, portandomela alla bocca e quel caldo liquido speziato mi solleticò la lingua.
Rimasi tuttavia in silenzio per ascoltare quella storia che la signora Miller si accingeva a raccontare.

“La leggenda narra di una potente strega fuggita con la sua famiglia nel nuovo mondo per scampare alla peste. I suoi figli tuttavia continuavano a morire per le difficili condizioni di vita che ospitava quel luogo misterioso. Così la giovane donna, disperata, rivolse le sue preghiere agli spiriti maligni. Compì atti proibiti ed un giorno aprì le porte allo spirito di un antichissima strega: Qetsiyah.
Questo spirito malvagio era potente ed oscuro e chiese come pagamento per fare in modo che i suoi figli crescessero sani e forti di poter lasciare il Mondo degli Spiriti per entrare in quello dei Viventi.
La donna avvilita accettò. Attinse il potere dalla luce del sole, da un antico albero di quercia bianca e dal sangue di una giovane per fare l’incantesimo. Fece tutto ciò che le era stato detto, ma fu ingannata.
Ai suoi figli venne donata bellezza, salute e immortalità, ma Qetsyiah era uno spirito crudele e famelico e una volta entrato nel nostro mondo trasmise queste caratteristiche ai figli della strega.
Essi iniziarono a nutrirsi del sangue dei viventi. Inizialmente degli animali ed infine delle genti della loro stessa tribù.
Crearono anche dei loro simili, che a loro volta procrearono la loro stirpe di dannati, creando panico e decimando le popolazioni.
La giovane strega provò a fermare i suoi figli, divenuti delle vere e proprie belve spietate ed assetate di sangue. Ma il male che aveva creato era divenuto troppo potente tanto che uno di loro, una di quelle belve del tempo senza coscienza, un giorno assalì la madre e senza rimorsi le strappò via il cuore dal petto”.

 
“L’hanno davvero uccisa?” Le chiesi affascinata da quella storia, non riuscendo però a capire come qualcuno potesse avere il coraggio di farlo.
 
In fondo lei aveva fatto tutto quello per loro, per proteggerli, per salvarli. Anche se aveva creato del male era solo a fin di bene. Non meritava di essere uccisa. Non doveva esserlo.
 
“Quando si vive in eterno si è incapaci di provare sentimenti sia per se stessi che per gli altri” mi disse indifferente, sorseggiando la sua tazza di tè.
 
Chissà se ci credeva veramente a quello che diceva. Chissà se non lo riteneva soltanto una semplice leggenda. Forse non era nemmeno reale, in fondo quella donna era una pazza, me l’aveva detto anche Ally, ma poteva davvero essersi inventata tutto questo?
 
Le sue parole mi suonavano così assurde. Così irreali. Ma in un mondo in cui avevo scoperto esistessero i vampiri. In cui vivessero creature indifferenti, così simili a noi, che si nascondevano tra la gente comune, uccidendo persone e soggiogando le menti. In questo mondo cosa poteva essere ritenuto ancora assurdo?
 
Ma nonostante tutto non ero venuta lì per quello. Non m’interessavano le leggende. Non m’importava una loro possibile nascita. Ero venuta soltanto per uno scopo.
 
“Ma se sono immortali come possono essere distrutti?” Le chiesi fingendo di essere interessata alla sua storia, cercando di non dare a vedere che questa situazione mi colpisse in prima persona.
 
Lei mi sorrise e poggiò la sua tazza bollente sopra la scrivania, dove risiedevano alcuni vecchi libri.
 
“Fortunatamente a nessuno è permesso di camminare sulla Terra senza una propria debolezza. Tutto in natura ha bisogno di equilibrio ” mi disse sfogliando alcune pagine ingiallite del primo libro che trovò tra le mani. “Per le belve del tempo le debolezze costituiscono quelle che una volta erano le loro forze”.
 
Sospirai e attesi che lei finisse la frase, ma tardò così tanto ad arrivare che il suono della campanella della scuola scandì la fine di quell’ora.
 
Dovevo andare in classe, ma lei non aveva ancora finito di raccontarmi quella storia. Non mi aveva detto quali erano le loro debolezze. Non mi aveva detto come avrei potuto fermarlo.

“Devi andare, signorina Summers” asserì sorridente, dando un ultimo sorso al tè caldo dentro la tazza. “Finiremo di parlare in un'altra occasione”.
 
Annuii in silenzio. Non potevo insistere troppo. Non potevo farle capire quello che sapevo. Se Klaus fosse venuto a saperlo gli avrebbe uccisi. Avrebbe ucciso la mia famiglia.
 
Io dovevo fermarlo. Non avevo idea di come, ma l’avrei fatto. Loro non dovevano farsi del male per colpa mia. Li avrei protetti.
 
Uscii velocemente dalla stanza, sentendo il suo sguardo su di me, come se avessi paura che si fosse accorta di quei piccoli fiori viola che restavano ancora nascosti dentro la mia tasca.

 

* * * *


 
Un freddo soffio di vento sfuggì dalle finestre serrate di quella palestra e mi sfiorò i capelli non del tutto bagnati.
L’unica cosa che non mi piaceva di quella scuola era la piscina che ospitava. Ne avevo paura. Da quel maledetto giorno ne avevo il terrore.

“Io non so se so nuotare, nonno”.

“Tuffati e lo scoprirai”.

Ricordo di essermi fidata delle sue parole. Di essermi fidata del suo sguardo. Dei suoi occhi chiari nei quali si riflettevano i miei.

“Guarda gli occhi, Alba. Gli occhi non mentono”.

Così diceva sempre. Lui non sbagliava mai o almeno lo pensavo.
Mi ero avvicinata al bordo di quella piccola barca che galleggiava nel porto. Quella piccola barca che aveva deciso di affittare e quel giorno volle che io salissi con lui.

“Ho paura, nonno”.

Gli dissi, guardando la schiuma di quelle onde che si spezzavano sulle pareti in legno scuro.
Riuscivo a vedere il mio volto storpiato dall’acqua. L’avevo visto sporcarsi di quella schiuma, che crudele me lo deformava.
Era davvero orribile. Mi faceva sembrare un mostro. Io non volevo tuffarmi in quelle acque tristi.

“Non esistono i mostri, Alba. Sono solo le nostre paure che prendono i loro volti”.

Mi disse avvicinandosi, mentre quella piccola barca oscillò di poco, per quel lieve spostamento di peso.

“Non devi avere paura di niente se vuoi sopravvivere”.

L’avevo sentito parlare così vicino a me, ma prima che mi voltassi a guardarlo, una leggera pressione mi spinse fuori dalla barca.
Mi spinse effimera dentro quell’acqua. Quell’acqua così fredda. Così gelida. Talmente ghiacciata che non riuscivo più a muovere le gambe. Non riuscivo più a sentire il mio corpo, mentre quello andava giù trasportato dalle onde.
Avevo paura. Avevo così tanta paura. Paura di cadere. Paura di annegare. Paura di non riuscire a vincere quella mia stessa paura.

“O nuoti o vai affondo, principessa”.

Quelle marcate parole mi erano giunte attraverso i forti schizzi dell’acqua che talvolta mi entravano crudeli in bocca e quel loro sapore salato mi riempiva i polmoni.
La gola mi bruciava. Gli occhi erano in fiamme e le mie grida venivano nascoste ogni volta che la testa finiva in quello specchio cristallino che storpiava i volti.

“Nuota, Alba. Ce la puoi fare”.

Le braccia si muovevano senza una direzione. Senza un ordine. Tutto era avvolto solo nel caos. Lo stesso caos che insieme al sole si rifletteva in quell’acqua. In quell’acqua fredda e scura nella quale stavo svanendo.

“Nuota, Alba. Nuota!”

L’aria incominciava a mancarmi. Incominciava a bruciarmi. Io ne avevo bisogno. Ne avevo bisogno proprio adesso. Non riuscivo a respirare. Non potevo respirare. Non riuscivo a farlo.

“Nuota!”

Provai ad ascoltarlo. Provai a nuotare, ma non…non ci riuscivo. Perché doveva essere così difficile. Perché non facevo semplicemente come faceva lui. Perché continuavo ad andare così affondo. Quell’acqua mi stava avvolgendo. Mi stava trascinando. Era più forte di me. Non riuscivo a fermarla.

“Aiutami”

Avevo gridato con tutta la forza che avevo in corpo. Con tutta la forza che mi sarebbe servita per nuotare. Ma lui non mi ascoltava. Lui non voleva aiutarmi. L’acqua mi entrava in gola. Mi bruciava. Mi riempiva e lui non faceva nulla. Mi guardava e gridava.

“Ti prego”.

Le mie parole parvero piangere, ma tutto questo non servì a scalfirlo nemmeno di poco. Il mio volto affondò di nuovo e l’aria parve svanire.

“Nuota, Alba. Nuota!”

La barca era troppo lontana. Così lontana tanto che avevo paura di non riuscire più a vederla. Quelle onde mi tiravano affondo. Quel freddo mi paralizzava le gambe. Quelle gambe ormai troppo stanche. Non riuscivo più a muoverle e pesavano. Dio, quanto pesavano.
Mi trascinavano giù. Mi strappavano l’aria. Non mi facevano tornare in superficie e lui non faceva niente. Non faceva nulla. Guardava, gridava comandi senza senso, ma restava immobile.
Non riuscivo ad ascoltarlo. Non riuscivo a seguirlo. Non riuscivo a fare praticamente nulla. Non potevo farlo ero andata un’altra volta affondo.
Il cielo ormai era svanito e quel buio aveva incominciato ad avvolgermi con il salato profumo di quel mare senza tempo. La sua voce era troppo lontana per apparire reale e quel maledetto freddo mi stava congelando il cuore.

“Non mi dire che hai paura dell’acqua, sarebbe davvero stupido”.

Aprii gli occhi, mentre quel vago ricordo incominciò a svanire in quel nulla, nel quale forse ero caduta morente e l’immagine di Samantha prese posto davanti alla mia.

“Non so davvero cosa ci trovi Scott in una come te” disse acida, smuovendo la sua folta chioma di capelli rossi, mentre i suoi occhi dorati si chiusero per tutto l’istante in cui il suo corpo arrivò a toccare l’acqua in un perfetto tuffo senza esitazione.

O nuoti o vai affondo.

Quella era la vita. Non bisognava avere paura di niente se si voleva sopravvivere. Ma allora io che fine avrei potuto fare?
 

* * * *


 
Cinque minuti. Avevo solo cinque miseri minuti per farlo. Non dovevo esitare. Non dovevo bloccarmi. Il tempo scorreva, ma io dovevo continuare.
Presi quei piccoli petali viola dalla tasca. Presi quei pochi che erano rimasti. Gli altri gli avevo nascosti accuratamente nella mia collana. La stessa collana che mi aveva regalato quel giorno mio nonno, forse un anno prima dell’incidente con la barca.
Se la verbena funzionava davvero forse avrei avuto un leggero vantaggio su Klaus. Un piccolo vantaggio prima di riuscire a fermarlo. Prima che la signora Miller finisse di raccontarmi quella storia. Prima di sapere cosa avrebbe potuto realmente distruggerlo.
Prima di allora quello era tutto ciò che avevo.
Mi avvicinai alla borsa di Samantha e in silenzio presi il bracciale che portava tutte le volte e con estrema cautela cercai d’incastrarvi quel piccolo petalo viola, senza che fosse troppo visibile.
Per allontanare Klaus dovevo prima aiutare tutte le persone che mi stavano accanto e a cui lui poteva far del male e dopo i miei zii la persona che gli stava più vicino era lei.
Samantha.
Non sapevo cosa ci fosse tra di loro. Non conoscevo la ragione per cui si conoscessero e forse neanche m’importava, ma dovevo aiutarla.
Chiusi velocemente quella borsa e la riposi accuratamente nell’armadietto dello spogliatoio.
Anche se non la sopportavo avevo fatto la cosa giusta. Ne ero certa. Doveva essere così. Lei non lo meritava. La mia famiglia non lo meritava. Io dovevo far qualcosa. Qualsiasi cosa. Non potevo rimanere in silenzio a guardare la mia vita cadere a pezzi. Non potevo farlo davanti a lui. Questa volta non glielo avrei permesso.

“Che cosa stai facendo?”

Mi voltai di scatto quando sentii quelle parole. Quelle parole profonde di una persona irritante, ma pur sempre innocente.

Samantha.

Dannazione!

Nascosi d’istinto la sua borsa e chiusi velocemente la porta d’acciaio scolorito di quell’armadietto.
Mi aveva vista. Mi aveva vista. Ora non potevo far nulla. Non potevo dire nulla, ma sperai che non si fosse accorta del suo bracciale. Sarebbe stato troppo tardi.
Se lei era soggiogata, come credevo, Klaus l’avrebbe saputo. Lui sa sempre tutto.

“Non devi toccare le mie cose” mi disse infuriata, camminando con arroganza verso di me. I suoi occhi dorati parvero brillare, illuminati da un barlume di rabbia e di follia. “Mi hai sentita?”

Mi feci da parte e la lasciai passare. Forse era meglio non dir nulla. Non ancora.
La sua immagine s’inginocchiò a terra e controllò nella borsa che tutto fosse al proprio posto. Che non avessi toccato nulla.
Poi le sue mani afferrarono quel prezioso bracciale e se lo portarono vicino al viso.
L’aria mi rimase sospesa in gola e il cuore credo abbia perso un battito.
Chiusi gli occhi, contando quel momento come se fosse l’ultimo, ma quello sembrava non passare mai. Restava lì fermo e immobile, sfiorando ironico quella mia crudele agonia.
Ma poi tutto finì. Finì in quell’imbarazzante istante divorato dal tempo. Il bracciale si allontanò dal suo volto e le sue mani lo legarono al polso sinistro.
Un respiro di sollievo m’invase i polmoni e loro lo rigettarono velocemente all’esterno.
Non l’aveva visto. Non aveva visto quel piccolo fiore che vi avevo incastrato. Forse non era ancora finita del tutto o almeno non era finita finché Klaus non se ne fosse accorto.
Fu allora che lo vidi.
Quel piccolo livido se ne stava silenzioso tra la pelle chiara del suo collo. I lunghi capelli rossi talvolta lo nascondevano, ma io ero riuscita a notarlo comunque.

“Dove te lo sei fatto questo?” Le chiesi avvicinandomi e scostando un suo boccolo ramato dal collo per poterlo vedere meglio.

Era piccolo, così minuscolo che quasi risultava invisibile, ma c’era. Ero certa che fosse vero. Perché quella precisione con cui era stato inflitto era talmente accurata da farlo risultare tremendamente reale.
Un morso reale di una belva del tempo.

Lui è un vampiro.
“Non è nulla” asserì bruscamente Samantha, scostandosi da me con freddezza e indifferenza. “Sono stata io”.

Mentiva.

Mentiva. Glielo riuscivo a leggere negli occhi. Quegli occhi dorati che guardavano il suolo. Quelle iridi brillanti tinte di paura. La stessa paura che ora le dipingeva il volto e le segnava l’anima. Quella parte di cuore così vicina alla vita impossibile da nascondere. Su cui è impossibile mentire ed è altrettanto assurdo fingere di non possedere.
Ma come avevo potuto non prevederlo?
Come avevo potuto non capirlo?
Avevo pensato tutto questo tempo soltanto a me stessa. Non avevo immaginato che Klaus arrivasse a questo punto.
Avevo minacciato la mia famiglia, ma l’aveva fatto davanti ai miei occhi. Davanti al mio sguardo solo per poter farmi comprendere quanto potesse essere pericoloso se non avesse ottenuto ciò che voleva. Ciò che io ancora non riuscivo a vedere. Ma questo…
Questo non aveva nessun fine. Questo non aveva nessun scopo. Non serviva a nulla se non a riempire quegli spazi di noia che gli regalava l’immortalità.
Ma come poteva essere così infido? Come riusciva a non provare davvero nulla?

Nessuno al mondo è davvero privo di cuore.

Ma più passava il tempo. Più restavo vicino a lui. Più mi convincevo del contrario.
Klaus era un belva. Era solo un mostro e per questo motivo doveva essere fermato.

“Samantha, devi stare lontana da Klaus” le dissi, cercando di non farle capire direttamente la sua vera ed oscura natura. “Non è una persona…temperata”.

“Si lo farei” rispose alzandosi in piedi e prendendo la borsa da terra.

Mi guardò con aria indifferente. Un’aria che sfiorava la sfida e con voce irritante continuò a parlare. “Lo farei davvero, se m’importasse qualcosa di quello che dici”.

La sua immagine mi diede velocemente le spalle e cominciò a camminare con passo svelto verso la porta dello spogliatoio.
Non poteva andarsene. Non poteva farlo. No poteva non comprendere quanto Klaus fosse crudele. Io non potevo dirglielo, ma forse in qualche avrei potuto farglielo capire.
Corsi verso di lei e riuscii a fermarla prendendola per un braccio. Doveva ascoltarmi. Doveva capire a cosa stava andando in contro. Klaus non era quello che diceva di essere e non poteva approfittarsi di lei come se il suo pensiero non fosse importante. Doveva aprire gli occhi.

“Samantha, dico sul serio” le dissi a bassa voce, avendo sempre paura che qualcuno fosse lì in ascolto. Forse anche l’aria in questo momento aveva gli occhi. Aveva degli occhi di ghiaccio che congelavano l’anima. “Devi stargli lontano, lui è pericoloso”.

Il suo viso si voltò verso di me e mi guardò con la stessa espressione con cui si guarda un moscerino. Un fastidioso moscerino che aspetta solo di essere ucciso.

“Allora deve piacerti il pericolo” mi disse sorridendo e una smorfia irritante le si dipinse sulle labbra rosse. “Considerato il modo in cui gli sbavi dietro come un cagnolino”.

Mi fermai per un istante quando quelle assurde parole mi giunsero inaspettate le orecchie. Quando l’ironia di quell’istante mi sfiorò il cuore e quell’attimo parve congelarsi in eterno.
Come poteva davvero pensarlo?
Come poteva credere sul serio alle sue parole. Quelle assurde parole prive di senso?
Come poteva credere che vedessi Klaus in un modo diverso oltre che al mostro che riduceva a pezzi la mia vita?
Lui era un vampiro. Lui era una belva del tempo. Una creatura infida senza più un cuore e che divorava le persone solo per raggiungere i propri scopi.
Come avrei potuto provare qualcosa per lui? Non l’avrei mi fatto ed ero fermamente convinta della veridicità delle mie parole.

“Ti sbagli” le dissi, lasciando il suo braccio, ancora sorpresa per le sue infondate affermazione gettate al vento. “Tra me e Klaus non c’è assolutamente nulla”.

 L’immagine di Samantha si fece più vicina e i suoi occhi dorati colpirono i miei con un qualcosa di simile alla sfida.

“Perché non ci riprovi. Non sei stata per niente convincente, lo sai?” mi rispose con un ghigno, che avido mi fece infuriare. “Nemmeno tu credi a te stessa”.

Il suo volto si allontanò dal mio con l’espressione di chi sa di aver vinto e i suoi boccoli ramati tornarono a ricoprirli quel livido segno di un morso. Il morso crudele di una belva del tempo. Il morso di Klaus.
La guardai andare via, ma lei mi regalò le sue ultime parole anche se di spalle.

“Non ti conviene metterti contro di me, potrei far in modo che la tua vita diventi un Inferno”.

Restai ferma, immobile, con la schiena contro quelle fredde mattonelle da cui non osavo allontanarmi, finché la vidi sparire dietro quella porta.
Una sensazione di amarezza m’invase tutto il corpo, ma nonostante tutto questa volta non avevo fallito.
Questa volta ero riuscita a non farlo. Lei mi aveva insultata, ma ciò nonostante non aveva notato nulla in quel bracciale legato al suo polso. E se lei non l’aveva notato, perché soggiogata, Klaus questa volta non avrebbe saputo niente e questo poteva essere il mio piccolo vantaggio. L’unico, almeno fino a quando non avessi saputo l’intera sua storia.

O nuoti o vai affondo.

E questa volta ero certa avrei nuotato.

 

* * * *


 
Il freddo vento urlò gelido il suo nome, mentre effimero soffiava sulle mie ferite. Su quelle mie incomprensioni e paure che segnavano l’inizio di una nuova esistenza.
Dal cielo cupo piangevano lacrime invisibili, mentre tristi vomitavano quel dolore e quell’inquietudine che traspariva ormai anche dal mio volto e mi macchiavano infide il cuore, penetrando tanto affondo da farlo soccombere in un lento, ma implacabile grido, che colava come sangue, attraverso tutto quell’odio che mi ero accorta di provare.
Non tutte le ferite sono superficiali. Alcune sono radicate, sono profonde e a volte più di quanto pensiamo. Alcune ci colgono di sorpresa. Altre sono premeditate. Per altre invece bisogna scavare affondo per trovarne la causa.
Non possiamo vederle, ma possiamo sentirle e forse questo è assai peggiore della stessa sofferenza. Della stessa malattia. Perché sappiamo che ci sono, ma non possiamo far nulla per eliminarle.
Le persone sono piene di ferite e a volte non si riesce nemmeno a contarle. Molte di loro svaniscono con il tempo, lasciando solo delle cicatrici. Segni sulla pelle che ci ricordano dove siamo stati e cosa abbiamo superato. Ci impartiscono lezioni su chi dobbiamo ascoltare e ci dicono per cosa moriremo per difendere.
Alcune ferite invece non svaniscono. Rimangono lì anche se il taglio è sparito da un pezzo. Il dolore permane e alla fine della giornata, quando si arriva fino in fondo non bisogna far altro che cercare di curarle, ma tutto ciò che si vuole, alla fine, è poter star vicino a qualcuno. E delle volte quello è tutto ciò di cui si ha bisogno.
Ma io ora non avevo nessuno.
Non avevo nessuno che mi capisse. Nessuno che mi ascoltasse o che mi difendesse. Ero sola a sopportare tutto questo. Ero sola. Completamente e totalmente sola. Non perché non fossi circondata da persone che amavo, ma perché in mezzo a tutti loro non riuscivo a sentirmi qualcuno. Come se non riuscissi a realizzarmi. Come se fossi solo un ombra, un fantasma che vagava nel buio.
Un nulla. Io ero un nulla. Un nulla che gridava, ma che nessuno si fermava ad ascoltare. Un nulla che sbraitava, ma che nessuno poteva vedere.
Come poteva un nulla fermare il suo incubo?
Ma forse proprio perché ero un nulla potevo farlo. Perché in fondo i mostri non esistono. Sono solo le nostre paure che prendono i loro volti.
Ma se i mostri non esistono cosa poteva essere Klaus? Se nessuno al mondo è davvero privo di cuore questo voleva dire che anche uno come lui doveva possederlo?
Forse anche lui era stato umano. Forse anche lui, come me, aveva provato sentimenti ed emozioni. Forse aveva amato. Forse aveva odiato e forse anche lui delle volte si era sentito solo e indifeso. Forse anche quella belva del tempo una volta era stata viva.
Infondo le persone sarebbero meno pericolose se fossero del tutto prive di cuore e questa era la prova certa che anche Klaus un tempo era stato come me.
Forse i legami che ci univano erano molti di più rispetto a quelli che ci separavano, ma io allora non potevo ancora saperlo. Non potevo immaginare cosa si nascondesse dietro quella maschera di cinismo che indossava ogni volta che qualcuno gli stava accanto. Forse per protezione. Forse per salvezza o forse semplicemente per non mostrare quanto sensibile potesse essere il suo animo.
Ma quelle erano solo allusioni. Niente di vero. Niente di possibile. Dovevo guardare soltanto la realtà e la realtà ora mi diceva che lui non era altro che un mostro. Un crudele mostro famelico che andava fermato.
Attraversai velocemente la strada, mentre tutta quell’acqua cadeva dal cielo come lacrime giù dal mio viso.
In fondo mi piaceva la pioggia. Aveva un qualcosa di triste, ma anche consolatorio. Forse semplicemente perché pareva condividessimo i dolori, le frustrazioni e tutti i fallimenti che avevamo provato. Tutte quelle delusioni che avevamo accumulato in tutto questo tempo e ora li gettavamo fuori, mentre questi ci scivolavano addosso, liberandoci il cuore.
Avevo sempre amato la pioggia. Da quel giorno l’avevo sempre fatto.

“Perché non ti ripari dal temporale, mamma?”

“Perché le lacrime di qualcuno non sono più o meno importanti di altre”.

Allora non avevo capito cosa intendesse. Non avevo capito a cosa volesse alludere, ma ora mi risultava tutto chiaro.
Quando siamo tristi pare che tutto il mondo ci crolli addosso, ma quando qualcuno piange con noi il dolore diminuisce, la sofferenza scompare e la tristezza…la tristezza ci sarà sempre, ma questa volta sarà divisa a metà.
Amavo la pioggia, perché riusciva  a non farmi sentire così sola e quando qualcuno smette di esserlo, il mondo non sembra poi così buio.

“Alba, finalmente ti ho trovata”.

Quelle dolci parole mi entrarono dentro la pelle e per un attimo tutta quell’infida paura parve scomparire insieme alla pioggia, che furente mi scivolava addosso.

Scott.

Mi voltai lentamente, avendo paura che quest’attimo svanisse in quel vento immortale, che con la sua forza mi segnava il cuore e mi trafiggeva gli occhi. L’unica parte di noi che beve direttamente dalla bocca della nostra anima e forse anche lei, come me e come il cielo, piangeva lacrime colme di sangue.
Mi voltai e lo vidi. Vidi i suoi occhi. Vidi la vita dentro di essi e la luce che gli illuminava lo sguardo era così brillante che avrei voluto non si spegnesse mai.
Non è questione di averli azzurri, verdi o castani. È che se negli occhi non hai nulla che ti sgorga direttamente dall’anima non potranno mai essere belli e i suoi, in questo momento, sembravano i più vivi che avessi mai visto. E quella vitalità, nonostante tutto quello che stavo vivendo, sembrava possedesse il potere di farmi rinascere. Come se in un semplice istante il cielo avesse soffiato il Paradiso tra le stelle.
Il Paradiso. Io credo nel Paradiso. Credo anche nell’Inferno se è per questo. Non ho mai visto nessuno dei due, ma credo che esistano entrambi. Devono esistere. Perché altrimenti, senza di loro, non ci resterebbe altro che il limbo.
Ed è sempre meglio credere in qualcosa che nel nulla. Anche l’Inferno, in qualche modo ci dona speranza, perché con lui possiamo essere almeno qualcuno e non c’è niente di più comune nel desiderio di essere importanti.
È molto meglio essere crudeli che avere la paura di non essere nessuno e forse questo valeva anche per Klaus e se era come pensavo, questo significava che anche uno come lui doveva possedere un cuore.

“Cosa fai lì fuori?” Mi disse Scott, correndo verso di me, finché mi riparò con la sua giacca che mi servì da rifugio. “Ti prenderai un accidente”.

Alzai gli occhi e vidi i suoi. Quegli occhi verdi che non vedevo da troppo tempo. Il dolce sguardo di una persona che mi era fin troppo mancata e che troppe volte la sua assenza aveva svuotato anche me stessa.
È strano pensare come la felicità di una persona dipenda da qualcun altro. Come se non fossimo padroni di noi stessi. Come se le nostre attitudini e i nostri comportamenti fossero strettamente legati dalle persone che ci stanno accanto. Come se fili invisibili legassero i nostri animi e nonostante la distanza e le difficoltà continuassero a stringersi, a volte anche serrandoci in nodi soffocanti.
Una forte folata di vento investì i nostri volti fin troppo vicini e la forte pioggia colpiva incessante le fragili pareti scure del nostro riparo. Come se stesse riversando su di noi il suo immenso dolore.

“Le lacrime di qualcuno non sono più o meno importanti di altre” gli dissi, rispondendo alla sua domanda, che era rimasta sospesa nell’aria, mentre essa parve rapirla, trascinandola a sé come una falena dalla luce.

Paradiso, inferno e limbo. Nessuno sa dove andremo a finire. Nessuno sa cosa ci aspetta quando arriveremo.
La vita è colmata da giorni belli e brutti. Giorni tristi e sofferti. Ho imparato che questi periodi di oscurità possono sopraffarci  in qualsiasi momento, ma ho capito anche che tutto ciò che ti ferisce ti  rende solo più forte.
Forse questo è tutto ciò che possiamo sapere perché le decisioni improvvise. Quelle che ci colgono di sorpresa. Quelle che prendiamo con facilità. Senza esitazioni. Sono quelle che ci perseguitano per sempre.
Ma in fondo anche i giorni peggiori hanno un lato positivo: finiscono.

“Cosa c’è che non va?” Mi chiese Scott, abbassando il suo volto verso il mio, così da potermi vedere negli occhi.

“Nulla, va tutto bene” gli risposi, abbassando lo sguardo.

Non volevo capisse che fosse il contrario. Non volevo scoprisse che in realtà tutto andasse storto. Non potevo continuare a mentire. Non potevo farlo con lui.
Lui era sempre stato sincero con me. Mi aveva aperto il suo cuore. Mi aveva parlato della morte della madre e del difficile rapporto con il fratello, mentre io continuavo a mentirgli. A nasconderli cosa c’era ancora di vero in quell’assurda realtà.
Non potevo permettere ai miei occhi di smascherarmi. Non potevo permettermi che lui dubitasse di me. Non potevo fargli capire cosa celasse la mia anima. Non potevo dirgli cosa nascondesse il mio cuore. Questa volta non avrei potuto farlo, perché la posta in gioca era molto più alta di quanto pensassi.

Ucciderò chiunque verrà a saperlo, senza sbattere ciglio.

Queste erano state le parole di Klaus. Questa era stata la sua crudele sentenza.

“Alba, sono un tuo amico e gli amici fanno questo: ti aiutano” mi disse, sfiorandomi con la mano la fronte, cancellando tutte quelle lacrime che tristi cadevano dal cielo. “Come posso farlo se continui a nascondermi il tuo dolore?”

Dolore. Gli stavo nascondendo il mio dolore. L’unica cosa che non riuscivo a tenere per me. L’unica cosa che non riuscivo ad eliminare, nonostante avessi convinto tutti di avercela fatta. Nonostante avessi finto per gran parte della mia vita, non ero riuscita a farlo con lui e ironicamente questa doveva essere l’unica volta in cui avrei dovuto riuscirci.

Ucciderò chiunque verrà a saperlo, senza sbattere ciglio.

Non volevo gli facesse del male. Non volevo che anche lui venisse ferito. Lui non se lo meritava. Lui non avrebbe sofferto per colpa mia.

“Io…io non posso, mi dispiace” pronunciai quel flebile sospiro, come se fosse un lamento disperso nel vento.

Non avrei detto una sola parola. Sarei rimasta in silenzio anche se questo voleva dire farmi odiare da lui, non m’importava.
Potevo accettare il suo odio. Potevo capire il suo disprezzo, ma non avrei mai sopportato la sua morte. Mi avrebbe uccisa.

“Non dispiacerti, ho capito” asserì Scott, mentre tutta quella pioggia gli solcava il volto, rendendolo per la seconda volta triste. Come quando, alla festa, mi aveva parlato della madre e come quando con lo stesso sguardo mi aveva raccontato del fratello. “Non ti fidi abbastanza di me come io di te”.

Un boato esplose nel cielo, mentre quel grido pungente parve rapirmi per sempre. Quelle sofferenti parole mi giunsero al cuore e me lo strinsero fortemente in una stretta mortale.
Come poteva pensarlo sul serio? Come poteva credere che io di lui non mi fidassi? Perché dannazione non capiva che io stavo facendo tutto questo soltanto per lui? Sarebbe morto. Klaus l’avrebbe ucciso, se io avessi detto qualcosa. Lui non poteva sapere tutto questo, ma non si sforzava nemmeno di comprendere.

“Scott, aspetta”. Cercai di fermarlo, mentre la sua figura si stava velocemente allontanando dalla mia, sotto quella gelida pioggia che ci faceva da casa e che cadeva dai suoi scuri capelli e gli macchiava il volto, come se stesse piangendo. “Aspetta, ti prego”.

Il suo volto mi regalò un altro suo sguardo, mentre tutta quella tristezza e frustrazione gli dipingevano le iridi chiare.

“Ero venuto per dirti che dimettevano Allyson dall’ospedale. Che stava bene, ma questo ora non ha più importanza.” mi disse, alzando la voce per sopraffare il forte urlo del vento, che gridava dal cielo come le ombre sulla terra.

Un istante. Un gelido attimo fermo nel tempo. La mia mano abbandonò il suo braccio e la sua alta figura scomparve tra tutta quella nebbia che giaceva morente al suolo.
Era andato via. Era andato via prima che potessi dirgli quanto tenessi a lui. Quanto fosse diventato importante per me in così poco tempo, ma ora era tutto inutile. Non l’avevo fermato. L’avevo lasciato andare nonostante tutto il dolore che mi aveva provocato. L’avevo fatto senza neanche guardarlo negli occhi. Non ne avevo avuto il coraggio.
Questa volta non dovevo pensare a me stessa. Questa volta non sarei stata egoista. Non dovevo esserlo per lui.
L’avevo perso. Forse l’avevo perso per sempre e quella consapevolezza parve pugnalarmi infida la schiena.
Quel ticchettare frenetico si dibatteva al suolo e colpiva crudele il morbido tessuto della sua giacca che ancora stringevo in mano dopo che lui se n’era andato.
Ero sola. Ero di nuovo così maledettamente sola. Sola a sopportare tutto questo. Sola ad ascoltare le mie lacrime invisibili, che cadevano dai miei occhi e si nascondevano tra la pioggia dove nessuno le avrebbe mai viste.
Questo era un altro motivo per cui adorassi la pioggia. Potevo piangere, ma nessuno l’avrebbe mai capito. Potevo gridare, ma nessuno mi avrebbe sentito. Potevo essere me stessa senza il bisogno per una volta di fingere una parte. Di fingere di essere un qualcuno che neanche esisteva.
Ma ora cosa mi restava? Su chi altro potevo contare?
Ora che avevo perso anche lui su chi altro potevo fare affidamento?
Scott non avrebbe mai saputo tutto questo. Non l’avrebbe mai fatto, perché io non gli avrei detto nulla e quello era l’unico modo. L’unica possibilità che aveva di salvarsi. Di salvarsi da una belva del tempo. Da quel mostro che lentamente mi stava portando via tutto.
Avevo giurato a me stessa che l’avrei fermato. Che gli avrei impedito di ferire le persone che amavo. Che le avrei protette da quel mostro. Da quel demone dagli occhi di ghiaccio che di umano non doveva possedere nulla. Ma tutto quello a cui stava facendo del male ero soltanto io.

Quando si vive in eterno si è incapaci di provare sentimenti sia per se stessi che per gli altri.

E nonostante avessi cercato di convincermi in tutti i modi del contrario, solo allora mi accorsi che in Klaus non vi era alcuna speranza di redenzione.
Era soltanto un mostro. Un mostro privo di cuore a cui non importava di nessuno. Che non provava sentimenti e che si divertiva a distruggere tutto ciò che mi rimaneva di quella mia assurda vita solo perché della sua non doveva essere rimasto più nulla, oltre che la solitudine di un’esistenza immortale.

“Buonasera, Alba”.

Una istante. Un fuggente attimo che sparì tra tutta quella pioggia. Le lacrime del cielo parvero congelare, mentre tutta quell’inquietudine parve stringermi il cuore in una morsa pungente.

Klaus.

Mi voltai di scatto quando riconobbi la sua voce. Quella voce crudele di una persona immortale. Quella voce suadente di chi vive da secoli e conosce irrimediabilmente ogni singolo dannato aspetto del mondo. Forse perché era lui stesso il suo segreto più nero.

“Sono davvero lusingato di sapere che occupo i tuoi pensieri”.

Non mi ero nemmeno accorta di come tutta quella rabbia rendesse reali le mie parole. Come loro mi sfuggissero dalla bocca, senza che io facessi nulla per fermarle, ma ora era troppo tardi. Lui le aveva sentite. Aveva sentito tutto il rancore. Tutta la furia e tutta quell’attrazione che provavo inspiegabilmente per lui e questo poteva trasformarsi nella sua forza più grande. Nella sua arma più potente, che avrebbe potuto in un secondo distruggermi.
Alzai lo sguardo e vidi il suo viso. Il suo volto perfetto solcato dalla pioggia, come se stesse piangendo. Come se anche lui fosse attraversato da tutto quel dolore improvviso che in un attimo aveva trafitto ciascuno di noi.

Le lacrime di qualcuno non sono più o meno importanti di altre.

Quella doveva essere la cosa che ci accumunava?
Ma se nessuno al mondo è davvero privo di paura, questo voleva dire che anche la persona più crudele doveva esserlo. Anche il più potente della terra provava terrore.

La paura è ciò che ti rende umana. Ciò che ti distingue da me.

Ma se Klaus non aveva nessuno da temere, come affermava, questo voleva dire che la persona di cui aveva paura doveva essere lui.

Se non riesci più a fidarti di te stessa su chi altro puoi contare?

Lui era l’unico in grado di capirmi. L’unico che riuscisse a comprendermi. Come se conoscesse i miei pensieri. Come se li ascoltasse. Come se li sentisse dal profondo del mio cuore.
Non avevo mai compreso la ragione. Non avevo mai afferrato il motivo. Pensavo conoscesse così bene l’umanità per via dei numerosi secoli in cui aveva vissuto sulla terra. Pensavo che riuscisse a farlo soltanto per la sua lunga ed infinita esistenza senza fine, ma sbagliavo. L’ho sempre fatto.
Quella era solo una cornice, ora avevo il quadro completo.
Lui riusciva a comprendermi perché anche lui, una volta, aveva dovuto provarli. Li aveva sentiti. Li aveva vissuti e forse era stato anche ferito per questo fingeva non esistessero. Per questo pretendeva che non lo sfiorassero nemmeno, ma mentiva. Doveva essere così,

Nessuno al mondo è davvero privo di cuore.

E in questo mondo così oscuro nel quale mi stava portando mi accorsi solo allora di quella piccola luce, che fioca illuminava le tenebre.
Ma questo non cambiava le cose. Questo non cambiava quello che mi stava facendo. Mi stava distruggendo ogni singolo dannato pezzo della mia vita e lentamente me li avrebbe portati via tutti quanti, lasciandomi esattamente come era lui: infinitamente solo.

Nessuno al mondo dovrebbe mai sentirsi solo.

Ma il perché avesse scelto me non mi era ancora noto.

“Sono contento che tu non gli abbia detto niente” mi disse, avvicinandosi tra tutta quelle lacrime, che dal cielo infierivano sulla sua bianca pelle, rendendola così inesorabilmente triste, facendo perdurare l’eternità di quell’istante. “Avrebbe fatto la fine della piccola Allyson. Forse peggio”.

Alzai gli occhi verso i suoi e vidi l’odio. Vidi tutto quell’odio che si rifletteva nelle sue iridi di ghiaccio. Tutto quell’odio che doveva dipingermi lo

sguardo. Tutto l’odio che sentivo per lui.


Guarda gli occhi. Gli occhi non mentono.

Io l’odiavo. Più di quanto avessi odiato nella mia vita. Più di quanto potessi fare nella mia fragile e breve esistenza, che non sfiorava nemmeno un suo banalissimo istante. Io l’odiavo forse più di quanto avessi odiato in tutti questi mesi me stessa.
Quel rancore mi nasceva da dentro. Mi bruciava. Mi feriva. Faceva male. Faceva così male perché non sarebbe servito a nulla. Non era abbastanza, perché la paura che avevo per lui superava tutto questo.

Non devi avere paura di niente se vuoi sopravvivere.

Avevo detestato mio nonno il giorno in cui mi aveva lasciata nell’acqua. Avevo detestato il fatto che non fosse venuto a salvarmi. Che gridasse e comandasse ordini, mentre non muoveva un solo dito per venire ad aiutarmi.
Per mesi avevo deciso di non vederlo. Per anni avevo scelto di non parlargli, ma forse tutto quello che aveva detto non era soltanto nel torto. Forse le sue parole avevano un qualcosa di veritiero.

O nuoti o vai affondo.

Quella era la realtà. Quella era la vita e io non avrei potuto far niente per cambiarla.

“Come puoi essere così crudele?”

Quella domanda mi sfuggì dalla bocca. Scappò via dalle mie labbra sotto forma di un flebile respiro. Di un flebile respiro governato dal vento e che venne trasportato fino  lui. Fino alla sua gelida e ferma immagine, che da sola pareva sconfiggere il tempo.
Le gocce di pioggia gli colavano sul volto. Gli colpivano infide i capelli chiari e gli scivolavano sul viso dai lineamenti marcati, come se tutti quei secoli non l’avessero sfiorato neanche in un istante. Come se tutto quel tempo lo rendesse in qualche modo triste.

Nessuno al mondo dovrebbe mai sentirsi solo.

Quella doveva essere l’immortalità?
Vivere con lo stesso aspetto per sempre. Senza cambiare mai. Senza crescere e invecchiare. Conservando in eterno quella fragile bellezza che segna i dannati.
Ma quale scopo poteva avere tutto questo?
Chi al mondo poteva desiderare una cosa simile?
Vivere in eterno senza nessuno accanto. Senza essere mai amato. Senza essere mai capito. Chi poteva riuscire a sopportare l’idea di essere solo per sempre?

“La crudeltà è una questione di punti di vista, amore”.

Le sue labbra si tirarono in un sorriso forzato. Un sorriso risoluto e terribilmente arrogante. Così sadico e meschino, tanto che non riuscii nemmeno a guardarlo.
La sua alta e possente immagine fece un passo verso la mia. Un passo calcolato tra tutta quella nebbia, che scandiva irrimediabilmente ogni singolo dannato secondo nella sua esistenza senza fine.
Un lampo illuminò il cielo, quasi come se fosse giorno. Quasi come se quella luce fosse quel flebile bagliore che dipinge arduo le tenebre. Tutto quel buio che doveva soppesare sul suo cuore inesistente. Sul suo cuore marcio, che aveva smesso di vivere da chissà quanti secoli.
Sul suo cuore, che nonostante tutto, doveva essere ferito.
Un altro suo passo avanti. Un altro boato esplose nel cielo. La pioggia divenne più forte e tutto quel gelido vento divenne incontenibile. Non riuscivo a tenergli testa, ma dovevo farlo.
Questa volta non mi sarei mossa. Non avrei indietreggiato. Non l’avrei fatto.

O nuoti o vai affondo.

E io dovevo nuotare. Non dovevo avere paura di niente. Non dovevo permettergli di essere il mio incubo. Non dovevo lasciare che mi portasse via tutto ciò che mi restava. Non sarei diventata come lui. Non sarei diventata un mostro.
Solo così avrei potuto sopravvivere. Solo così avrei potuto salvarli.
Lui non avrebbe ucciso altre persone. Non avrebbe ferito nessun’altro. Non in questa città. Non in questa vita. Non vicino a me. Io non glielo avrei permesso.

“Uccidi un uomo e sei un assassino. Ne uccidi milioni e sei un conquistatore. Li uccidi tutti e sei un Dio. Allora dimmi, tesoro, qual è la differenza? Cos’è che mi rende così crudele? Cos’è che mi distingue da lui?”

Mi disse indicando un punto impreciso in quel cielo scuro, solcato dal vento, mentre le sue grida mi giunsero come un avido ringhio tra tutte quelle gelide tenebre.
Mi stava sfidando. Mi stava minacciando. Ma come poteva costringermi a comprenderlo? Come poteva paragonarsi a lui?
Come se stesse cercando una scusa per tutto quello che stava facendo. Per tutto il male che stava creando. Come se stesse dando un motivo al suo temibile comportamento.
Ma uno come lui non poteva essere compreso. Io non l’avrei mai fatto. Perché quella bestia senza speranza di redenzione, non meritava neanche di essere ascoltata.
Aveva ferito la mia famiglia. L’aveva soggiogata, minacciata e poi quasi uccisa. Aveva attaccato Ally nel bosco soltanto per noia. Aveva morso Samantha e poi l’aveva costretta al silenzio. Aveva ucciso quei ragazzi scomparsi da giorni e ora era riuscito anche a farmi odiare da Scott. Come se io non lo ritenessi importante da concedergli la mia fiducia. Come se io non ci tenessi a lui, come lui faceva con me.
Ma tutto questo doveva finire. In qualche modo doveva terminare. Non riuscivo più a sopportarlo. Non riuscivo più a rimanere in piedi.

“Io ti odio. Sei solo un mostro!”

Non mi accorsi nemmeno di come lo dissi. Di come glielo sputai in faccia senza neanche pensarci. Di come quelle parole pungenti, sfuggitemi dalla bocca, non si avvicinassero nemmeno a ciò che definiamo reale.
Mi stava portando via tutto. Tutto ciò che ritenevo importante. Tutto ciò che mi salvava da quella caduta che mi stava attendendo in quel luogo infido più oscuro dell’inferno.
La morte dei miei genitori mi aveva devastata. Il vuoto che mi avevano lasciato era infinito e tutto quel senso di colpa mi stava uccidendo, ma non sarei riuscita a sopportarlo se non fosse stato per tutte le persone che mi stavano accanto. Per tutte quelle persone che lui mi stava portando via.
Io l’odiavo. L’odiavo così tanto. Così fortemente, che quasi non riuscivo a contenerlo. Non riuscivo a farlo. Non riuscivo a rispondere a tutto quell’odio che mi stava divorando. Mi stava lacerando. Mi prosciugava goccia per goccia fin quando non sarebbe rimasto più nulla. Finché sarei rimasta come lui: sola a sopportare tutto questo rancore.
La pioggia infieriva su di noi, come il disprezzo sui nostri volti. Come quel bagliore che infuocava i nostri sguardi. Che ci accumunava, nonostante tutta quella diversità che ci caratterizzava.

La paura è ciò che ti rende umana. Ciò che ti distingue da me.

Ma io in quel momento non avevo paura. Non provavo terrore o rimorso. Ma se non sentivo tutto           questo, allora, cos’era che mi distingueva da lui? Cos’era che non mi rendeva un mostro?
Non vidi neanche come il suo viso cambiò. Come i suoi lineamenti mutarono. S’indurirono. Come se la collera avesse dipinto il suo sguardo divenuto improvvisamente nero. Intriso di rabbia. La stessa rabbia, che ora, colorava anche le mie iridi.
Come se fossimo uguali. Due anime completamente diverse in grado di comprendersi. Due anime identiche che si ferivano a vicenda.
Un dolore improvviso mi colpì furente la schiena. Un dolore così forte, così meschino, ma così necessario, che quasi non me ne resi nemmeno conto.
Non mi accorsi neanche di quello che successe. Di quello che accade, perché troppo veloce e sfuggente per riuscire a comprenderlo.
Il suo corpo gelido come il marmo, ma crudele come il fuoco si era scagliato così velocemente sul mio, con una forza e una cattiveria tale da non provare neanche a respingerla.
Lo spesso tronco di quell’albero aveva fermato la sua crudele avanzata. Mi aveva graffiata. Mi aveva trafitta. Mi era entrato dentro la pelle che ora sanguinava. Sanguinava così tanto da non riuscire più a fermarla.
Ma non era ancora finita. Non era ancora finita, perché il peggio doveva ancora venire.
Il suo volto effimero, segnato dalla furia. Dalla collera di quel momento. Il suo volto che di umano non doveva possedere nulla, perché era così simile ad un mostro. Sembrava il volto di una belva. Di una belva del tempo.

Lui è un vampiro.

Era così vicino. Così dannatamente vicino. Riuscivo a vedere i suoi occhi neri rispecchiarsi nei miei. Riuscivo a vedere ogni singola venatura, che infida gli circondava lo sguardo e faceva paura. Faceva paura perché quello era il viso di una bestia. Di una bestia senza anima, che viveva divorando la gente.

Nessuno al mondo è davvero privo di cuore.

“Non sai neanche cosa vuol dire odiare” mi disse la sua voce, che come un sibilo si disperse furiosa nel vento. “Non hai vissuto abbastanza per saperlo”.

Le sue urla si susseguirono caotiche nella mia testa. Erano così assurde. Così irreali, che faticavo addirittura a comprenderle. Non riuscivo a capirle perché erano sottolineate da qualcosa che non avevo mai visto in Klaus. Che non avevo mai sentito nella sua voce. Che non avevo mai notato nel suo sguardo.
Come se lui avesse capito il mio odio. Come se ne fosse stato colpito. Come se io l’avessi ferito.
Ma come può qualcuno che non prova sentimenti riuscire a comprendere cosa fosse l’odio?
Come poteva riuscire a capirlo? Come poteva riuscire a provarlo?
La vera umanità è provare odio e indifferenza per qualcuno, ma allora questo voleva dire, che anche lui, in qualche modo, doveva essere umano?

“Lo hai detto anche ai tuoi genitori, non è vero? Quella stessa notte, prima che li uccidessi”.

Silenzio. Rimasi in silenzio ad ascoltare le sue crudeli parole giungermi come gelidi pugnali nel centro del petto, mentre questo sanguinava effimero, raccontando un passato troppo vicino per apparire irreale.

Io vi odio.

Preferirei morire pur di non vedervi mai più.

Il respiro mi si congelò avido nel petto. Mi divorò fin dentro i polmoni e bloccò ogni singolo tentativo di liberarmi da quella bestia. Da quella bestia che mi stava ferendo nel modo peggiore che potesse esistere.

Preferirei morire pur di non vedervi mai più.

Io vi odio. Vi odio.

“Non li ho uccisi” dissi in un sussurro troppo debole per sembrare vivo, come se lo stessi dicendo soltanto a me stessa. Come se mi stessi convincendo delle mie stesse parole.

Io non gli avevo uccisi. Non l’avevo fatto. Era stato un incidente. Soltanto un dannato e stupido incidente. Io non avevo fatto nulla, ma allora perché mi sentivo così maledettamente in colpa?
Perché ogni volta che ci pensavo una fitta mi dilaniava pesante il cuore? Perché mi sentivo così responsabile? Se io non avevo fatto nulla non avevo nulla da temere e Klaus non mi avrebbe convinto del contrario. Non ci sarebbe riuscito. Non glielo avrei lasciato fare.
Il suo nobile volto si avvicinò ancora di più al mio, come se le nostre ombre sul terreno si unissero insieme in un’unica tenebra, tanto da farci sembrare quasi amici. Due persone che si amavano e che condividevano una così corta distanza.
Ma io l’odiavo. L’odiavo così tanto come non avevo mai odiato in vita mia. L’odiavo perché mi faceva ricordare tutto. Perché me lo sputava in faccia come per vendetta.
Sulle sue rosse labbra si dipinse un sorriso. Un sorriso così avido ed infido che non riuscii nemmeno a guardarlo. Il sorriso bastardo di un demone. Di un demone che si divertiva a giocare con la sua preda.

“Hanno avuto quell’incidente per colpa tua” mi disse ridendo, scoprendo i suoi denti bianchi, che risaltavano tra tutto quel buio. “Li hai mentito, hai tradito la loro fiducia e poi li hai uccisi”.

Smettila!

Non poteva farlo. Non doveva. Non poteva dire sul serio. Non poteva credere che fosse reale.
Come poteva essere così meschino?
Quello non era vero. Non doveva esserlo. Loro non erano morti per colpa mia. Io non lo sapevo. Non li avevo uccisi. Non l’avevo fatto. Io non avevo fatto nulla. Non potevo saperlo. Non era colpa mia.

“Come pensi si sentino adesso?” Mi chiese avvicinandosi, tanto che riuscii a sentire il suo freddo respiro inebriante vicino al mio collo. “Credi davvero che ti amino?”

Preferirei morire pur di non vedermi mai più.

No!

Io vi odio.

Basta!

Vi odio. Vi odio.

“Smettila, ti prego” pronunciai quelle parole quasi piangendo, non riuscendo per l’ennesima volta a mostrarmi forte davanti ai suoi occhi.
Io non ci riuscivo. Non riuscivo a farlo. Non riuscivo a non essere così infinitamente debole. Non potevo farne a meno. Non ci riuscivo.

Aveva vinto. Aveva vinto di nuovo. Quel mostro c’era un’altra volta riuscito. In così pochi istanti. In così poco tempo. Non potevo batterlo. Non sarei mai riuscita a farlo. Cosa diavolo mi era venuto in mente?
Io li avevo uccisi. L’avevo fatto. Avevo sempre cercato di convincermi del contrario. Avevo sempre sperato che questo non fosse reale, ma lo era. Era così dannatamente vero. Quella realtà era così viva che mi stava uccidendo.
Non potevo più mentire a me stessa. Non potevo più credere alle mie stesse bugie.

Preferirei morire pur di non vedervi mai più.

Io vi odio. Vi odio.

“Ho ferito i tuoi sentimenti, tesoro?” Mi disse con un finto tono dispiaciuto, come se lo stesse davvero pensando. Come gli importasse qualcosa di me. Come se stesse giocando con la mia debolezza, trasformandola nella sua arma più potente.

Quando si vive in eterno si è incapace di provare sentimenti sia per sé stessi che per gli altri.

Io li avevo uccisi. L’avevo davvero fatto e quella consapevolezza non mi diede nemmeno la forza di stare in piedi, mentre quelle crudeli lacrime continuavano a scendermi copiose dal volto, mischiandosi con la pioggia che pareva cancellarle, ma loro non sarebbero mai andate via, così come il rimorso dal mio cuore.
Forse loro mi odiavano. Forse loro non mi avevano mai perdonata. Come potevo voler bene alla persona che li aveva uccisi? Come potevano farlo? Come potevano amare chi aveva tradito la loro fiducia? A chi li aveva mentito. Alla persona a cui avevano dato tutto, mentre lei non aveva fatto altro che portarli delusione.
Mi lasciai cadere a terra come se fossi morta. Come se quella macchina avesse ucciso anche me. Come se mi avesse investito. Come se le nostre vite si fossero spezzate insieme in unico istante.

Preferirei morire pur di non vedervi mai più.

Il terreno era così freddo. Così buio. Tutte quelle tenebre sembravano avvolgermi. Mi uccidevano, mentre tutte quelle gocce che cadevano dal cielo infierivano al suolo, come i demoni sulla terra. Come il suo sguardo sul mio viso. Come la sua anima inesistente sulla mia colpevole.

“Non era mia intenzione ferirti, tesoro” mi disse la sua gelida voce, avvicinandosi alla mia che pareva tremare. “Ma infondo ci vuole sempre una bestia per ferirne un’altra, non trovi?”

Io ero una bestia. Io ero un mostro. Io ero esattamente com’era lui. Una belva senza alcuna speranza di redenzione.
Non meritavo di vivere. Non meritavo di trovarmi qui, mentre loro non c’erano più. Mentre loro erano andati via, solo per colpa mia. Perché io li avevo uccisi. Io avevo fatto sì che loro morissero.

Il rimpianto ti sta uccidendo. Riesco a sentirlo divorarti pezzo per pezzo.

La sua alta e possente immagine era divorata dalla pioggia. Sembrava piangere, soffrire. Come se tutto quell’agonia avesse pervaso anche il suo cuore. Come se nonostante tutto le sue parole, facessero soffrire anche lui, ma questo era impossibile, lui non provava sentimenti. Lui non era umano.
Ma se lui non li sentiva, allora, cosa potevo essere io?
Se io ero davvero una bestia come lo era lui, poteva davvero essere solo la paura a rendermi umana? Era solo quella a distinguerci?
Era solo lei a separare quel bivio infinito di ciò che appare e di ciò che è realmente?

“I vampiri si nutrono degli altri. Gli uomini, invece, sono costretti a divorarsi tra di loro”.

La sua voce mi giunse in un sussurro, che mi congelò avido il cuore, che mi raggelò potente i polmoni, mentre quelli non riuscivano più a respirare, divorati da quelli spasmi che mi massacravano dolenti il petto.

“Secondo te qual è il destino peggiore, tesoro?”


Il suo viso si avvicinò ancora una volta al mio, mentre il suo corpo si piegò sulle ginocchia in un gesto quasi di gentilezza. Come se mi facesse sentire importante. Come faceva mio padre. Come faceva tutte le volte prima che io lo uccidessi.
Forse lo sapeva. Forse conosceva anche quel piccolo particolare della mia vita e me lo stesse facendo soltanto per ferirmi. Come se tutto questo non fosse già abbastanza.
Come se anche quel piccolo gesto fosse calcolato. Come se fosse stato previsto a tal punto da rientrare nei suoi piani. Nei piani di una mente troppo contorta e complessa e che non potevo neanche sforzarmi di capire.

Guarda gli occhi, Alba. Gli occhi non mentono.

Ma nei suoi occhi folli non riuscivo a scorgervi altro che la più totale e completa indifferenza. Come se quel piccolo barlume di umanità che aveva illuminato le sue iridi in quel banalissimo istante in cui si era infuriato per le mie parole, fosse svanito in secondo. In un secondo divorato dal tempo.
Come se avesse riacquistato il controllo. Come se lo avesse fatto in un modo troppo semplice per apparire umano, ma lui era un vampiro. Lui era una belva del tempo. Lui era un mostro.

“Io e te non siamo poi così tanto diversi, non trovi?” Mi chiese, avvinando le sue labbra piene al mio orecchio così tremendamente vicino che la pelle parve tremare sotto quel gelido sospiro, che frantumò l’urlo potente del vento.

Le sue mani fredde circondarono avide il mio viso e lo portarono davanti ai suoi occhi. Ai suoi occhi di ghiaccio che avevano riacquistato il loro colore naturale. Come se volesse imprimersi nella mente ogni singola mia lacrima. Ogni singolo mio dolore che dipingeva crudele le mie iridi.
Come se gli piacesse. Come se ne fosse contento. Come se stesse apprezzando tutta la frustrazione e il senso di colpa, che si riversava in quel pianto rimasto silenzioso per troppo tempo. Lo stesso pianto che lui aveva creato.

Quando si vive in eterno si è incapaci di provare sentimenti sia per sé stessi che per gli altri.

Ma io in lui vidi qualcosa. In quel singolo istante in cui i nostri occhi si legarono, come se fossero uniti da un incantesimo. In preciso attimo, segnato dal ticchettare frenetico della pioggia, fu proprio allora che lo vidi, sebbene durò così poco da non apparire neanche reale.
In lui riuscii a scorgere l’inconfondibile luce, che determinava la sofferenza.
Una sofferenza talmente forte e duratura, che si tuffava nell’odio. Nei suoi occhi. Nel suo sguardo. Nella sua voce riuscii a sentire il suo inconfondibile suono, perché molte volte l’avevo provato, troppe l’avevo sentito, ormai riuscivo a distinguerlo. Non poteva ingannarmi. Non questa volta.
Ma quell’odio, al contrario, non era rivolto verso di me. Non era rivolto verso le mie parole. Non era rivolto verso il mio viso, sovrastato dal suo, ma in un luogo così lontano che non riuscivo a vedere. In un’epoca così distante che non potevo scorgere.
Quell’odio mi passava attraverso. Mi feriva, ma non mi colpiva direttamente. Non lo faceva, perché era troppo provato per apparire reale.
Ma tutto questo durò solo per poco. Lui lasciò il mio viso e i suoi occhi tornarono ad essere quelli di sempre. Ritornarono così infidi e meschini, che la sola indifferenza pareva sfiorare.
Lo vidi alzarsi in piedi, andando contro a tutta quella pioggia, che sembrava distruggerlo, nonostante la sua incredibile forza di chi vive per sempre.

“Alla fine di tutto, sweetheart io sarò l’unico che avrà vissuto, tu sarai soltanto esistita”. La sua voce mi raggiunse di spalle, mentre lentamente si allontanava tra la pioggia, in tutta quella nebbia che circondava malinconicamente i nostri pensieri più segreti.

“Non sprecare il tuo tempo cercando di ferirmi, perché io rovinerò la tua inutile, breve esistenza”.

Chiusi gli occhi per un attimo, quando tutto quel vento mi punse la pelle. Quando quella frustrazione mi bruciò le goti, raggelando ogni singola lacrima che si stava asciugando sulla superficie.
Ma quando li riaprii lui non c’era più. Era sparito di nuovo come il sole all’orizzonte. Come le stelle divorate dalle nubi e che segnavano, con la loro tristezza, un notte senza tempo che ci faceva da guida e che aveva macchiato, con il proprio sangue, un dolore che ironicamente aveva colpito entrambi.

 

* * * *


 
Io ti odio. Sei solo un mostro.

Rabbia. Ho sentito la rabbia esplodermi dentro. L’ho sentita espandersi, travolgermi, quasi arrivando ad accecarmi. Quasi come se potesse in qualche modo distruggermi. Come se le parole di quella ragazzina mi avessero davvero colpito.
Ma tutto questo è assurdo. Io non provo nulla. Non sento nulla. Non posso. Sono secoli ormai.
Guardo la notte. Guardo le tenebre. Guardo quella lugubre oscurità che divora ingannevole ogni cosa, mentre tutta quella pioggia mi scivola addosso sconquassando tremante l’etere, che riempie luminescente ogni singolo spazio, ma non vedo niente. Non posso vederlo, perché io sono un vampiro. Perché io sono un mostro.
Non riesco più a sentire quell’odore umido che impregna avido l’aria. Quell’odore pungente e nauseante che nasce dal bosco, che circonda melodioso ogni singolo albero. Ogni singolo filo d’erba. Ogni singola goccia che cade furente dal cielo sinistro, quasi agghiacciante, ma io non le vedo, mi passano attraverso come la luce dei raggi cremisi della luna bianca.
Come una luce spettrale, sommessa di chi non ha visto mai il sole. Di chi non sente il suo calore. Di chi non si ripara gli occhi da quel bagliore accecante. Di chi non sente più nulla, neanche il suo greve respiro fuoriuscire dalle livide labbra.

Io ti odio. Sei solo un mostro.

Semplici parole. Brevi ed inutili attimi gettati nel tempo. Un semplice istante che riecheggia arduo nei miei pensieri e mi travolge completamente fin dentro la gola, soffocandomi quel respiro invisibile di cui ormai ne sono privo.
Parole che si diffondono ossequiosamente nella testa. Che l’avvolgono. Che la screziano, come il manto lastricato dei cani. Come quello delle belve. Come forse è anche il mio.
Infondo sono Niklaus Mikaelson, il vampiro. L’essere malvagio, crudele, senza cuore, che vive nell’odio. Quello sono io. Quello sarò per sempre, ne sono cosciente, ma mi sta bene. Perché l’amore t’inganna, l’odio invece ti culla e il suono di quella melodia perdurerà ancora, fin quando quel fervore sfiorerà le oscure pareti dell’Inferno. Fin quando mi risveglierà da quel profondo sonno immortale, senza luce.
Fin quando tornerò ad essere vivo.
Le foglie secche di quel bosco scricchiolano sotto i miei piedi, mentre quel vento s’imbatte con furia sul mio corpo. Dovrebbe essere freddo. Dovrebbe farmi male, ma io non lo sento. Non me ne accorgo. Non ci riesco.
Il dolore. Cosa può essere il dolore?
Lo provoco. Lo infliggo alle mie vittime, senza pentimento, senza più rimorso, come se ne fossi felice. Come se questo mi riempisse quello spazio lasciato infinitamente vuoto. Come se riuscisse a realizzarmi, ma dopo quel breve attimo in cui le loro vite si spezzano davanti ai miei occhi. Dopo che le loro urla simili al dolce canto di un usignolo terminano in un unico e sofferente respiro e il loro sangue prelibato mi scorre copioso come vita dentro la gola. Dopo quel singolo istante, mi sento di nuovo morto, condannato ad un destino peggiore di quello che infliggo.
Eppure il dolore una volta riuscivo a sentirlo. Riuscivo a vederlo, a provarlo.
Anche Niklaus Mikealson un tempo era stato umano.

Io ti odio. Sei solo un mostro.

Lancio quella bottiglia contro l’impassibile nulla, mentre ascolto ogni singolo frammento di vetro spaccarsi al suolo come cenere sulla terra. Come le onde del mare nel tumulto di una tempesta. Come ossa che si frantumano, trapassate dalla lama tagliente di una spada. Dalla stessa spada che uomini stolti brandivano in onore di Dio, portando una croce sul petto e la morte negli occhi.
Riesco a vedere quel liquido dorato imbrattare incurante il suolo fangoso. Un liquido che non sazia. Un liquido che non riempie. Un liquido che non ha nemmeno la forza di farmi dimenticare.

“Sei solo un bastardo. Non sei degno neanche di essere vivo”.

Parole. Parole pungenti circondano avide la mia mente. Parole che feriscono. Parole che uccidono. Parole che urlano da un passato troppo lontano per apparire reale. Ma io me lo ricordo. Io mi ricordo ogni cosa.

“La tua vita non ha alcun significato, serve solo a disonorare il mio nome”.

Urla. Continuo a sentire le sue urla, come se tutti quei secoli non le avessero modificate. Come se tutto quel vivido rancore portasse alla luce ogni singolo maledetto ricordo.
Riesco a sentire la sua voce. Riesco a vedere il suo viso avvolto nell’ombra, illuminato soltanto da una candela troppo fioca per definire i contorni di quella fetida casa.
Di quella casa troppo buia, troppo fredda, con solo una finestra dalla quale vedevo la luna, mentre tutto quel sangue mi offuscava la vista e le sue mani mi martoriavano laceranti il corpo segnato.
A nulla valevano le mie parole. A nulla valevano i miei strazianti lamenti e i miei pietosi sussulti. Lui non li ascoltava. Non li sentiva. Non voleva farlo e mi faceva male. Mi faceva così tanto male.
Continuava senza pietà, senza vergogna, mentre io restavo a terra inebetito, sconvolto e privo di qualunque forza. Non riuscivo ad alzarmi. Non riuscivo a rispondere a ciò che definivo padre. Avevo paura. Ero totalmente suo succube. Non provavo neanche ad oppormi, come se fossi un fantasma. Io ero un fantasma che non meritava neanche di essere vivo.

“Avrei preferito che tu non fossi mai nato”.

Quelle parole mi erano giunte in un ringhio. Lui me le aveva sputate addosso come un veleno. Un veleno che mi ferì più del suo ultimo colpo verso il mio stomaco nudo, mentre vomitavo fiotti di sangue dalla bocca e inghiottivo l’aria come se fossero spilli.
Poi lo vidi andare via verso quel lugubre, oscuro e perenne nero, che solenne divora la notte. Sparì in quel buio senza neanche rivolgermi uno sguardo. Come se non fossi degno neanche di essere guardato.
Perché io non esistevo. Perché io ero un fantasma.
Parevo morto, come se il mio cuore avesse smesso di battere. Come se il mio respiro si fosse spezzato. Come se fossi dilaniato da tutto quel dolore che mi riduceva in brandelli, ma invece ero vivo. Ero vivo e tutto quel dolore era reale. Un dolore così forte che mi pare ancora di sentire.
Poi la vidi. Riuscii a distinguere la sua piccola immagine, mentre entrava silenziosa nella stanza. Vidi la sua dolce ombra riflettersi sul muro. Rispecchiarsi nei miei occhi frustrati, che faticavo addirittura a tenere aperti.
La vidi come se fosse un angelo. Il mio angelo custode e forse lo era veramente.
Ora ho smesso di credere in loro. Ho smesso di crederli reali. Tutti questi secoli mi hanno portato via tutto. Tutto ciò che ritenevo importante. Tutto ciò che mi rendeva libero e mi hanno lasciato solo. Terribilmente e completamente solo, ma ormai ho accettato l’idea di esserlo per sempre. Ho accettato il fatto che per un mostro come me non c’è redenzione.

“Nick, sono io”.

Sento la sua dolce voce risuonare nella stanza. La sento mentre mi rincuora fragile il cuore. La sento camminare in quell’oscurità in cui i miei occhi, ormai, parevano essere ciechi.
Ma io l’avevo riconosciuta, forse ancor prima che penetrasse in quella lugubre stanza. Era lei, lo sapevo, perché c’era ogni volta. Perché non mi abbandonava mai.

“Va via Bekah, nostro padre si arrabbierà”.

Mentivo, non volevo se ne andasse. Non volevo che mi lasciasse solo, ma dovevo dirlo. Dovevo farlo. Lei era solo una bambina. Era così piccola. Così innocente. Non doveva vedere sul mio viso martoriato tanto dolore. Non volevo che si accorgesse che il suo eroe non era altro che una delusione.

“Elijah sta calmando le sue ire, lui non verrà”.

Riuscii a distinguere la sua gracile immagine inginocchiarsi davanti alla mia, nuda, sofferente, madida di sudore, orribile.
Questo dovevo sembrare. Non volevo che anche lei mi credesse un mostro. Non volevo che anche lei desiderasse che io non fossi mai nato. Non volevo che i suoi enormi occhi blu mi guardassero in quel modo.
Voltai il viso, nascondendo tutte quelle screziature scarlatte che mi colavano dal volto come sangue puro.

Non sei degno neanche di essere vivo.

Lei non doveva vedermi in questo stato. Non meritavo neanche che mi rivolgesse la parola.
Le sue piccole mani mi sfiorarono il viso come un qualcosa di simile ad una carezza. Come se fosse un gesto di affetto. Come se davvero volesse bene ad un fantasma. Come se lo ritenesse importante.
Ma chi poteva amare un mostro? Chi poteva mai amare una bestia?
Con un piccolo lembo di straccio immerso nell’acqua mi bagnò la pelle, asciugando così lentamente tutto quel sangue e quelle lacrime che colavano giù dai miei zigomi come la cera di quell’unica candela.
Mi faceva male. Mi bruciava, ma tutto quel dolore questa volta era piacevole.

“Io lo odio Rebekah. Lo odio così tanto”.

I miei sussurri parevano tremare, come le nostre ombre intrappolate sul muro. Come il vento che freddo penetrava dalla finestra e che raggiungeva pungente le ossa, rendendo le labbra livide.

“Noi siamo una famiglia. Ci proteggeremo a vicenda qualunque cosa accada”.

Una bambina. Lei era solo una bambina. Era così piccola eppure sembrava così grande. Così adulta che quasi mi convinse delle sue fragili parole. Io non ero il suo eroe. Non potevo esserlo, ma lei sicuramente doveva essere il mio angelo.
Il volto pallido si avvicinò al mio e i suoi lunghi capelli biondi come il grano scesero a sfiorarmi delicatamente il viso, mentre la sua minuscola mano si allungò verso la mia e l’afferrò stretta, come per dirmi che non l’avrebbe mai lasciata.

“Siamo io e te Nick. Sempre e per sempre”.

Sempre e per sempre.
Ripenso a quelle parole. A quelle menzognere parole in cui una volta avevo realmente creduto. In cui avevo sempre confidato. Quando la speranza albeggiava ancora in me. Quando le lacrime mi segnavano il volto e mi ferivano il cuore. Quello stesso cuore che ora non batte neanche più.
Non lo sento. Non ci riesco. Premo così forte la mia mano sul petto quasi da perforarlo ma lui non c’è. Lui non esiste, è solo un fantasma. Un fantasma scomparso insieme al dolore, alla sofferenza e alla frustrazione.
Non provo più nulla. Non è da me. Non più.
Avrei preferito che tu non fossi mai nato.
Parole che mi avevano ferito. Che mi avevano martoriato e brutalizzato più di ogni altra cosa al mondo ora non fanno altro che strapparmi un sorriso.
Rido. Le mie risa si disperdono ossequiosamente nell’aria. In quel freddo vento che non riesce a colpirmi. Rido come faceva lui ogni volta che mi colpiva con violenza, con perfidia e con odio.
Rido. Non riesco a smettere.
La pioggia continua a scivolarmi addosso come se il cielo stesse piangendo. Come se stesse gridando. Come se mi stesse riverendo tremante. Come se anche lui avesse paura di me, come tutti quanti del resto e mi stesse riversando addosso tutto quell’agonia, mentre lo vedo prostrarsi ai piedi del suo nuovo padrone.
Devo festeggiare. Devo festeggiare quello che ho smesso di provare. Devo festeggiare quello che sono diventato e quello che ho smesso da tempo di essere.
Sono Niklaus Mikaelson, il crudele, spietato e malvagio vampiro senza cuore né coscienza.

Io ti odio. Sei solo un mostro.

Si, lo sono davvero. Lo sarò per sempre e ne sono soddisfatto. Perché nessuno, al mondo, avrebbe mai il coraggio di sfidare il diavolo. Nessuno al mondo tranne quella stolta ragazzina.
Avrebbe pagato. Giuro a me stesso che l’avrebbe fatto, ma non ora. Non adesso. Non questa notte. Ho altri piani in mente. Qualcosa di molto più appagante. Qualcosa di molto più indulgente che una sonora vendetta.
Ora devo festeggiare, ma devo farlo in un modo diverso. Con l’unico alcol che riesce a dissetarmi. Con l’unica droga che mi permette di vivere. Devo sentire la vita scorrermi dentro la gola. Devo sentire le urla sconquassarmi l’udito.
Sento odore di sangue nell’aria e di morte. Lo sento così forte. Mi riempie i polmoni. Mi travolge. Mi gremisce. Ne ho bisogno. Proprio adesso.
Perché io sono un mostro. Perché sono crudele. Perché sono solo un bastardo.
Ma non poteva sapere, mio padre, che da quel bastardo sarebbe nato poi un Dio.

 

* * * *


 
Hanno avuto quell’incidente per colpa tua.

Mi presi la testa tra le mani, mentre le parole pungenti di Klaus non smettevano d’ingannarmi la mente. Non smettevano di soppesarmi sofferenti sul cuore, ma la cosa peggiore era che sapevo che erano veritiere.

Loro sono morti per colpa tua.

Dolore. Non riuscivo a sentire altro che dolore. Un dolore così forte. Così potente. Così maledettamente vero che non potevo cancellarlo. Era inutile. Lui ritornava, ancora più reale di prima.
La testa mi faceva male. Mi faceva troppo male. Quasi al limite della sopportazione. Non riuscivo a farla smettere di girare. Non potevo.
Quella pioggia incessante non smetteva di colpirmi. Era così pesante, quasi come se fossero pietre. Quasi come se mi stesse punendo. Come se mi stesse castigando di tutto il male che avevo fatto.

Tu li hai uccisi.

Non mi accorsi nemmeno di quel rivolo di sangue che mi scese copioso dal naso. Di come quelle gocce tinsero di rosso la pioggia, mentre lei scorreva via. Mentre cancellava ricordi e annebbiava pensieri, ma non i miei. I miei erano lì, in fila, ordinati, riuscivo a vederli ad uno ad uno, come se li stessi in qualche modo rivivendo.

Credi davvero che amino?

Chiusi gli occhi. Non riuscivo a vedere. Tutta quella nebbia mi accecava la vista. Io non vedevo niente. Non ci riuscivo. Non riuscivo a camminare. Non potevo. Come se tutto quel fango mi facesse annegare in quel fetido terreno.

O nuoti o vai affondo.

Non riuscivo a nuotare. Non potevo farlo. Il fiotto di sangue era diventato più forte. Ora mi cadeva anche dalle orecchie e quel dolore era troppo reale. Non potevo sopportarlo.

Io e te in fondo siamo uguali.

Io ero un mostro. Era un mostro proprio come lo era lui. Io li avevo uccisi. Loro erano morti solo per colpa mia.

Ci vuole sempre una bestia per ferirne un’altra.

Fu allora che la vidi. Un attimo prima che perdessi le forze. Un attimo prima che chiudessi gli occhi forse per sempre.

Alla fine di tutto tu sarai soltanto esistita.

Quell’ombra dall’altro lato della strada si faceva più vicina, mentre tutto quel buio pareva inghiottirmi.
Lei era lì riuscivo a vederla. Riuscivo a sentirla. Tutta quella nebbia l’avvolgeva, ma lei c’era. Lei era reale e veniva verso di me.

Nuota, Alba.

Cercai di voltarmi per scappare via, ma ero troppo debole. Quella pioggia era troppo forte. Mi fermava. Mi bloccava.
Un capogiro mi gettò a terra, mentre tutto quel terreno fangoso mi macchiava i vestiti e mi sporcava il cuore.
Fu allora che la vidi. Riuscii a riconoscere il suo volto tra tutte quelle tenebre. Riuscii a sentire la sua voce avventarmi prima che il sonno mi prendesse tra le sue braccia.

“Ciao Alba”.

“Signora Miller?”

“Vedo che il tè ha avuto il suo effetto”.






Buongiorno a tutti :)


Allora che ne pensate del nuovo capitolo?

Vi è piaciuto Klaus umano?


Se c'è qualsiasi cosa che non vi convince non esitate a scrivermi, anzi mi renderete davvero felice. 

La frase di Klaus "Uccidi un uomo e sei un assassino. Uccidene milioni e sei un conquistatore. Uccidili tutti e sei un Dio" ovviamente non è mia, ma è una citazione di Jean Rostand. Mi è sembrata attinente alla storia e allora ho deciso d'inserirla.

Anche l'immagine in alto non è opera mia, ma della bravissima Elyforgotten. Dirti grazie non è abbastanza :)

Spero davvero che il capitolo sia stato di vostro gradimento e scusate tanto il ritardo con cui aggiorno. Il prossimo lo metterò tra due settimane, promesso ;)

Grazie di cuore a tutti voi per aver avuto la pazienza di leggere fin qui. Non sapete quanto significhi per me ed un grazie particolare a chi recensisce e a chi ha inserito la storia tra le preferite/seguite/ricordate. Davvero grazie infinite.


Un bacio a tutti. Alla prossima :) :)




  
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