Fanfic su artisti musicali > One Direction
Ricorda la storia  |       
Autore: Lou_    22/04/2013    13 recensioni
Le situazioni che ci troviamo ad affrontare, giorno dopo giorno, anno dopo anno, che siano belle, brutte, perenni, noiose, prima o poi un cambiamento ce l’hanno.
Può essere progressivo, lasciarti il tempo di ragionare e di vivere minuto per minuto quell’inaspettata occasione, o brusco, che ti stravolge nel profondo, lasciandoti sorpreso ad osservare la tua vita mutare e prendere forma, senza magari tu lo voglia.
Harry Styles la sua vita non l’aveva mai potuta definire sua, perché semplicemente non lo era.
Era malato, schiavo del suo male, costretto in un ospedale fino la fine dei suoi giorni.
Un'esistenza che andava sgretolandosi, a partire dalla sua famiglia.
Lo stesso giorno in cui se ne rese conto, si ritrovò ad affrontare un altro brusco cambiamento, senza valutarne conseguenze: Louis irruppe nella sua stanza trascinandolo con sé lontano, da tutto e da tutti.
Perchè lui lo voleva davvero, sapeva in fondo di meritarselo e Louis aveva un sorriso che ti scaldava il cuore. [...]
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


 







"Chapter 1"






H
arry Styles aveva sempre amato il mare, sebbene non avesse mai avuto la possibilità di andarci.
Nelle cartoline che aveva sempre ammirato, però, il mare gli era sembrato fantastico.
Un posto in cui andare con amici, correre sulla sabbia a piedi nudi ad inseguire un pallone, sentendo il piacevole calore del terreno solleticarti la pelle, buttarsi in acqua senza esitazioni per recuperare la tua sorellina minore che rischiava di annegare, nuotare in zone con acqua cristallina, tanto da vedere i fondali.
Harry aveva fantasticato fin troppe volte su luoghi che non aveva potuto visitare, dato che ne aveva molti su cui farlo, anche casa sua.
Aveva sempre vissuto in quell’edificio triste e monotono, con le pareti bianche cadaveriche, il frusciare delle ruote del lettini sul pavimento tirato a lucido, il fischiettare delle suole delle scarpe delle infermiere.
Harry era nato per morire, o almeno, non come tutti, ma in modo spietato e precoce, terribilmente precoce.
Alla gente che lo veniva a trovare, tre volte a settimana dove Harry poteva dire di avere una famiglia, non parlava mai delle sue sensazioni riguardo il suo malessere.
Lo aveva accettato, a malincuore ma lo aveva fatto, confidando in Dio, come le aveva sempre suggerito la madre.
E va bene, Harry non avrebbe mai assaporato l’aria primaverile che attraversava i capelli dolcemente, come una carezza materna, non avrebbe mai potuto guardare dritto verso il sole, vantandosi con i suoi amici di aver resistito per qualche secondo, non avrebbe mai corso a pieni polmoni lungo la collina vicina di London Tip, non avrebbe mai avuto una ragazza.
Ma lui era felice di quello che aveva.
Del resto, passare il poco tempo che aveva a commiserarsi e a lamentarsi del fatto che effettivamente non stava vivendo, non lo avrebbe aiutato.
I medici che lo venivano a visitare alla mattina presto, tirandolo giù dalle coperte con un sorriso cui avrebbe volentieri fatto volare via i denti con un pugno, lo lodavano sempre, dicendo che era forte e che il male che lo stava dilaniando dall’interno sarebbe diminuito.
Ormai erano anni che lo dicevano, via via aumentavano le cure, ma a Harry quelle parole confortanti facevano bene; non aveva altro cui aggrapparsi.
Una volta di anni fa, anche se se lo ricorda come fosse ieri, aveva incontrato dei ragazzi come lui.
Apparentemente sarebbero sembrati normali, solo più allegri di altri.
Ma Harry nel suo cuore sapeva che quello che avevano in testa non era un semplice cappello o una cuffia per freddo.
Sapeva di essere fortunato ad avere ancora tutti i suoi ricci in testa, sbiaditi, ma pur sempre in testa.
Ed era per questo che non perdeva mai il sorriso in viso, che guardava il mondo con occhi curiosi, che rideva anche per le cose più stupide, che cercava di rallegrare sua sorella e sua madre quando lo venivano a trovare trattenendo le lacrime: lui era fortunato, e non avrebbe mai potuto sprecare una fortuna così grande.
Harry però non era perfetto, invincibile.
Aveva anche lui dei omenti di debolezza, tristezza, che gli permetteva di vedere le cose dal lato negativo.
Perché lui e non quel bastardo che aveva intravisto in televisione uccidere mogli e figli?
Perché lui, così giovane?
Le teneva per sé quelle domande scomode, che gli lasciavano sempre l’amaro in bocca e una fitta al petto.
Un giorno, durante una visita di Gemma, sua sorella, Harry si era soffermato a guardarla, ad analizzare ogni suo particolare.
Era veramente bella per lui, la più bella ragazza che avesse mai visto, coi capelli lunghi e scuri, uno sguardo sicuro e spavaldo, un accenno di lentiggini sulle guance e un sorriso capace di illuminare la stanza, anche nelle giornate di temporale quando saltava la luce nella sua stanza.
Lei aveva ricambiato lo sguardo, curiosa, sedendosi sul lettino troppo duro e troppo scomodo accanto a lui, e glielo aveva chiesto.
‘’Tutto bene fratellino?” la sua voce aveva un tono dolce, che aveva riscaldato Harry fino la punta dei piedi.
Lui aveva perso lo sguardo nel vuoto, rimanendo in silenzio per un attimo, incerto.
“Com’è vivere davvero, Gemma?” lo aveva sussurrato, ma sua sorella lo aveva sentito, e bene.
Aveva sgranato gli occhi, mordendosi il labbro fino a farsi male come del resto Harry aveva imparato che faceva per evitare di scoppiare a piangere, e si era sentito uno stupido, in colpa quasi, affrettandosi ad abbracciare il busto morbido di sua sorella, ad occhi chiusi, cullandola.
“Va tutto bene” aveva cominciato lei, passandosi una mano in viso e tirando su col naso.
“E’ uno schifo comunque, o almeno per me, senza te che scorrazzi per casa” aveva poi concluso, non riuscendo a trattenere le lacrime.
Da allora Harry si era sempre trattenuto a fare domande del genere, l’ultima cosa che voleva era vedere piangere le persone che aveva più care al mondo.
Si era quindi limitato a fantasticare la notte, sulla vita al di là di quelle mura, sul mare, non riuscendo mai a dormire per i continui, troppi rumori di quell’edificio ormai fin troppo familiare.
E lo aveva accetta, dentro di sé, ci aveva fatto l’abitudine.
 
 
 
 

 
 
Louis Tomlinson si conteneva a fatica nel suo maglione primaverile di qualche taglia in più, troppo agitato, troppo sudato, troppo frenetico.
Quella sera non aveva chiuso occhio, pensando ai modi migliori per fare colpo sul suo futuro capo, o per avere un aspetto impeccabile per tutta la giornata.
E a pensarci bene, ora l’aspetto impeccabile non lo avrebbe avuto neanche per i primi cinque minuti del suo primo turno di lavoro all’HC Hospital.
Scrollò il capo per l’ennesima volta, imprecando contro sé stesso, contro quei jeans che non salivano, contro l’orario fin troppo avanti.
- ‘’Lottie! Dì alla mamma se mi può accompagnare, ho ancora la macchina dal meccanico!” gridò con una voce troppo acuta dietro la porta di camera sua, non smettendo di lottare coi suoi jeans che si erano ristretti nel giro di una sera.
La porta che aveva di fronte si spalancò con poca delicatezza, sbattendo contro il suo viso e facendolo ruzzolare a terra.
Louis, a pancia in su, chiuse gli occhi per un secondo, contando fino a dieci con più calma possibile.
- “Lottie è andata a scuola Lou…. Ma non dovresti essere pronto per andare a lavoro? Steso a terra non puoi fare molto…” osservò Felicite, col musino sporto all’interno della camera di Louis.
Il ragazzo sbuffò, aveva l’imbarazzo della scelta: arrabbiarsi per i pantaloni appena comprati ora strappati, il ritardo che avrebbe sicuramente fatto, o accanirsi contro la sorella?
Non era mai stato bravo a scegliere e, con molta equità, fece tutte le cose.
Contemporaneamente.
 
 
 

 
 
- “Boo, tesoro, andrà tutto bene” lo salutò Johannah, la madre, prima di stampargli un lungo bacio sui capelli, con rimproveri e proteste da parte del figlio.
- “Mamma, devo andare a lavoro, e non chiamarmi Boo, non ho più sei anni” rispose inacidito Louis, scrollandosi di dosso le carezze della madre e spalancando la porta dell’automobile, sbattendosela alle spalle con poca grazia.
Da dentro il mezzo sua madre rideva divertita; il moro sbuffò.
Per quella donna tutto era un continuo divertimento e gioia.
Si sistemò con una spallata lo zaino sulle spalle, e, dando una veloce occhiata al suo orologio da polso, sbiancò, quindi, imprecando ad alta voce ripetutamente, attirando su di sé risate contenute dei presenti, corse a perdifiato verso l’ospedale.
 
 



- “ Salve sto cerc…”
- “ Scusi il disturbo lei conosce….”
- “Per favore mi può….”
Louis Tomlinson sbuffò per l’ennesima volta quella mattina, sempre più disperato.
Era entrato in ospedale, perdendosi tra i vari piani e corridoi dell’edificio e, facendosi strada tra carrelli, pazienti in tuta, e infermieri che lo scrutavano dalla testa ai piedi, aveva raggiunto il primo piano, dove avrebbe dovuto ricevere il suo dirigente per il chiarimento sulle procedure da seguire durante i turni.
Ora però, cercando inutilmente di attirare l’attenzione di infermiere che sfrecciavano accanto a lui, non sapeva più come fare per trovare il suo capo.
Quasi gli veniva da piangere.
Si grattò la testa e, sconsolato, pensò che probabilmente il suo dirigente non si sarebbe presentato in zona, scoraggiato dal suo imperdonabile ritardo, e che presto sarebbe stato licenziato.
Si avviò a passo lento per i corridoi, non smettendo di fissare il foglietto con su nome e ora di appuntamento che aveva con un certo signor James alle ore 10,02.
Lo accartocciò e se lo infilò in tasca bruscamente, quindi appoggiò la schiena contro il muro in cartongesso che aveva alle spalle, socchiudendo gli occhi.
Aveva sempre desiderato quel lavoro, aveva studiato medicina per tutta la sua vita, e quando per pura fortuna era riuscito ad avere un colloquio di lavoro, all’ospedale centrale di Holmes Chapel per giunta, si era lasciato sfuggire l’occasione, come uno stupido.
- “Fottuto signor James” sputò acido, incrociando le braccia al petto e tenendo lo sguardo basso.
- ‘’Credo tu intenda il caporeparto Jhon, dico bene?” una voce roca, leggera, piacevole, alle sue spalle, lo fece voltare di scatto.
Accanto a lui, all’ingresso di una stanza per il ricovero dei pazienti, un ragazzo giovane, dai capelli ricci sbarazzini e un sorriso sincero lo stava fissando con una sfumatura di divertimento.
Era poggiato allo stipite della porta con un braccio, indossava una tuta comoda.
Non aveva indumenti da medico o assistente, doveva per forza essere un paziente.
Louis corrugò la fronte e, ragionando un attimo sulle parole dell’altro, sbuffò, sentendosi un idiota per aver segnato male anche il nome del suo caporeparto.
- ‘’Si, credo. Sai dove posso trovarlo?” chiese con una punta di speranza Louis, approfittando dell’occasione.
Il ragazzo annuì semplicemente, indicando con il capo la stanza che aveva di fronte.
Aveva una porta in legno chiaro, sopra le scritte, a caratteri eleganti ‘ufficio del caporeparto’ e lì, Louis Tomlinson, sentì di voler sprofondare nel terreno per la sua stupidità.
Scosse quindi la testa e, accennando uno dei suoi sorrisi migliori, arrossendo lievemente, ringraziò il ragazzo riccio, che non aveva smesso di osservarlo con tono di scherno.
- “Grazie, mi hai salvato” riuscì a pronunciare Louis, alzando lo sguardo dalla porta che aveva iniziato ad ammirare per poi scoprire che il ragazzo era scomparso.
Si strinse nelle spalle sperando che, ottenendo il lavoro, lo avrebbe rivisto. 


 
  
Leggi le 13 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > One Direction / Vai alla pagina dell'autore: Lou_