Capitolo
11
Incomprensioni
Con
una mossa tesa ed impacciata, Ambrosie cercò di nascondere dietro la schiena lo
stiletto che, terrorizzata, aveva preso con sé come ultima precauzione,
prima di varcare l’ingresso della stanza di suo
fratello.
Sospirò,
contrita: non voleva che Fernand si rendesse conto di quanto, ancora una volta,
quelle arcane sensazioni senza alcun realistico riscontro l’avessero gettata nel
panico.
Arricciò
ansiosamente le labbra delicate: probabilmente era stata tutta una delirante
allucinazione derivante dalla tensione degli ultimi avvenimenti, ma, d’altro
canto, Ambrosie era quasi convinta che l’atmosfera sinistra che le si era
improvvisamente addensata intorno, chiudendosi su di lei in una morsa
angosciosa, fosse stata qualcosa di più che un’astrusa suggestione. C’era
qualcosa, ma non riusciva a stabilire se si trattasse di una minaccia
concreta o, ancora una volta, di una sua proiezione
mentale.
Persino
Fernand, la notte precedente, era stato colto sulla via del ritorno dalle sue
medesime sensazioni, tanto da lasciarsi trarre in inganno dal semplice movimento
furtivo di un gatto. Sospirò: ricordava com’era scattato fulmineo sulla
difensiva, gli occhi blu sgranati per la paura che spiccavano come buchi neri
sul volto esangue e contratto.
Suo
fratello era strano: non poteva negarlo. Le aveva assicurato, senza giri di
parole, di star bene; ma, dopo il sollievo iniziale, la ragazza, non pienamente
convinta, aveva cominciato a nutrire dei dubbi.
Fernand
era pallido, e Ambrosie, intrecciando casualmente le dita alle sue e facendo sì
che lui ricambiasse la stretta, aveva tastato con le sue stesse mani quanto
fosse debole.
-
Saresti così gentile, sorella cara – proruppe sommessamente il ragazzo – da
mettere via il gingillo affilato che nascondi dietro di
te?
La
ragazza trasalì. Sfuggito alla sua presa febbrile, il pugnale ricadde sul
pavimento.
-
Risparmiati l’ironia – gli intimò, piccata, mettendo via l’arma, quasi la sola
vista le procurasse fastidio e imbarazzo – Ero terrorizzata: va meglio
così? E sono quasi certa di aver sentito chiaramente una porta aprirsi e
richiudersi di scatto. Ti saresti raggelato, se, per un’intera notte, non avessi
fatto altro che nutrire sempre più fortemente il sospetto che qualcosa ti stia dando la
caccia.
* *
*
Porta
che sbatteva? Dio… Dorian!
Il
ragazzo ebbe la presenza di spirito di nascondere il viso tra le mani,
mascherando così l’incontenibile rossore che l’aveva imporporato fino alla
radice dei capelli.
Seguì
con lo sguardo il movimento fluido di Ambrosie, la quale si diresse pensierosa
verso la finestra, tutta intenta e concentrata a seguire il filo delle sue
inestricabili congetture.
Sarebbe
stato meglio se Ambrosie e Dorian si fossero incrociati; se non altro, non
sarebbe stato compito mio trovare una spiegazione plausibile alla sua presenza.
Ma, fortunatamente, Ambrosie non si è resa conto di
nulla.
-
Credo proprio – annunciò Ambrosie, assorta, dopo essersi schiarita la voce –
Che, fra qualche istante, avremo visite.
-
Eh? – Fernand si riscosse di colpo, sollevandosi a
sedere.
-
Direi con assoluta certezza – proseguì la ragazza – che l’uomo che si sta
dirigendo in questo momento verso casa sia proprio Auguste. E non mi sembra si
stia recando in visita di cortesia.
Il
panico travolse Fernand come una marea impazzita. Il ragazzo non riuscì a
trattenere un ansito di sorpresa.
-
Possibile che abbia già scoperto tutto?
- A
quanto sembra, è possibile – Ambrosie non si scompose – Che cosa intendi
fare?
-
Di certo, è qui per chiedere la mia testa – proruppe Fernand con un moto
risentito – Non è chiaro, è cristallino: qualcuno alza il becco contro il duca e
decide di parlare al popolo con libera lingua. Chi è l’autore del misfatto? Quel
pazzo di Fernand: è matematico.
Ambrosie
vide gli occhi del fratello scintillare imploranti.
-
Se chiede di me, digli che non mi sento bene.
La
ragazza incrociò le braccia, irritata, sovrastando la pallida figuretta
accoccolata tra le coperte aggrovigliate.
-
Prima o poi, dovrai affrontare le conseguenze del tuo “piano geniale” – ribatté
seccamente.
Fernand
si tirò le lenzuola fin sopra il naso, inasprendo lo sguardo ed imitando il
medesimo atteggiamento contrariato della sorella.
-
Ah, adesso che qualcuno se l’è presa a cuore, il piano sarebbe mio? Parlerò con
lui. Ma non adesso – si rigirò stancamente, sistemandosi la coperta intorno alle
spalle con il fare ostinato di chi non avrebbe mutato le proprie intenzioni
neppure sotto le più affilate minacce – Il mondo non gira intorno ad Auguste,
così com’è vero che nessuno di noi ha mai stipulato un giuramento di eterna
fedeltà nei suoi confronti. Ne discuterò con lui più tardi, alla locanda, se e
quando sarà il momento, e sempre che lui, nel frattempo, non abbia già
provveduto a scorticarmi vivo.
-
Immagino che tu sia troppo debole perché possa alzarti da quel letto – lo
pungolò Ambrosie, sarcastica.
- È
la verità – rispose asciutto il fratello.
-
Razza di sfrontato! – mormorò Ambrosie a denti stretti, mentre si dirigeva a
lunghi passi all’ingresso – Un momento! – gridò.
-
Apri, Ambrosie.
La
voce concitata di Auguste le giunse dall’altra parte del portone, risoluta ed
energica, mentre lei lottava contro il massiccio
passante.
Nel
momento in cui l’uscio si spalancò, Auguste la spinse da parte non troppo
bruscamente e si diresse spedito verso il modesto salone. Si guardò
minuziosamente intorno, come un falco alla ricerca della preda ambita;
dopodiché, la sua attenzione si concentrò su
Ambrosie.
-
So che Fernand è in casa.
-
Auguste – lo richiamò la donna, un’espressione interrogativa sul volto – Azzardo
troppo, se ti chiedo di spiegarmi a cosa devo tanto
fervore?
Ambrosie
si morse il labbro, rendendosi conto di quanto la sua voce, nel maldestro
tentativo di apparire tranquilla e padrona della situazione, suonasse artefatta
e piena d’apprensione.
-
Ho bisogno di parlare con tuo fratello, Ambrosie. È molto importante – reclamò
Auguste, tentando, a sua volta, di mantenere il
controllo.
La
ragazza respirò profondamente, guadagnando tempo. Lo sguardo febbrile di Auguste
saettava inquieto per la stanza, inquadrato negli occhi pesti e cerchiati di chi
non ha dormito neppure un istante. I capelli gli ricadevano disordinati sulle
guance.
L’uomo
le rivolse un breve ed eloquente gesto del capo, attendendo impaziente una
risposta.
Ambrosie
pregò che la sua mezza verità suonasse credibile: la persona che le stava di
fronte non sembrava disposta a tollerare alcun
compromesso.
-
Fernand non si sente bene. Da stamattina.
Auguste
alzò gli occhi al cielo.
-
Ambrosie, non è il momento di giocare, te lo assicuro. Lo dico per
entrambi.
- È
la verità – la ragazza balzò sulla difensiva, lo sguardo duro – Non abbiamo
motivi per mentirti, credimi.
-
Tu, forse. Ma credo possa ugualmente offrirmi un’esaustiva spiegazione.
Riconosci questi opuscoli?
Auguste
le consegnò un plico di fogli rozzamente rilegati. Seduto sul divano, accavallò
altezzosamente le lunghe gambe, mentre la ragazza scorreva i fogli con finta
noncuranza.
-
Devo attendere ancora a lungo, perché il signorino mi degni della sua venerabile
presenza? – scandì l’uomo, mordace.
-
Ti pregherei di non infierire. Sono seriamente preoccupata per mio
fratello.
Ambrosie
gli posò addosso uno sguardo che non ammetteva repliche. Almeno quella era la
verità.
Auguste
respirò profondamente, imponendosi ancora una volta di restare calmo.
All’occorrenza, quella donna riusciva a rendersi più esasperante di Fernand.
Sospirò: ammirava la giovane Ambrosie, ma, in quell’occasione, l’avrebbe
volentieri scrollata fino a farsi confessare la verità riguardo alle manovre
inconsulte di quel piccolo irresponsabile di suo fratello. Scacciò con decisione
l’idea dalla sua mente: l’ultima cosa che avrebbe voluto mettere in pratica in
vita sua era mettere le mani addosso ad una
ragazza.
Osservò
Ambrosie, soppesandola con lo sguardo. Gli parve così minuta da apparire quasi
fragile: tutta la sua forza sembrava risiedere nell’espressione ferma ed
imperscrutabile del volto. Dieci anni esatti in meno di lui, lo sguardo fiero e
pulito, lo stesso orgoglio tracotante del fratello. Non sta
mentendo.
Sorrise.
Era completamente diversa da Emilie: una bellezza fredda, immersa nel suo biondo
pallore impenetrabile, le mani sottili che si muovevano con grazia nervosa, le
membra delicate ed eleganti, i fianchi ed i seni poco pronunciati. Una vena
d’inquietudine negli occhi.
-
Qualcosa non va, Ambrosie? – la sua voce si
ammorbidì.
-
È… Fernand – sussurrò la ragazza, prestando sufficiente attenzione affinché
l’oggetto del suo discorso, che riposava nella stanza a fianco, non la udisse –
Poco fa, ha avuto un malore.
- E
ora, sai dirmi come sta? – incalzò l’uomo.
Ambrosie
si strinse nelle spalle.
-
Non saprei. Sta riposando. Sembrava molto debole, e lui stesso ignora la causa
del suo malessere.
-
Hai pensato di farlo visitare da un medico?
La
ragazza gli scoccò un’occhiata ironica.
-
Sai com’è fatto Fernand.
-
Già, lo conosci bene, e credo di conoscerlo abbastanza anch’io. Fernand pretende
troppo da se stesso.
-
Spero non via sia nulla di cui preoccuparsi. Se l’episodio dovesse ripetersi,
giuro che da un medico ce lo spedisco a calci!
Auguste
si ravviò i capelli in un gesto brusco. L’intera faccenda, ad essere sincero,
cominciava ad allarmarlo.
La
sua attenzione tornò a focalizzarsi sugli opuscoli.
-
Dunque, Ambrosie, cosa pensi delle “utili” letture che ti ho
procurato?
-
Tutto il bene possibile – rispose la ragazza, non senza una punta di malizia –
Insomma, Auguste! Era tempo che qualcuno si rendesse conto che mezza Noir Trésor
fa la fame in mezzo a nugoli di avvoltoi.
-
Smettiamola, una buona volta, di scherzare! Non è divertente – ribatté, secco –
Tu, piuttosto, sapevi nulla? – insinuò, serafico.
-
Ci puoi scommettere.
La
ragazza gli rivolse un mezzo sorriso astuto: aveva la situazione sotto
controllo.
-
Ma certo! Come non averci pensato prima? – Auguste schioccò le dita, tagliente –
Giustamente, avete macchinato il tutto alla perfezione, tanto che, come sempre,
l’unico ad esserne rimasto all’oscuro era Auguste, lo scemo. È
così?
-
Mi dispiace – Ambrosie chinò lo sguardo – Avremmo dovuto discuterne all’ultima
riunione.
-
Già – l’uomo distolse il viso a sua volta, il cuore trafitto da mille strali di
dolore – Spero almeno che abbiate agito con discrezione, benché non condivida i
vostri metodi.
-
Guardiamo in faccia la realtà, Auguste – Ambrosie si sforzò di non suonare
troppo pungente – Quale altro strumento abbiamo a nostra disposizione, se non
tentare di trasmettere consapevolezza? – il volto della ragazza s’illuminò – Io
credo che un popolo cosciente di questo stato di cose e delle angherie che da
molto tempo è costretto a sopportare, possa fare molto. Infondere speranza e
consapevolezza dovrebbe essere fra i nostri principali obiettivi. Vorrei fosse
possibile fare dell’informazione e della coscienza della gente le nostre armi
contro il dispotismo e l’ignoranza, sua complice. In alternativa, quale altra
concreta possibilità possiamo proporci? Presentarci al duca du Lac e sparargli
un colpo di pistola?
-
Onestamente – mormorò Auguste, soprappensiero – è un’idea che, per un certo
periodo, io stesso avevo preso in considerazione. Ma promettimi di non dirlo mai
a Fernand: matto com’è, il nostro amico sarebbe capace di tradurre veramente in
pratica il proposito.
…E
io non voglio vederlo marcire in una lurida prigione. Non voglio vederlo pagare
sul patibolo per un’idea che in realtà riguarda noi tutti. Non voglio riporre
sulle sue giovani spalle una responsabilità tanto grave. Non voglio che Fernand
soffra come ho sofferto io.
Auguste
tacque, un velo di tristezza ad annebbiargli gli occhi
chiari.
La
ragazza strinse le palpebre, a disagio. Ancora una volta, il dolore palpabile
che si annidava in quel volto stanco e tirato l’aveva gettata in una condizione
di lacerante impotenza. Quasi senza riflettere, Ambrosie circondò la mano di
Auguste con le sue e se la portò sulla guancia, sfiorandola
appena.
I
minuti scivolarono su di loro, rapidi come gocce di
pioggia.
-
Ambrosie, Ambrosie – la voce di Auguste risuonò stanca e vagamente allucinata –
Vorrei che mi sciogliessi da un terribile dubbio. Spiegami: da che parte
stai?
-
Dalla vostra, è naturale – rispose la ragazza, con
prontezza.
-
Continui a sfuggirmi. Cerco di trovare un nesso alle tue azioni, ma non riesco a
seguire un filo comune. Non credevo che anche tu appoggiassi le avventate ed
infantili iniziative di tuo fratello.
-
Se entrambi vi sforzaste di parlare, almeno una volta, anziché aggredirvi
a vicenda, forse avremmo un inconveniente in meno. Io mi sforzo di non cogliere
tutto il negativo da una parte e il giusto dall’altra. Ci provo o, per lo meno,
cerco di mantenere il proposito. Le nostre fatiche rischiano di cadere nel
vuoto, finché tra noi vi saranno tensioni e motivi di rancore. Apprezzo
l’impegno di mio fratello; ma, per certi aspetti, non posso non esprimere la mia
contrarietà.
-
Se intendi ciò che riguarda Raphäel Lemoine, sai bene quanto ritenga importante
l’avvicinarmi ad una congrega di più ampio respiro. E spero caldamente che
almeno tu riesca a trovare un compromesso con Fernand. Chiunque condivida un
progetto di resistenza alla tirannia dovrebbe restare unito. Non approderemo mai
ad una conclusione, se continueremo a lottare divisi ed osteggiarci a
vicenda.
-
Sono d’accordo – lo interruppe Ambrosie – Potrò anche azzardare, se dico che tu
e mio fratello ne siete l’esempio più rilevante. Sbagliate entrambi, e prima
porrete fine alle vostre controversie, meglio sarà per tutti:
credimi.
Auguste
respirò profondamente, spazientito.
-
Conosci un modo indolore per far ragionare Fernand? Saprai meglio di me quando
mi sia difficile trovare il modo giusto di prenderlo, sì da evitare di
attaccarlo o essere attaccato: è questa la verità. Parlaci e prova tu a farlo
ragionare: è il più grande aiuto che puoi darmi.
La
ragazza annuì, il volto serio.
-
Un’ultima cosa – la trattenne Auguste, posando con malagrazia i libelli sul
tavolo – State attenti nel manovrare questa roba. E scegliete con cura le
persone cui è bene divulgarla.
Si
diresse verso la porta.
-
Dove vai, se non sono indiscreta? – accennò
Ambrosie.
-
Dove vado? – la mano di Auguste esitò sulla maniglia, mentre la superficie dei
suoi occhi tremava umida – Devo andare da
lui.
Il
cuore della ragazza si strinse in uno spasmo angoscioso. Gli posò maternamente
una mano sulla spalla, gli occhi lucidi.
-
Auguste, se hai bisogno di… conforto, di qualunque cosa,
io…
-
Lascia stare – declinò l’uomo, un lieve sorriso carico di tristezza che si
allargava sul suo volto – Vai. Ti ringrazio di
tutto.
La
ragazza lo seguì con lo sguardo, mentre Auguste, spedito, si allontanava dalla
sua vista.
I
suoi passi la condussero nuovamente da Fernand.
-
Dunque – la interrogò suo fratello, una punta d’asprezza nella voce – Sei
riuscita ad ammansirlo?
La
ragazza assentì stancamente.
-
Parliamo chiaro, Fernand. Auguste sta soffrendo orribilmente per la scomparsa di
Lucien: ti prego di non peggiorare la situazione. Rimandate, almeno per un po’,
le vostre discussioni.
Fernand
le voltò le spalle con il pretesto di guardare al di là della finestra. Le
parole di Ambrosie, involontariamente, l’avevano ferito. Cercò d’impedire ai
propri occhi di riempirsi di lacrime, ma il sole che gli bruciava sul volto
rendeva ancor più ostico il suo intento. Infine, si lasciò andare ad un triste
sospiro.
Evita
di snervarlo. Non peggiorare la situazione. Non
angustiarlo.
Perché
sei capace soltanto di irritarlo, di esasperarlo e di complicargli ulteriormente
l’esistenza. Non puoi essergli utile: cerca almeno di non essergli
dannoso.
Non
ho mai voluto essere “utile”! Non utile come può essere uno sterile strumento,
un seguace senza volto, un burattino
senz’anima.
Non
voglio essere un intralcio, per lui. Non voglio gravare sulle sue spalle,
insieme al dolore che lo consuma. Non voglio essere per lui la causa di altri
mali.
Vorrei
soltanto proseguire diritto lungo la strada che ho scelto, senza incertezze,
evitando scontri sempre più dolorosi da cui usciamo entrambi sconfitti. Le
ferite bruciano ancora.
Vorrei
fuggire da questa prigione che mi sono ritagliato addosso senza saperlo. Vorrei
tornare indietro e non inciampare più sulla sua
strada.
Ma
non posso. Non voglio!
Rinunceresti
all’aria che respiri?
Auguste
mi ha preso e smembrato lentamente. Io l’ho ripagato di tutto senza sconti. Ma
il dolore non è un pretesto che basti a mantenermi lontano da
lui.
Si
può voler fuggire la propria condanna e, nello stesso tempo, non poter più farne
a meno?
Non
so cosa voglio. Ma, nello stesso tempo, ne ho
paura.
-
Fernand, perdonami – la voce femminile scivolò morbida su di
lui.
Ambrosie
gli prese il volto tra le mani.
È
davvero tanto debole il mio controllo sulle emozioni più
subdole?
Fernand
si morse dolorosamente il labbro.
-
Vorrei mettere in chiaro una cosa – le sussurrò, atono – Io non odio
Auguste. Detesto l’idea di accumulare altro insensato rancore. Questa
situazione mi pesa. La nostra… ostilità – Fernand sollevò gli occhi al cielo,
confuso.
Il
solo parlare di “ostilità” è un masso che mi opprime il petto. Chi ha stabilito
che deve essere così?
“Odio”:
chi è così stolto da credere a simili assurdità?
- …
la nostra ostilità non avrebbe motivo d’esistere. Non ha nessuna ragion
d’essere, Ambrosie; se solo… Non lo so. È più forte di
me.
-
Tieni molto a lui, è così? – le dita di Ambrosie scivolarono sulle sue spalle
tremanti.
-
Io apprezzo molto Auguste. Come ti sentiresti a sapere che la persona che stimi
più di tutte, ti ritiene poco più che una spina nel
fianco?
Fratello
mio, se così fosse anche per me?
-
Non è così, Fernand – Ambrosie si sforzò di dissuaderlo – Auguste è una persona
fredda e pragmatica, intransigente con se stessa e con gli altri, ma riconosce
il valore di chi ha di fronte. Non lasciarti ingannare dalle apparenze: io mi
fido del suo giudizio.
Scioltosi
dall’abbraccio della sorella, Fernand si diresse in silenzio verso la piccola
toeletta e prese a spazzolarsi distrattamente i
capelli.
-
Stai bene, ora? – indagò la ragazza.
Fernand
annuì col capo.
-
Adesso va meglio. Ho solo bisogno d’aria. Usciamo, andiamo a far
colazione.
* *
*
Un
cero ardeva al centro della sala, unica fonte d’illuminazione, proiettando
tutt’intorno un chiarore cupo e solenne ed un’impercettibile caligine che
offuscava la vista ai presenti. Le imposte erano chiuse, ed il lutto si
mescolava all’aroma opprimente della cera che si scioglieva e dello stoppino che
bruciava.
La
stanza era spoglia ed asettica, magicamente ripulita d’ogni traccia dell’orrore
che vi aveva avuto luogo. Un lugubre drappo color fumo celava alla vista dei
presenti la superficie del divano, striata da scure e larghe chiazze di sangue.
Lui, Auguste, sapeva cosa vi si celava. Distolse lo
sguardo.
Quel
divano.
Quella
stanza.
Rabbrividendo,
si premette le mani sugli occhi che bruciavano. L’atmosfera funerea che, sin dal
primo istante in cui aveva di nuovo messo piede in quella casa, gli si era
incanalata fin nelle ossa, turbandolo quasi quanto l’essersi ritrovato dinnanzi
a Lucien privo di vita.
Disagio,
vergogna, imbarazzo, dolore ed una sorta d’angoscia inspiegabile: le sole
sensazioni ad aver preso il sopravvento su di lui.
Sino
a quel momento, aveva scioccamente ritenuto che la sua pena fosse qualcosa da
covare in solitudine e da custodire gelosamente dentro di sé. Ma ora non era più
solo in quella casa. Il dolore non era una sua
esclusiva.
Invano
si sforzò, nella confusione, di mettere a fuoco i volti dei presenti, finché la
sua attenzione non fu catturata da una pallida figura dal portamento austero, la
cui bellezza a tratti vagheggiava la compostezza neoclassica di un’antica dea,
di una Diana prematuramente sfiorita dagli affanni e dall’impassibile scorrere
del tempo. Qualcosa scattò nella mente di Auguste: i lisci capelli corvini,
severamente raccolti; gli occhi azzurri, il profilo aristocratico e le labbra
sottili. I tratti sin troppo familiari.
Dopo
tanto tempo…
Fa’
che non sia lei: la madre di Lucien, Rose. Non riuscirò a sostenerne lo sguardo.
Non ne avrò il coraggio.
Auguste
si strinse tristemente nel soprabito scuro, fissando il candido lenzuolo che
copriva la salma di Lucien. Gli addetti all’ingrato compito avrebbero chiuso per
sempre le nobili spoglie del suo amico in una gelida cassa lignea e, di lì, il
mattino seguente, si sarebbero svolte le esequie.
Era
tutto così… impersonale, sprofondato nella più gretta, indifferente
quotidianità, mentre lui, lui aveva perso una ragione di
vita.
La
madre di Lucien piange sommessamente. E, a fianco a lei, suo marito fissa il
vuoto.
La
donna mosse alcuni passi verso di lui e gli posò timidamente una mano sulla
spalla. Auguste per poco non avvertì il proprio cuore esplodergli nel petto.
Inghiottì le lacrime. Incapace di articolare qualsiasi frase coerente, strinse a
sé la donna, tremante.
-
Tu non hai colpa, Auguste. Non hai colpa – singhiozzò Rose con discrezione – Hai
fatto tutto quel che hai potuto per il mio Lucien. Solo, non sei giunto in
tempo, ma non potevi sapere. Non potevi sapere…
La
donna sussultò flebilmente, soffocando le lacrime sulla spalla di Auguste, il
quale strizzò dolorosamente le palpebre arrossate, perdendosi nei suoi
pensieri.
Il
padre di Lucien stava compunto in un angolo. Non gli si accostò. Si limitò a
fissarlo, torvo.
Auguste
si accinse ad abbandonare quel luogo, annaspando alla ricerca
d’aria.
È
troppo. Troppo… Straziante.
Una
mano forte gli attanagliò il polso. Auguste cedette, arrestando i propri
passi.
Manca
poco. Così poco, alla mia rovina. Straziatemi anche voi, e poi lasciatemi morire
del veleno che mi soffoca il cuore.
Gli
occhi di Emmanuel, il padre di Lucien, bruciavano nei suoi come
lava.
-
Vi piace ancora giocare a fare i ribelli?
Auguste
avvertì le parole dell’uomo, ferme e vagamente deliranti, stridere come cardini
non oliati. Chinò lo sguardo, sconfitto, colpito a morte da quella voce e da
quello sguardo enigmatico e pieno d’astio.
-
Sia maledetta la vostra amicizia – proseguì l’uomo – Maledetti i vostri stupidi
sogni di gloria e la vostra dannata pazzia! Se foste annegati voi tutti nella
vostra sciagurata, folle ambizione, e se tu non ti fossi mai avvicinato a lui,
ora mio figlio starebbe ancora in piedi. Adesso, però, devi ascoltarmi
attentamente.
La
presa dell’uomo si strinse convulsamente sul polso di Auguste, quasi volesse
stritolarlo. Il ragazzo serrò stoicamente i denti, sentendo le ossa
scricchiolare nella stretta sempre più assillante.
Vide
la mano libera di Emmanuel infilarsi furtiva dentro il mantello scuro, per poi
trarne un oggetto acuminato. Un coltello.
Auguste
deglutì a fatica, il volto cereo.
Finiscimi,
implorò silenziosamente, gli occhi stretti a fessura nello spasmo angoscioso che
lo scuoteva. Lava via il sangue di tuo figlio con il mio, se questo ritieni
necessario. Metti a tacere il mio dolore ed il mio rimorso come giudichi più
opportuno, e che tutto finisca per sempre.
Con
grande incredulità da parte di Auguste, l’uomo allentò la presa sul polso
arrossato e dolorante e, imponendogliene la presa, gli mise forzatamente in mano
il pugnale e gli chiuse le dita sul manico.
-
Sai molte cose riguardo a Lucien, ragazzo – gli soffiò in faccia con voce roca –
Di certo, tu conoscerai molti più retroscena intorno alla tua morte di quel che
dici di sapere. Vai e trova l’assassino. È tutto.
Auguste
assentì in un debole cenno, il volto teso ed una sensazione di gelo a
percorrergli la spina dorsale, irradiandosi alle sue
membra.
-
Condoglianze, Auguste.
Emmanuel
si congedò con un rigido abbraccio meno rassicurante di quanto sarebbe voluto
apparire, e sparì oltre la soglia dell’abitazione.
Auguste
si massaggiò miseramente il polso indolenzito. Era nuovamente solo. Lui e la sua
disperazione. Sospirò, pentendosi di aver rifiutato l’offerta da parte di
Ambrosie di accompagnarlo. La ragazza avrebbe forse rappresentato per lui una
parvenza di supporto nell’affrontare il suo inferno; eppure, ancora una volta,
aveva finito per agire secondo la sua maledetta volontà, ignorando quelle
insolite, amorevoli offerte d’aiuto che di rado gli erano
rivolte.
Si
diresse mestamente alla volta della piazza
cittadina.
* *
*
Il
tardo pomeriggio investiva Noir Trésor della luce ramata del crepuscolo,
intercalata qua e là dalle lunghe ombre proiettate lungo le vie dalle case e
dagli edifici.
A
quell’ora della sera, la locanda pullulava già di avventori: giovani senza meta,
agitatori nell’ombra, gente del popolo che, di ritorno dal duro lavoro,
sfruttava la sua unica, astratta possibilità di esprimere senza censure i propri
malumori riguardo al cattivo governo e alle condizioni economiche sempre più
precarie, se non addirittura prossime alla miseria.
L’odore
pungente del vino si mescolava a quello dell’olio che bruciava nelle lucerne e
al fumo dei sigari che aleggiava nell’ambiente in morbide spirali, formando una
torbida cappa sopra le testa degli avventori.
-
Ehi, ragazzo – un giovane dai capelli biondi e dal fiero portamento che
contrastava stranamente con lo sguardo gentile, richiamò l’attenzione dello
sguattero – Altro vino per me e per il mio amico. Pulito, stavolta, il
bicchiere – gli intimò scherzosamente.
-
Ebbene, mon ami – Dorian si rassettò con certosina precisione lo jabot
merlettato – A cosa brindiamo?
Uno
sguardo deliziosamente luciferino lampeggiò nelle iridi di
Fernand.
-
Alla riuscita del nostro piano – Fernand schioccò la lingua con fare eloquente –
Guarda come si agitano. Guarda come hanno divorato i nostri articoli: fioccano
le idee, la protesta si estende. Presto le nuove istanze e le sollevazioni
raggiungeranno Palazzo du Lac con un’intensità ed un’iniziativa tale da
travolgere il duca come un fiume che, stavolta, gli sarà impossibile
arginare.
Il
ragazzo accompagnò le sue parole con un sorriso
cospiratore.
Dorian
sentì le labbra inaridirsi: il vino non era sufficiente a placare l’agitazione
derivante dai recenti avvenimenti e dalla vista di Fernand. Represse l’ardente,
inconsulto desiderio di stringerlo a sé.
Alla
sua sinistra, Ambrosie si guardava intorno nervosamente, con fare sospettoso. La
sua presenza era del tutto inconsueta in un luogo come quello, ma la ragazza,
intuendo la tempesta che di lì a poco si sarebbe scatenata, aveva insistito, con
un pretesto, per accompagnare i due amici.
-
Dimmi, Ambrosie: che te ne pare, dunque, del nostro “campo di battaglia”? –
Dorian rivolse il suo sguardo sulla donna, la quale si sistemò distrattamente
una forcina dalla quale era sfuggita una lunga ciocca color
miele.
-
Splendi come un diamante nel fango, Dorian. A dover essere sincera, non mi è
parso di scorgere qua intorno molte facce rassicuranti. Sarebbe un azzardo, da
parte nostra, far subito leva sul malcontento immediato di una massa
incontrollabile la cui aspirazione è creare disordini di certo controproducenti.
Dobbiamo prestare attenzione: la situazione può facilmente sfuggire di
mano.
Fernand
irrigidì le spalle.
-
Non capisco dove voglia arrivare – controbatté, risentito – Ma comincio a
chiedermi come sia possibile che la sola, momentanea vicinanza di
quell’uomo sia sufficiente a volgerti contro di
me.
-
Ora stai esagerando, Fernand. Non è come pensi. Se provassi ad evitare, almeno
qualche volta, di riversare su Auguste le cause di ogni tuo problema,
riusciresti ad essere realistico: il discorso, in questo momento, riguarda
noi due. Vorresti concedermi, gentilmente, la possibilità di rivolgerti
un consiglio senza che ciò comporti necessariamente urtare la tua sensibilità? –
Ambrosie lo fissò con espressione arguta.
-
Mi spiace, Ambrosie – il ragazzo chinò lo sguardo, in palese disagio; non voleva
alienarsi l’approvazione di sua sorella, fra i pochi che ancora lo appoggiavano;
ma il solo sentir nominare Auguste era in grado di tendere i suoi
nervi.
-
Non era ciò che intendevo – proseguì, la voce malferma – Volevo dire soltanto
che prima si muoverà il popolo, meglio sarà per
tutti.
-
Ed io volevo ricordarti che un piede in fallo, stavolta, equivale a mandare
davvero tutto all’aria.
Dorian,
rimasto in disparte sino a quel momento, intento a seguire la schermaglia
verbale dei due fratelli, si rivolse al ragazzo:
-
Ragiona, Fernand: credo che, per oggi, sia stato fatto abbastanza. Riconosco che
il nostro è un passo piuttosto breve, a dispetto di quel che ci proponevamo, ma
cerca di capire che, per una mossa tanto arrischiata, non vale la pena rischiare
ulteriormente.
Fernand
intrecciò le braccia sul petto, inquieto.
-
Io sono convinto, al contrario, che la situazione abbia bisogno di una scossa.
Ancora non basta, ragazzi, capite? Abbiamo corso gravi rischi nel portare a
termine la nostra operazione, e, se nessuno raccoglierà l’occasione, entro
domani tutto sarà già inutile e dimenticato. Ora hanno un pretesto per
scagliarsi contro il duca. Guarda intorno a te: leggono, inveiscono, fanno
sfoggio della loro indignazione. Eppure, di organizzare una resistenza unita
ancora non si parla. Domani, i libelli per i quali abbiamo rischiato la galera
saranno poco più che testi arguti sui quali sghignazzare in
privato.
Il
ragazzo si ravviò all’indietro i capelli con fare contrariato. Si alzò di scatto
e prese a misurare a lunghi passi lo stretto corridoio che, dall’ingresso della
taverna, si diramava, fra isole disordinate di tavoli e panche, fino al
malandato bancone in cui l’oste mesceva da bere.
-
Non so cos’abbia in mente tuo fratello – Dorian si morse il labbro, impensierito
– Ma non mi piace per nulla.
-
Ha bevuto? – indagò Ambrosie.
-
Soltanto qualche bicchiere di vino.
La
ragazza scosse il capo, sconcertata.
-
Allora, è chiaro. Dobbiamo fermarlo, prima che commetta qualche altra
imprudenza.
-
Credo sia troppo tardi…
Rassegnato,
Dorian puntò lo sguardo in direzione di Fernand.
Ambrosie
sgranò gli occhi, impressionata, portandosi contemporaneamente le mani sul volto
in un gesto rassegnato.
Basta
stare a guardare! Basta osservare impotenti mentre si muore di fame! È giunto il
momento che si dia avvio ad un’iniziativa rivoluzionaria che spazzi via il duca
du Lac ed il suo dominio sulla città.
-
Troppo tardi, troppo tardi – la ragazza saettò con lo sguardo dal viso di Dorian
alla scena che si stava consumando a qualche passo da
lei.
Presa
parola alla discussione sempre più accalorata che si era accesa fra gli
avventori della locanda, Fernand si era posto in testa alle requisitorie in
qualità d’arringatore.
I
vostri figli fanno la fame…
I
nostri concittadini muoiono, vittime di un sistema che vuole soffocare ogni
libertà attraverso il panico diffuso…
Le
parole di Fernand si persero confuse nella mente di
Ambrosie.
Taci,
ti supplico. Prima che sia troppo tardi.
Dobbiamo
prendere le armi e scuotere l’ingiusta supremazia sin dalle radici per mezzo
delle quali si è ancorata nella nostra terra e nelle nostre
vite…
L’ambiente
piombò nel silenzio, mentre le parole di Fernand frustavano l’aria, impetuose.
Qualcuno fischiò nella sua direzione, qualcun altro applaudì, altri ancora lo
imitarono, entusiasti.
-
Questo ragazzo ha ragione – un uomo attempato si accostò al giovane e gli tese
la mano con deferenza – Siamo stanchi di chinare il capo davanti all’usurpatore
e di accettare ogni sua prevaricazione.
Non
dice nulla di nuovo: niente che ancora non si sappia. Ma è tutto ciò che la
gente vuole sentirsi dire. E la situazione sta
degenerando.
Basta!
-
Dorian, dobbiamo fermarlo – la voce di Ambrosie risuonò
stridula.
Si
aggrappò al braccio di Dorian
- È
mezzo ubriaco, ha perso il senso del pericolo ed ora ha ottenuto i consensi di
tutto il locale.
-
Se permettete, potete lasciarlo a me.
Dorian
e Ambrosie sobbalzarono, quando la figura di Auguste comparve alle loro
spalle.
Gli
ansiti che gli scuotevano il respiro, i capelli sciolti e gli abiti in disordine
lasciavano intuire che Auguste si era precipitato in quel luogo di corsa,
palesemente sconvolto. Reggeva tra le mani, stretto al petto, un mazzo di
opuscoli.
- È
tutta qui la vostra… discrezione? – gli occhi dell’uomo si posarono gelidi su
Ambrosie – Non mi pare abbiate scelto bene le persone a cui indirizzare i vostri
dannatissimi libelli. Questi, li ho confiscati nella piazza: è meglio che stiano
con me al sicuro. Avete la più pallida idea di ciò che avete fatto? Avete
sobillato un’intera città; se queste… cose finiscono in mano a qualche
autorità, sarà un bagno di sangue.
Auguste
si diresse con passi furenti verso il giovane
arringatore.
-
Hai controllato non vi siano in giro oggetti contundenti? – Ambrosie si coprì
gli occhi – Finirà male. Malissimo.
Dorian
seguì Auguste.
-
Basta, Fernand; credo che per oggi possa bastare.
Dietro
Auguste e Dorian, Ambrosie scorse Raphäel, il quale pareva essere spuntato dal
nulla
Perfetto,
si disse. Ora, il quadro è al completo.
Auguste
spintonò bruscamente Dorian.
-
Fatti da parte, Dorian. In casi come questo, il tuo amico capisce un solo
linguaggio, purtroppo.
Sul
viso di Fernand comparve un sorrisetto subdolo, quando scorse
Auguste.
-
Osserva con i tuoi occhi.
-
Ho visto già abbastanza – gli occhi dell’uomo scintillarono di collera –
Davvero, i miei complimenti: hai quasi gettato sulla forca un intero popolo
facilmente suggestionabile… Per sua sfortuna. Sei felice, ora? Puoi riprenderti
questi.
In
uno scatto d’ira, Auguste scagliò gli opuscoli, mirando al volto di Fernand. I
fogli si sparsero per il pavimento della stanza.
-
Solo tu ti ostini a non capire di cosa ha bisogno Noir Trésor. Quanto, ancora,
dobbiamo chinare la testa, mentre il duca sfrutta e raggira come meglio può i
suoi schiavetti ubbidienti?
-
Il popolo di Noir Trésor ha bisogno di riforme che un tiranno non potrà mai
garantirgli. Ha bisogno di costruire solide basi economiche e morali per
rovesciare una tirannia; di certo, non di un ragazzino sciocco, egoista e
megalomane. Credi che gettarsi nella bocca del leone sia un modo per risolvere i
problemi?
Il
ragazzo indietreggiò, ferito dalle sue parole.
-
Neppure patteggiare con certa gente è una valida alternativa – gli occhi di
Fernand si strinsero con disappunto, fissandosi su Raphäel – Che ti prende,
Auguste? Hai trovato un nuovo socio in affari?
Un
nuovo socio con cui rimpiazzare quello vecchio?
Fernand tacque, arrossendo: solo un istante dopo, si avvide, nella collera, di
aver involontariamente sottinteso qualcosa che non avrebbe
voluto.
Una
cinquantina sguardi saettarono nervosamente da Fernand ad Auguste. L’aria tesa
preannunciava non troppo velatamente che di lì a poco i due contendenti si
sarebbero quasi di certo divorati a vicenda.
Fu
Dorian a frapporsi tra loro.
-
Auguste, ascoltami per un momento: Fernand non intendeva insultare nessuno, men
che mai…
L’uomo
se lo scrollò di dosso, sordo ai suoi richiami, continuando a fissare
gelidamente Fernand. Gli occhi gli s’inumidirono, mentre il respiro accelerava
paurosamente.
- È
questo che pensi, Fernand?
-
Non intendevo… quello. Non oserei mai. Il tuo problema, Auguste, è che hai
sempre avuto paura.
Le
parole del ragazzo risuonarono come una tromba che annuncia la battaglia
imminente.
- È
questo che pensi di me? – ripeté Auguste, investendo il ragazzo – Un vigliacco
che si circonda di altrettanti vigliacchi. Compreso lui. È così? – il suo
viso si corrugò in una maschera di dolore – Perché mi fai questo,
Fernand?
Perché
mi fai questo?
Il
braccio di Auguste si mosse fulmineo, ed il dorso della mano colpì Fernand in
pieno volto.
Il
ragazzo arretrò, stordito. Incespicando sui propri stessi piedi, si ritrovò, in
capo ad un istante, disteso sul pavimento appiccicoso della locanda, un fianco
dolorante e mille occhi su di sé.
Immobile,
le piccole losanghe bianche e nere del pavimento che si confondevano sotto il
suo sguardo, il cuore sanguinante ed il gelido biasimo trasudante dagli occhi di
Auguste che bruciava su di lui, inchiodandolo a
terra.
Potrei
dire l’identica cosa: perché mi fai questo, Auguste? Perché non riusciamo a
condividere lo stesso ossigeno senza dilaniarci?
Era
deluso, triste, furente: deluso, per l’infima considerazione che Auguste aveva
dimostrato possedere nei suoi riguardi. Triste, perché, colpendolo, aveva
sancito il suo disprezzo; furente, perché, nonostante tutto, non riusciva a
odiare quel bastardo capace soltanto di umiliarlo e di arrecargli disperazione e
sofferenze.
Ignorò
la mano che gli tese Dorian. Ignorò Raphäel che cercava di calmare Auguste e di
farlo ragionare; fino a quel momento, su di lui non avrebbe speso neppure un
soldo: ora, per un istante, il suo comportamento gli parve quasi
ammirevole.
A
fatica, si risollevò in piedi.
Perché
mi fai questo, Fernand?
-
Di certo, non devo rendere conto a nessuno di quel che faccio – sibilò ad
Auguste – Men che mai ad uno stronzo come te!
Senza
rendersi pienamente conto del proprio gesto, il ragazzo tirò indietro il pugno e
glielo sfracellò in faccia.
Ignorò
il veleno che gli mordeva l’anima e l’orribile senso di oppressione che gli
invadeva il petto. Ignorò le lacrime che gli accarezzavano le ciglia, mentre i
propri passi irruenti lo conducevano fuori di quella sudicia locanda, il freddo
che gli pungeva il viso ed il cuore. Fuggì finché gli occhi non cominciarono a
bruciargli, finché la sua corsa non disperse le lacrime nel
vento.