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Autore: Jooles    23/04/2013    1 recensioni
Ogni giorno Esme Nichols, da quando la madre è morta lasciandola in balia dei maltrattamenti dello zio, evade da quella sua camera soffocante per recarsi nel bosco che si estende infinito di fronte casa sua. Dopo dieci anni il tempo non sembra scalfire quella radura in mezzo alla foresta dove era solita recarsi con la madre, tranne forse per qualche erbaccia in più. Eppure sembra che una persona misteriosa e dalle dubbie intenzioni abbia iniziato ad abitare quel luogo…
[1^ classificata al contest "Cappuccetto Rosso" indetto da Gely_9_5 sul forum di EFP]
Genere: Drammatico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo 2
Snake

 

Esme si svegliò molto presto quella mattina, volendo far subito fronte agli impegni che lo zio le aveva imposto il giorno precedente per poter evadere quanto prima possibile e raggiungere l’oggetto dei sui pensieri della notte trascorsa. Lev aveva promesso che l’avrebbe aspettata non prima di mezzogiorno, per cui dalle sei e mezza aveva ben cinque ore e mezza per poter vangare il terreno e scavare profonde buche per i preziosi alberi da frutta dello zio, il quale li avrebbe sicuramente lasciati morire qualche settimana dopo perché troppo ubriaco, o troppo stanco, o troppo pigro, o semplicemente troppo menefreghista per curarsene.
Preparò una ricca colazione con uova, spinaci e due fette di pane ciascuno spalmate di burro. Mangiò la sua in una furia e lasciò invece quella dello zio in una padella con il coperchio, per evitare che si freddasse troppo velocemente.
Indossati gli abiti da lavoro sporchi di terra, Esme si recò nel retro della casa, afferrando una vanga, una paletta più piccola e un rastrello. Tornò sul fronte del giardino e, osservando preoccupata il cielo nuvoloso, piantò con fermezza l’attrezzo in terra, iniziando a innalzare zolle di terra.
Per le dieci e mezza aveva finito tutto il lavoro, sotto lo sguardo limitatamente compiaciuto dello zio, il quale l’aveva osservata per tutto il tempo, masticando dapprima lentamente la sua colazione, senza chiederle se avesse bisogno di aiuto. Non che a Esme importasse, anzi: la presenza dell’uomo l’avrebbe solamente innervosita, dato che si sarebbe lamentato per qualsiasi cosa solamente per il gusto di tormentarla.
Riposti tutti gli attrezzi e spolverato il porticato da residui di terriccio, Esme corse alla volta delle scale, entrando in bagno e spogliandosi più in fretta che poté. Si infilò sotto la doccia, non preoccupandosi minimamente se l’acqua scorresse calda o fredda.
Rientrata in camera sua cercò nell’armadio l’abito più carino che teneva: ne scelse uno bianco con dei motivi floreali molto piccoli e fitti di color rosa pallido, accorgendosi solo una volta indossato che presentava una scucitura sull’orlo di dietro. Lanciò maledizioni al vento, realizzando di non avere tempo per rammendarlo. Pensò però che indossata la mantellina grigia non si sarebbe notato. Più serena a quella prospettiva, si recò alla porta, girando la chiave; poi raggiunse la finestra, aprendola. Nel girarsi per iniziare a scendere le scalette, Esme posò lo sguardo sul cestino che sottostava ai piedi del letto: in quel giorno non le sarebbe servito, e forse non le sarebbe servito mai più.
Toccata terra con i piedi, si assicurò che lo zio non fosse nei paraggi e, inarcando la schiena e piegando le ginocchia per abbassarsi, corse velocemente fuori dal perimetro delimitato dalla staccionata. Una volta all’ombra dei primi alberi, si sentì salva.
 
Marciò a passo spedito per tutto il tragitto che ormai conosceva a memoria, arrivando nel posto prestabilito alle undici e quaranta. Questa volta non si nascose sotto i rami del grande albero al centro della radura, bensì si sedette sul masso poco più avanti, attenta a scegliere un angolo in cui il muschio fosse ancora abbastanza rado, per evitare di strusciarvi sopra e macchiarsi il vestito dell’occasione di verde. Continuò a mirare impazientemente l’orologio fino a mezzogiorno spaccato, non guardandosi intorno ma solo di fronte a sé per evitare di mostrarsi troppo impaziente nel caso in cui Lev fosse giunto in ritardo.
Qualche secondo più tardi una voce da dietro le spalle la fece sussultare proprio mentre stava alzando nuovamente il polso per controllare l’ora.
«Impossibile che io sia in ritardo» la calda voce di Lev la investì, compensando la mancanza del sole di quel giorno.
Esme guardò ancora l’orologio, facendo finta che fino ad allora non si fosse preoccupata di guardarlo.
«Ah, non vi avevo fatto caso. Diabolicamente puntuale» disse, sorridendo al giovane.
Esme notò che, contrariamente a lei, non si era preoccupato di cambiarsi gli abiti del giorno precedente. Eppure la sua aria non era malconcia o sporca. Era tremendamente perfetto.
Solo in quell’istante Esme notò un bizzarro particolare.
«Come fai a indossare quella giacca così pesante con questo caldo?» chiese, sinceramente curiosa.
Lev abbassò lo sguardo per osservarsi gli abiti e allargò leggermente le mani infilate nelle tasche del giubbotto, mostrando un qualcosa all’altezza del suo fianco che non sfuggì a Esme.
«Hai una macchia, mi sembra, lì…» e indicò il fianco destro del ragazzo. Fece per avvicinarsi e poterlo toccare, per mostrargli il punto in cui aveva visto il difetto.
Lev si tirò indietro, spaventato, impedendole di avvicinarsi ulteriormente. Si accorse però di come quel suo gesto avesse fatto preoccupare Esme, perciò sfoderò un sorriso imbarazzato.
«Ecco, vedi… sta mattina mi sono versato il caffè addosso facendo colazione» spiegò. Esme parve capire e si diede della stupida per aver creato un ulteriore divario tra loro. Evidentemente non amava essere sfiorato, poteva capirlo benissimo, d’altronde erano due perfetti sconosciuti.
Lev la guardò per poi spalancare gli occhi, tradendo una certa apprensione.
«Come mai oggi non hai il tuo cestino, Krasnaya Shapochka?» le domandò.
Esme rimase allibita da quella domanda improvvisa e fuori luogo.
«Oggi non mi serviva, così l’ho lasciato a casa.»
Lo sguardo di Lev si addolcì, avvicinandosi di pochi centimetri verso di lei. Poi si passò una mano tra i capelli, abbassando gli occhi in segno di imbarazzo, infine li strofinò in segno di chiara stanchezza.
«Devi perdonarmi per questo mio comportamento impaziente di oggi; sono solamente molto stanco e non vorrei averti offesa o ferita con questo mio tono sconveniente.»
Esme si maledisse nuovamente, cosa che di fronte a lui sembrava capitare spesso ultimamente, per averlo fatto spazientire. Gli disse che non doveva scusarsi di niente e che anzi, lo capiva benissimo.
Quel tono fece brillare negli occhi color della tempesta di Lev un moto di curiosità verso la giovane.
«Non ho potuto tralasciare di notare una vena melodrammatica nel tuo tono mentre dicevi di comprendermi benissimo: se hai qualche problema, puoi confidarti» disse suadente.
Lev la invitò a sedersi sul prato appena al di sotto dell’olmo; attese che Esme si sedesse, per poi scegliere un posto a qualche metro di distanza da lei: molto probabilmente Esme pensò che non volesse essere toccato accidentalmente. Il ragazzo, preso comodamente posto e lisciatosi la giacca, la invitò con un lieve cenno del capo a parlare.
«Non so se sia una cosa giusta, ma vedi, tu sei l’unico ragazzo della mia età, più o meno, che incontro da anni» disse Esme, tentando di scusarsi anticipatamente per lo sfogo tempestoso che avrebbe previsto da un momento all’altro.
Lev sembrarono non interessargli le scuse poiché quel suo sguardo dai colori così limpidi eppure profondi esortò la ragazza a continuare. Inoltre l’inarcamento delle sue sopracciglia in segno di concentrazione fece capire ad Esme che non l’avrebbe interrotta con commenti o supposizioni fin quando non avesse finito il suo racconto.
E si sentì libera di potersi sfogare per la prima volta.
«Mia madre morì dieci anni fa» iniziò, come un fiume in piena, evitando di guardare il ragazzo direttamente negli occhi, per timore che le parole le sarebbero venute a mancare da un momento all’altro.
«Un brutto incidente, mi aveva detto mio zio, suo fratello. Stava girando per i boschi e si perse. Questo è quello che mi raccontò. Pochi anni più tardi scoprii che scivolò per un percorso sdrucciolevole, batté la testa e il fiume che scorre all’interno del bosco se la portò via. In fin dei conti sì, si era persa, ma nessuno mi aveva detto che fosse morta.» Fece una breve interruzione, alzando gli occhi verso l’alto per evitare di iniziare a lacrimare.
«Mio padre non l’ho mai conosciuto. Mio zio mi disse una volta, mentre era ubriaco e in vena di confessioni, che mio padre si spaventò all’idea di una gravidanza di mia madre e, dato che erano tutti e due molto giovani, l’abbandonò. Non ho mai sofferto l’assenza di un padre, devo dire.»
«In ogni caso, ora mi ritrovo a vivere con mio zio. È un uomo molto…». Si bloccò. Lev non la guardava più negli occhi, questi ora erano rivolti, fintamente interessati, a due ciuffi d’erba sottostanti, che stuzzicava come se fossero la cosa più promettente che avesse visto fino a quel momento. Poi si stropicciò gli occhi con la mano che non era intenta a strapazzare quei filini verdi, provocando un sonoro tonfo nel cuore di Esme. Che avesse detto qualcosa che non andava?
Tentò di allungare una mano verso la spalla del giovane, per consolarlo di qualcosa che neppure sapeva cosa fosse. La risposta di Lev fu spiazzante: si allontanò di scatto e iroso, spaventato nello sguardo all’idea che qualcuno lo avrebbe sfiorato.
«Non ti avvicinare!» gridò in preda alla disperazione, le iridi che si muovevano come impazzite nelle orbite, la sclera[1] rovinata da piccole venature rossastre.
Lev percepì la preoccupazione di Esme, così si ridestò in men che non si dica, lisciandosi minuziosamente il giubbotto e stringendoselo attorno ai fianchi, coprendo i vestiti che si intravedevano al di sotto. Sfoderò un sorriso falsamente ingenuo, poi prese a parlare con voce mesta, così in contraddizione con l’urlo isterico di poco prima.
«Anche io venivo maltrattato, diciamo, dalla mia famiglia. È per questo che sono scappato e ora vivo da solo. E mi sento davvero troppo solo, Esme. Per questo ti ho domandato di incontrarmi nuovamente qui.»
Esme rimase colpita di fronte quella confessione e il fatto che lui si fosse accorto, nonostante non glielo avesse ancora detto, che veniva maltrattata dallo zio, passò in secondo piano. Il giovane così indipendente che aveva conosciuto poco più di ventiquattro ore prima era stato sostituito da un suo clone, vulnerabile e solo. Proprio come lei. Prima che però potesse scusarsi per essersi avvicinata a lui, per poter mostrare la sua comprensione Lev le allungò una mano. Esme capì che non doveva afferrarla, semplicemente intendere quel gesto in qualche modo. Le parole del giovane che seguirono cancellarono ogni dubbio circa quel cenno.
«Ti chiedo di seguirmi, di venire a farmi compagnia nel mio mondo.» Il suo volto si avvicinò a quello della giovane ragazza, fermandosi a pochi centimetri dal suo naso. Nonostante la vicinanza Esme non riusciva a percepire il suo respiro, ma si concentrò sullo sguardo ipnotico che le veniva rivolto.
E capì, allora, che lo avrebbe seguito in capo al mondo; nonostante le sue piccole stranezze e i suoi comportamenti ambigui, quel ragazzo meritava comprensione, così come Esme sentiva di meritarsi quella del giovane.
Finalmente la ragazza sentiva per la prima volta in vita sua che una piccola grande svolta era già nata dall’incontro, il giorno precedente, con Lev. L’aver conosciuto accidentalmente –o per qualche scherzo ben accetto di un destino birichino?- il ragazzo, aveva segnato un enorme cambiamento. Se due giorni prima Esme aveva creduto che la sua vita sarebbe dovuta finire, e anche in fretta, per evitare di continuare a far fronte a soprusi e violenze immeritate, ora invece intravedeva in lontananza un tunnel di speranza che si avvicinava a gran velocità.
E lei lo avrebbe imboccato, quel tunnel.
Il suo pensiero venne scosso brutalmente da un’esclamazione burbera del giovane, il quale si alzò in una furia lisciandosi e abbottonandosi la giacca, tenendo il gomito alzato e piegato in modo che potesse vedere l’orologio legato al polso sinistro.
«È tardissimo!» annunciò più a se stesso che alla persona che aveva di fronte. A grandi passi iniziò ad allontanarsi verso la foltezza degli alberi, senza rivolgere alcuna parola di spiegazione alla ragazza.
Esme fece per alzarsi di corsa, intenzionata a seguirlo. Seduta per terra non riuscì a vedere di quanto si fosse allontanato il ragazzo, a causa del rigoglioso fogliame che le oscurava a tratti la visuale. Improvvisamente però percepì la voce suadente di Lev così vicina, come se le stesse sussurrando all’orecchio.
«Domani, a mezzogiorno. Porta il tuo cestino.»
Esme, sconvolta e spaventata dall’udire una voce così chiara quando sapeva benissimo che Lev ormai si trovava a molti passi di distanza da lei, si alzò più in fretta che poté, intenzionata a urlargli dietro di attenderla e di non andarsene così in fretta.
Quando scostò i rami per uscire allo scoperto, di Lev non rimaneva nemmeno l’ombra.
 
Esme iniziò a correre a perdifiato per il sentiero. Era l’una in punto quando Lev era scomparso all’interno della foresta, così improvvisamente tanto quanto era comparso, precisamente un’ora prima. Era decisa a trovarlo, sicuramente stava camminando sullo stesso percorso che avrebbe condotto lei a casa. Eppure, solcando con i suoi passi l’intero tracciato, di Lev non scorse nemmeno una minima traccia.
Pensò dunque che avesse imboccato qualche altro sentiero a lei sconosciuto. D’altronde, se aveva la capacità di presentarsi all’improvviso al suo capezzale per poi sparire in altrettanto modo, doveva conoscere bene quel luogo e sicuramente usufruiva di tutti i suoi segreti.
Così, un po’ perché le era iniziato a mancare il fiato, un po’ anche perché ormai si disse che non lo avrebbe trovato, Esme iniziò a rallentare il passo.
 
Se l’era presa comoda nel percorrere il tragitto di ritorno verso la sua casa, tanto che quando vide gli alberi diradarsi e a pochi metri di distanza finalmente, o forse no, la casa, erano già le due e mezza.
Tentò di evitare il benché minimo rumore, non riuscendo a intravedere lo zio da nessuna delle finestre. Quindi pensò che avrebbe dovuto sbrigarsi, per evitare di vederselo spuntare inaspettatamente dietro l’angolo. E sapeva già in principio che si sarebbe rivelato un incontro per lei fatale.
Superò alla velocità di un razzo il giardino, per quanto la posizione piegata sulle gambe per tentare di non farsi vedere le potesse permettere. Raggiunse la parete di legno della casa e vi si spiaccicò di schiena, attendendo che il respiro le tornasse regolare. Poi si affacciò all’angolo per scoprire se lo zio si trovasse da quella parte della casa e, vedendo che di lui non vi era traccia, corse in quella direzione. Si parò dinanzi alla scaletta che saliva fino alla finestra della sua camera ed era già al quarto gradino, quando una presa ferrata alla caviglia le impedì di andare oltre. Il sangue le salì al cervello talmente velocemente che le fece scoppiare un atroce mal di testa; iniziò a divincolarsi dalla presa in maniera forsennata, quasi ne dipendesse la sua vita. Si voltò verso l’assalitore e si spaventò vedendo negli occhi dello zio uno sguardo omicida.
«Lasciami!» gridò Esme, sapendo comunque che stava sprecando fiato.
«Scendi, razza di ingrata! Ti ammazzo, hai capito? Ti faccio a pezzi, bastardina!» lo zio saldò ancora di più la presa sull’esile caviglia della nipote, allungando l’altra mano che fino ad allora era rimasta libera e attorcigliandola intorno all’altra per fare più forza.
La violenza della sua cattiveria riuscì a strattonare Esme che cadde sul terreno ai piedi dell’uomo, inutili i tentativi di resistenza. Un po’ stordita dall’urto con il suolo, un po’ per la paura, le sue gambe non accennarono a reagire: giaceva a terra con sguardo disperato, conscia della sua sorte.
L’uomo, principalmente perché non si aspettava una simile resa, rimase per circa dieci secondi a fissare quella maledetta ingrata ai suoi piedi. Poi, come ridestato da un lampo scagliato dall’alto, comprese che doveva fare qualcosa. La prima mossa che gli venne in mente fu di tirarle un calcio allo stomaco.
«Verme! Che ti credi, che io ti cresco e tu non fai un cazzo dalla mattina alla sera? Dove sei stata, eh? Tu mi devi che cucinare il pranzo e la cena, io che muoio di fame mentre tu te la spassi in giro! Dimmi dove sei stata, lurida cagna!» e quelle parole costituirono come un impulso a scagliare anche fisicamente la sua rabbia su quel corpo riverso a terra. Si inginocchiò rendendogli più facile l’atto di battere pugni e schiaffi sul corpo minuto della nipote, incurante del fatto che ormai il labbro della giovane fosse spaccato in due o tre punti per le botte subite.
Ciò che lo costrinse a fermarsi fu il fatto che Esme sembrava stare per perdere i sensi da un momento all’altro.
«Fila in camera» disse in un sussurro,  guardandosi le mani macchiate di piccole chiazze di sangue. Se le strofinò sul grembo dei pantaloni come a pulirsi da quel peccato e si allontanò, sputando a terra.
Rimasta quasi senza fiato e stordita irrimediabilmente, Esme si lasciò cullare per una buona decina di minuti dal venticello che si era appena innalzato. In seguito, tenendosi la testa tra le mani per paura che potesse esplodere da un momento all’altro, tese le gambe per alzarsi, arrancando faticosamente per i pioli della scaletta.
Aperta la finestra e lasciandosi cadere a peso morto dentro la stanza, assaggiò con il corpo il pavimento come se fosse un morbido materasso di piume d’oca. Il suo sguardo vagò per la stanza che in quegli ultimi anni aveva odiato con tutta se stessa, per poi fermarsi alla vista di un cestino di paglia intrecciata, giacente ai piedi del letto.
Lev aveva visto giusto: domani sarebbe stato il giorno perfetto per inoltrarsi nella foresta con quel cestino.
 
 

[1] Parte bianca dell’occhio.

















Note

Eccomi con un aggiornamento alquanto veloce/velocetto (?) visto che le visite non scorrevano. Spero che questa volta qualcuno noti la storia e che mi faccia sapere cosa ne pensa; il giudizio della giudicia è stato molto importante e ben articolato, ma vorrei sentire altre bocche (o mani, in questo caso, che lasciano una recensione): secondo voi ci sono errori, ci sono pezzi che non vi convincono ecc... (non mordo, tranquilli ^^).

Il titolo del capitolo "Snake" ha un collegamento all'inganno, e ora vi spiego il perché (ricordate che il succo principale della storia è l'"inganno", ma non posso dirvi il perché altrimenti vi rovinerebbe tutto, no?): si rifà al mito cristiano di Adamo ed Eva, secondo cui il serpente ingannò la donna facendole mangiare la mela. E da lì sappiamo tutti cosa è accaduto dopo.

Bene, mancano solo altri due capitoli alla fine, non disperate u.u.
Baci,

Jooles

 
  
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