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Autore: Jooles    16/04/2013    1 recensioni
Ogni giorno Esme Nichols, da quando la madre è morta lasciandola in balia dei maltrattamenti dello zio, evade da quella sua camera soffocante per recarsi nel bosco che si estende infinito di fronte casa sua. Dopo dieci anni il tempo non sembra scalfire quella radura in mezzo alla foresta dove era solita recarsi con la madre, tranne forse per qualche erbaccia in più. Eppure sembra che una persona misteriosa e dalle dubbie intenzioni abbia iniziato ad abitare quel luogo…
[1^ classificata al contest "Cappuccetto Rosso" indetto da Gely_9_5 sul forum di EFP]
Genere: Drammatico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo 1
Stramonium

 

 

Esme Nichols chiuse con prepotenza la porta dietro di  sé, come se sbatterla in quella maniera brutale potesse creare un maggior divario tra lei e la cosa da cui voleva prendere immediatamente le distanze. Tre bruschi colpi alla porta la fecero sobbalzare, dimentica per un secondo che fosse proprio quella lastra di legno a proteggerla.
«Apri immediatamente!» Ma Esme non avrebbe aperto e la porta, sua complice, non avrebbe ceduto ai colpi. Vi rimase appoggiata fin quando il respiro per aver corso su per le scale non si fece di nuovo abbastanza regolare, e la persona da cui si era voluta nascondere non abbandonò il suo intento di sfondare la soglia, scendendo le scale mugugnando imprechi sottovoce.
Strascicò i passi fino alla finestra di fronte a lei, constatando come potesse essere strana l’opposizione tra il mondo di cui faceva parte, quello delimitato dalle mura della casa, e quello che invece era dipinto all’interno della cornice della vetrata. La stanza si affacciava sul giardino, dove ormai l’ortica e la carota selvatica si erano aggrovigliate alle radici di ogni alberello da frutto che tentasse di crescere. I pali della recinzione erano ormai pressoché invisibili al di sotto della folta edera che vi era cresciuta a spirale. Una pesante vanga giaceva abbandonata vicino una buca scavata quella stessa mattina, forse per dare l’inutile speranza a un altro giovane arbusto di poter crescere in quel fazzoletto di terreno tutto fuorché fertile.
Ma Esme non si curava mai di dar troppa importanza a ciò che la recinzione delimitava, bensì, alzando lo sguardo, lo poneva sull’infinito che le si stendeva dinanzi. Il verde scuro e pieno di vita del bosco percorreva chilometri e chilometri, sembrava continuasse persino al di là della linea dell’orizzonte. Ogni tanto, aguzzando la vista, scorgeva qualche puntino nero che si sollevava dalle chiome delle querce, dei castagni o dei faggi, spiccando il volo per atterrare su qualche altra fronda.
Esme constatò che quella fosse la più bella giornata primaverile dall’inizio della stagione, una giornata a dir poco perfetta. Si decise che se avesse dovuto trovare un giorno alla fine, probabilmente avrebbe optato per quello stesso. Nascondendo quel pensiero in un sicuro antro della mente, afferrò un cestino di paglia malconcio abbandonato dal giorno prima ai piedi del suo letto di paglia; lo aprì, assicurandosi che il contenuto giacesse ancora sul suo fondo e, aperta la finestra, si calò giù per una scaletta che rimaneva sempre appoggiata lì. Sicura che lo zio si fosse addormentato sulla poltrona (ne poteva udire il russare in lontananza), discese con calma attenta a non cadere, reggendo saldamente in una mano la cesta e con l’altra più duramente i pioli della scaletta. Con un saltino chiuse la distanza da terra e, lisciatasi la gonnella, prese a correre fin quando non varcò la soglia del fitto bosco.
 
Non le fu per nulla difficile trovare il sentiero che ormai seguiva tutte le volte che fuggiva di casa. Ricordava fin troppo bene inoltre come fosse solita percorrere, molto tempo addietro, quando ancora era in vita, insieme alla madre quella direzione. La foltezza del bosco che si dilagava per ettari e più, proprio nel suo mezzo veniva spezzata da una radura, al centro della quale si stagliava fiero e imponente un antico olmo.
Esme rimembrò come nelle assolate giornate d’estate sua madre fosse solita condurla lì, per ripararsi dalla calura cocente all’ombra del vecchio albero. Ogni volta le raccontava una fiaba differente.
                                                                                            
«Oggi leggeremo Cappuccetto Rosso, che ne dici bimba mia?» le sorrise.
La piccola Esme annuì fortemente; qualunque racconto le sarebbe andato bene. La cosa che le premeva era di udire la voce cullante della madre che leggeva, una mano reggendo il libro in questione, l’altra occupata a pettinarle i capelli con le dita sottili ed eleganti.
Era una donna bellissima e nel mondo di principi e principesse che a sette anni le bambine come Esme si creavano, si era promessa che da grande sarebbe diventata una regina proprio come sua madre; i grandi occhi scuri da cerbiatta e il piccolo visino, contornato da una folta chioma di capelli biondi e ondulati; le gote sempre arrossate dalla gioia quando il suo sguardo si posava sulla sua piccola creatura, il sorriso bianco contornato da labbra naturalmente già rosse.
«Cosa ci insegna questo racconto, Esme?» le chiese la giovane madre, dopo aver finito di leggere.
Esme ci pensò su, non volendo deluderla.
«Che non bisogna andare da soli nel bosco?» azzardò, sentendosi improvvisamente allarmata per il fatto che loro fossero sole in quel momento all’interno di un infinita distesa di alberi.
La madre le sorrise, intenerita.
«Che non bisogna fidarsi del lupo cattivo.» Esme l’osservò, credendo che fosse davvero molto saggia.
 
Capuccetto Rosso era stata l’ultima favola che la madre le avesse raccontato.
Ora si trovava lì, in quella stessa radura, di fronte a sé il grande olmo. In dieci anni nulla era veramente cambiato, a parte forse qualche cespuglio che non ricordava di aver notato l’ultima volta; inoltre, un modesto masso poco più distante ora era ricoperto da uno spesso velo di muschio. Esme si nascose sotto le fronde che ormai toccavano terra, poggiò il suo cestino e si distese. Osservò per quello che le parve un tempo infinito gli spazi vuoti tra i rami e le foglie; il leggero venticello primaverile le smuoveva, creando bizzarri giochetti di luce che a tratti le accecavano i scuri occhi.
Dopo aver chiuso gli occhi, Esme non ricordò cosa fosse accaduto; di certo si trovava nella medesima posizione che per ultimo le sovveniva, distesa poggiando la schiena sulla soffice erba, le mani dietro la nuca e le gambe accavallate. Scoprì di aver sonnecchiato per un bel po’, dato che ricordava perfettamente di essere uscita alquanto presto di casa quella mattina, forse intorno alle sette, e sapeva benissimo che in quel momento doveva essere intorno a mezzogiorno, dato che il sole non produceva alcuna ombra stagliandosi sugli oggetti che la circondavano, il che voleva dire che si trovava perpendicolare al suolo terrestre.
Tutto merito dei libri che lo zio le aveva proibito di leggere, ma che lei aveva fatto lo stesso.
Si sollevò dal tepore in cui si era cullata fino a quel momento, uscendo allo scoperto dal nascondiglio fatto di rami e fogliame, prendendo il cestino con sé.
Allontanatasi con qualche passo dall’enorme fusto, Esme prese ad ammirare apprensiva la cesta che teneva tra le dita, lasciandolo cadere violentemente al suolo e nascondendosi il volto rattristito tra le mani, prendendo a singhiozzare violentemente.
«Non saranno affari miei, ma mi duole vedere una giovane che piange.»
Esme si era assicurata prima di inoltrarsi nel bosco che nessuno la seguisse. Inoltre, non appena si era risvegliata dal pisolino schiacciato sotto l’olmo, aveva fatto attenzione a cosa si trovava intorno a lei, se qualcuno l’avesse raggiunta, se lo zio fosse venuta a cercarla. Alquanto improbabile, non si sarebbe scomodato per trovarla, sapendo fin troppo bene che se non voleva morire di fame, sete o freddo, sarebbe presto o tardi dovuta rientrare a casa. Non che avesse intenzione di tornare quel giorno.
Eppure, nonostante tante accortezze, qualcuno era riuscita a scovarla. Ma la voce appena udita non riusciva ad essere accostata a nessuna delle persone da lei conosciute. Preoccupata e spaventata, si voltò lentamente per evitare malintesi.
Come aveva potuto già comprendere dalla voce, la figura che le si stagliava davanti non era riconducibile a nessuna delle persone che aveva neanche mai incontrato di sfuggita.
La voce profonda e matura che aveva udito poco prima non sarebbe mai potuta essere accostata alla persona che la possedeva: un giovane ragazzo dai capelli castani corti, con una frangia ribelle leggermente più lunga e ondulata; una pelle molto chiara e a vedersi delicata, era resa viva nel volto dal leggero tocco rosato delle guance; labbra carnose, come coralli. I lineamenti del volto erano duri, eppure tutte quelle caratteristiche gli conferivano un’aria regale, aristocratica, a incominciare dal portamento: stava ritto come una statua nel suo fisico perfetto, almeno così si poteva dire anche da sotto i vestiti che indossava, le mani trattenute tra loro dietro la schiena, il viso alto e fiero che scrutava Esme curioso.
Già, scrutava: Esme non poté rimanere indifferente di fronte a quello sguardo. I suoi grandi occhi, contornati da lunghe ciglia, erano del grigio più puro che la ragazza avesse mai visto: un grigio scuro, immenso, sia nella perdizione che provocava nella mente di Esme, sia nei sentimenti che sembrava emanare.
Catturata da quella creatura, Esme si avvicinò, asciugando al contempo i residui delle lacrime che avevano smesso di sgorgare dalla vista del ragazzo.
«Chi sei?» gli chiese timidamente.
Il giovane parve contemplare per un po’ la domanda, come se la trovasse difficile.
«Ho capito ora quale fosse la notizia che ti premeva ottenere: tu mi volevi domandare forse ‘come ti chiami?’, allora avrei soddisfatto la tua curiosità. Domandandomi invece ‘chi sei?’, la mia risposta sarebbe ‘sono io’. Ma questo non risponderebbe affatto alla tua curiosità, dico male?» le sorrise affabile.
Esme si ritrovò confusa e spiazzata dal suo acume e, non volendo apparire nuovamente idiota di fronte al giovane, esaudì la sua richiesta, chiedendo –
«Come ti chiami?»
Questa volta il ragazzo sorrise, mostrando dei denti come perle.
«Mi chiamo Lev.»
Esme comprese che dovesse trattarsi di un giovane molto pragmatico: non avrebbe detto altro se non gli fosse stato domandato. Così Esme pensò ad una raffica di domande da porgli, le quali si accatastarono nella mente una sopra l’altra, riuscendo solamente a far fuoriuscire dalla bocca –
«Quanti anni hai?»
Lev sembrò per un attimo rabbuiarsi a quella richiesta ed Esme si maledisse mentalmente per aver provocato sentimenti negativi nel cuore del giovane.
Dopo aver pensato accuratamente alla risposta da dare, Lev le confessò di avere diciannove anni.
Esme stava per domandargli come mai si trovasse in quel luogo, quando finalmente un barlume di curiosità attraversò gli occhi del ragazzo.
«Vorrei sapere lo stesso sul tuo conto» le domandò.
«Mi chiamo Esme, ho diciassette anni» rispose. Detto ciò rimase in silenzio, conscia che qualunque cosa avesse detto non avrebbe destato l’interesse del giovane, il quale sembrava rispondere solamente a domande a lui poste. Tutto il contrario di una persona loquace.
Improvvisamente però la stupì, domandando con sincera curiosità cosa vi fosse all’interno del cestino che Esme aveva lasciato cadere poco prima.
«Niente, non c'è niente» rispose prontamente, una vena di nervosismo che Lev non mancò di captare.
Esme raccolse la cesta e la ricoprì per bene con il panno che era sbalzato alla caduta, nascondendo un bagliore dorato che in un attimo aveva investito il volto del giovane. Probabilmente il riflesso del sole a qualcosa che si trovava lì dentro. Si accorse di come Lev non avesse creduto al “niente”, ma sembrò non dargli alla fine molto peso.
Esme prese allora coraggio e gli porse la fatidica domanda.
«Per quale motivo ti trovi in questo bosco?» chiese, scegliendo accuratamente le parole per far sì che il giovane potesse rispondere adeguatamente.
«Mi trovo qui perché è l’ultimo posto in cui sono stato» rispose, con una semplicità talmente snervante che Esme non capì se la stesse prendendo in giro o se veramente intendeva ciò che aveva appena detto.
«E tu? Volevi sentirti un po’ Krasnaya Shapochka [1], entrando nel bosco con in mano un cestino? Hai raccolto dei fiori?»
Esme non capì cosa avesse voluto dire.
«Temo di non aver capito» affermò, sperando che le desse qualche delucidazione.
«Ah, perdonami. Ti ho chiamata Cappuccetto Rosso, in fondo ti manca solo una mantellina rossa per somigliarle» disse, indicando con un cenno del capo la mantella grigia che Esme indossava.
Interdetta, Esme si pose subito un ulteriore domanda.
«In che lingua hai parlato?»
«In russo. Perdonami ancora, proprio non riesco a evitare qualche fuoriuscita nella mia lingua madre alcune volte» sembrò scusarsi sinceramente.
Esme prese ad osservarlo ancora più attentamente. Di certo, se da subito non aveva potuto ricollegare quegli eterei lineamenti alla comune gente Irlandese, si era però dovuta ricredere quando pensava di essersi trovata di fronte un ragazzo che venisse da qualche altro mondo. Eppure non aveva mai fatto la conoscenza di una persona così bella.
Nonostante Esme fosse stata forzatamente cresciuta contro il volere dello zio, che ne aveva ereditato le veci, il più lontana possibile dai fervori della città e dunque da tutto ciò che avrebbe potuto renderla colta e che le avrebbe potuto dare un’educazione, poteva capire benissimo quanto il concetto di bellezza di fronte a quel ragazzo raggiungesse il suo apice. Era lei dunque una colta, se trovava il significato puro di bellezza in quel giovane? [2]
Dovette ridestarsi da quei pensieri quando si accorse che Lev improvvisamente stava avvicinandosi sempre più a lei, guardando famelico il cestino che teneva in mano. Esme lo nascose dietro la schiena, intimandolo di non avvicinarsi.
«O cosa? Griderai? Come se qui potesse sentirti qualcuno» la schernì.
Esme iniziò a trovare irritante il fatto di sentirsi perennemente stupida di fronte a lui sin dal primo momento in cui le aveva parlato.
«Abiti qui in zona?» gli chiese.
Lev piegò lievemente la testa di lato, come ad osservarla meglio per non perdersi alcun particolare del suo volto.
«In realtà abitavo in città, d’estate venivo nella mia villa tra i boschi insieme alla mia famiglia. Ora non ho idea se loro ci vengano ancora.»
«Non vivi più con i tuoi?» domandò incuriosita.
«No.» Nel dirlo il suo sguardo si incupì ed Esme provò un forte dispiacere per aver prodotto scompiglio dentro di lui.
Se fino a quel momento Esme aveva creduto di essere sola, abbandonata da qualunque persona della sua età nel raggio dei chilometri che la foresta copriva, ora si era acceso in lei un barlume di speranza. Quel giovane così affascinante di certo non aveva lasciato in lei solamente un’influenza a sfondo romantico. Le dava l’idea di un ribelle, uno che a diciannove anni vagava da solo per la foresta dicendo di non abitare più con la famiglia. Qualcosa si stava svegliando in lei, quel briciolo di avventura che sembrava le fosse stato rimosso, ma che invece attendeva solamente di essere scosso.
Pensò che se il giorno seguente fosse voluta uscire in tranquillità per rincontrare Lev senza destare le ire funeste dello zio, sarebbe dovuta rientrare immediatamente per preparargli il pranzo. Così, tristemente, informò il giovane che sarebbe dovuta andare, con la promessa che sarebbe tornata l’indomani.
«Ti aspetterò qui, alla stessa ora. Prima non potrò apparire» la informò, ed Esme pensò che parlasse in maniera perlomeno un tantino buffa secondo i costumi della sua epoca.
Esme lo salutò con un cenno della mano, intraprendendo il sentiero che la inoltrava nel fitto verde del bosco. Al limitare dei confini della radura, quando ormai si trovava sotto l’ombra dei primi alberi, si voltò per salutare un’ultima volta il ragazzo.
Ma di lui già non vi era più traccia.
 
Fece attenzione a non farsi vedere dallo zio. Si nascose dietro la palizzata che delimitava il giardino, l’edera ormai talmente fitta che sarebbe stato impossibile scorgerla. Dalla sua posizione poté constatare che lo zio era intento a tracannare una bottiglia di vino di fronte alla finestra della cucina. Attese il momento in cui si sarebbe voltato, per correre al lato ovest della casetta di legno e arrampicarsi su per la scaletta. La finestra poteva facilmente essere aperta anche da fuori, così Esme le diede una lieve spinta e quella si spalancò. Una volta dentro si spogliò della mantella e riposizionò il cesto sotto il letto, ai suoi piedi. Si guardò allo specchio per poter individuare alcuna traccia che avrebbe tradito il fatto che fosse uscita di casa di nascosto. Un rametto secco si era impigliato tra i capelli. Ma a parte quello, era la solita di sempre.
Girò la chiave e aprì la porta, scendendo le scale. Si diresse in cucina, dove trovò lo zio.
«Dove cazzo sei stata? Ho bussato all’infinito sulla porta, che stavi combinando là dentro, eh?» le domandò, lo sguardo che iniziava a perdersi per le scie dell’alcol.
«Ho dormito, zio» rispose Esme, abbassando gli occhi al pavimento e dirigendosi verso i fornelli.
«Scansafatiche dei miei stivali! E mia sorella dovrebbe essermi grato se gli ho tirato su ‘a figlia! Ingrata che non sei altro, che ti do pure un tetto sopra quella testa di coccio! Eh ma, ce lo avevo detto io di non fare figli e lei, va lì, si innamora di un belloccio e poi lui scappa, il vigliacco, quella stronza muore e a me la marmocchia.»[3]
Poi afferrò la ragazza per un braccio, scrollandola violentemente.
«E sbrigati a cucinare ‘sto pranzo merdoso, che c’ho fame!» Poi tornò a sedersi al tavolo, fissando la ragazza che iniziò a tirare fuori gli avanzi della sera prima. Li scaldò e li versò in un piatto, curandosi di riempire per bene quello dello zio, un po’ meno invece il suo.
Mangiarono in silenzio, come di consueto; dopo aver lavato i piatti e messo in ordine la cucina, Esme venne cacciata con un doloroso calcio al coccige nella sua stanza.
«E domani mattina ti voglio sveglia presto, che mi devi fare le buche per le piante nel giardino! Io che c’ho la schiena a pezzi devo lavorare mentre quella fetente dorme! Te potessi ammazzare, vedi te!»
Indifferente a quella minaccia che si andava solamente sommando alla lunga lista ricevuta in quegli ultimi dieci anni, Esme intraprese la volta delle scale.
Per tutto il giorno rimase in camera sua, guardando fuori dalla finestra il fitto bosco, cercando di immaginare dove si trovasse Lev.
Giunta presto la sera e coricatasi a letto, ripensò per tutta la notte al giovane incontrato, senza avere la forza di addormentarsi.















 
Note 

[1] “Cappuccetto Rosso” in russo.
[2] Concetto ripreso dalla prefazione de “Il ritratto di Dorian Gray”, di Oscar Wilde, precisamente: “Coloro che trovano bei significati nelle cose belle sono colti. Per essi c’è speranza.”
[3] La parlata dello zio è volutamente un po’ sgrammaticata e con alcune calate provinciali, per evidenziare la sua ignoranza.

Trovo un po' difficile spiegare gli elementi di questa storia senza fare qualche mega spoiler. Ci provo.
Per prima cosa è bene sapere che i titoli dei capitoli non saranno messi lì a caso: hanno tutti a che fare con il tema dell'inganno e, capitolo per capitolo, vi spiegherò il perché. Lo "stramonium" o anche pianta del Diavolo, è una pianta dai fiori bellissimi, ma velenosa (ma ora non vi è dato sapere il motivo di questa scelta, muuahahahaha! u.u)

Qesta storia ha partecipato al contest "Cappuccetto Rosso" di Gely_9_5, ottenendo il primo posto *-*; il risultato è fresco fresco, perciò sono ancora emozionata! Soprattutto perché è stata la prima volta che ho scritto qualcosa di diverso dal fandom di Naruto.
Spero dunque che sia di vostro gradimento e di poter sentire l'opinione di qualcuno. :)

A presto con i prossimi capitoli,

Jooles
  
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