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Autore: Aluah    25/04/2013    14 recensioni
Erano passati sette anni da quel giorno.
Sette anni trascorsi tra i ricordi e le insicurezze del suo subconscio, contro le quali aveva combatuttto innumerevoli e perdute battaglie.
Quelle guerre perse in partenza contro qualcosa più grande di lei.
Qualcosa chiamato amore.
Il suo ricordo non l' avrebbe mai abbandonata.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Monkey D. Rufy, Mugiwara, Nami, Nuovo personaggio, Roronoa Zoro | Coppie: Nami/Zoro
Note: What if? | Avvertimenti: Incompiuta
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sette 10

Voleva solo dimenticare.
Annegare nell' oblio, trascinando con sè tutte le colpe che aveva, così da eclissare ogni singolo sbaglio che aveva commesso nell' arco di una vita. Desiderava poter ricominciare da zero, costruendo da capo quel castello di sabbia che era inesorabilmente crollato; avrebbe cambiato ogni cosa, dal modo in cui si era posta nei confronti di sua figlia alla scelta di isolarsi dal gruppo, optando invece per combattere le sua paure con armi altrettanto forti.
Sarebbe stata Nami, semplicemente, e non una donna che aveva rinnegato il suo essere, tramutandosi in una bugiarda in piena regola. Aveva imparato la lezione, facendo tesoro di ogni errore, trovando nello sbaglio l' insegnamento su cui basare le sue future azioni: in un modo o nell' altro era giunta alla sua conclusione, sebbene non fosse di certo quella di cui potesse dirsi soddisfatta.
Seduta al lungo tavolo della cucina, aveva esaminato per tutto il pomeriggio la sua vita, passando a setaccio ogni ricordo che le tornava alla mente, anche quelli di cui forse aveva ignorato l' esistenza. Sorrisi, risate, complicità, riemergeva tutto con prepotenza, facendosi spazio nella confusione che albergava nella sua mente. Aveva mille domande da porre a sè stessa, a cui purtroppo più si sforzava di trovare risposte, più quelle fuggivano, giocando a nascondino con la sua razionalità, che da quell' inseguimento ne usciva chiaramente perdente.
Aveva bevuto circa una decina di caffè, trangugiandone uno dopo l' altro, senza mai dar tregua alla sua gola che ora ardeva ustionata dalla bevanda bollente; non le era mai piaciuta la caffeina, l' aveva sempre trovata troppo amara per le sue dolci papille abituate alla freschezza dei frutti, considerandola solo quando rimanere forzatamente sveglia era divenuta una necessità.Fuggire dagli incubi, dai sogni che non erano altro che proiezioni di ciò che avrebbe voluto, tentativi della sua anima di mostrarle ciò di cui lei aveva davvero bisogno. Il caffè era stato un buon amico quindi, nato per chi doveva affrontare lunghe notte gelide a vegliare l' orizzonte, ma ottimo anche per chi temeva la notte e i sentimenti che riportava a galla.
Fissava da ore un punto indefinito, mentre con la punta dell' indice seguiva il contorno della tazza che stringeva tra le mani, quasi fosse un tic nervoso. Era come se il copro e la mente agissero l' uno indipendentemente dell' altro, o come se quest' ultimo si fosse scisso dalla volontà, portandola a compiere azioni semplici e ripetitive, quasi automatiche. Sfregava il polpastrello sulla ceramica colorata, macchiandolo dei residui del liquido scuro, divenuto oramai freddo e insapore: le gambe accavallate dondolavano con un moto perpetuo e cadenzato, sfiorando con la punta del piede la tovaglia.
Sembrava pazza.
Una di quelle che ripetono per ore gesti identici, senza proferir parola alcuna, mentre chi gli stava attorno gli rivolgeva un supplichevole sguardo di semplice pena; non era la prima volta che la vedevano sconvolta, amareggiata o triste, era capitato in svariate occasioni che il suo stato d' animo influisse sulla sua condotta, portandola ad esplodere come un vulcano in ebollizione. Ma la stranezza risiedeva appunto nella reazione che aveva avuto a quell' avvenimento, preferendo alla sua consueta ira una calma che poco le si addiceva e che su di lei aveva un che di inquietante.
Fuoco, passione, ardore; tre lati del suo carattere che aveva man mano represso, confinandoli in quello scrigno dove custodiva gelosamente i suoi ricordi e che aveva deciso di lasciare a Solan, là dove aveva vissuto. Li aveva rappresentati in schizzi confusi, cartine imprecise e pagine di diario che con mille parole non dicevano assolutamente nulla, se non quanto fosse oramai rassegnata alla nuova piega che la sua vita aveva preso. Aveva intrappolato sè stessa su pezzi di carta straccia che nessuno avrebbe mai più visto, rimpiazzandoli con nuovi lati del suo essere, costruiti in base alle esigenze.
Falsa, dal primo all' ultimo giorno in cui aveva rinunciato a tutto.
Impugnò la tazza, sbattendola sul tavolo con energia. La mandò in frantumi, tagliuzzandosi le dita in più punti; piccole gocce di sangue cominciarono a sgorgare dalle ferite, ricadendo sul ripiano di legno, mentre un leggero bruciore si diffondeva a tutte le falangi. Emise un gemito roco, grugnendo sommessamente per il dolore; odiava avere le mani escoriate, ferite, sporche soprattutto di qualcosa che non fosse inchiostro. In particolar modo il sangue le faceva particolarmente ribrezzo a causa di quella sua consistenza viscosa, così come per tutti gli episodi a d esso legati.
Bellemer, morta tra le sua braccia.
Lui, ricoperto di sangue dopo ogni battaglia, incosciente nel mettere a rischio la sua vita per proteggerla da tutto e tutti.
Si alzò da tavola facendo stridere la seggiola, mentre sollevava le mani in alto per evitare di imbrattare ulteriormente il legno che dopo avrebbe dovuto pulire, dirigendosi verso i pensili della cucina. Se la sua memoria non la ingannava era lì che Chopper teneva una cassettina di primo intervento, equipaggiata di tutto ciò che potesse curare contusioni o scottature varie e a cui ricordava si facesse particolarmente ricorso. Scavalcò il tappeto raggrinzito, notando che non era ancora stato sostituito da che aveva lasciato la ciurma, e che forse non era nemmeno stato lavato.
Lo ricordava giallo ocra.
Ora era nero, come il suo umore.
Tentò di aprire l' anta del mobiletto con il gomito, facendo pressione dal basso sulla maniglia, improvvisando un metodo per riuscire a disinfettarsi al più presto i taglietti da cui il sangue continuava a fuoriuscire. Ma per quanto si sforzasse quell'insulso sportello la derideva, aprendosi quel poco che bastava per illuderla di esser riuscita nella sua impresa, ma serrandosi non appena lei si distraeva. Riprovò ancora e ancora, e quando oramai stufa decise di utilizzare le mani, rimase interdetta dall' assenza di ciò che andava cercando. Nessuna valigetta con medicinali e cerotti, nessun disinfettante pronto per essere usato, solo una serie di scodelle e piatti fondi, decorati da disegnini stilizzati e greche colorate dietro ai quali stavano bicchieri eleganti.
Li ricordava bene, erano quelli con cui brindavano durante le festività, scambiandosi gli auguri e caldi sorrisi. Allungò una mano, dimentica oramai delle stille vermiglie, sfiorandone gli steli con la punta delle dita. Era passato così tanto tempo dall' ultima volta che erano stati utilizzati, talmente tanto che il cristallo aveva perso la sua naturale musicalità: sapeva che loro non ne avevano usufruito dopo i due ani di allenamento individuale, lo intuiva osservando la polvere che li ricopriva e l' incuria in cui erano stati lasciati.
Perchè loro non avevano avuto più nulla da festeggiare, nè un Natale nè un nuovo anno passato senza di lei, alla ricerca disperata dell' ultimo componente della famiglia.
Ritrasse la mano, chiudendo il mobiletto, mentre si rimetteva alla ricerca di una garza. Si abbassò, cominciando a frugare in un secondo scomparto, tastando alla rinfusa angoli e stoviglie varie: era evidente che ogni cosa fosse cambiata a bordo di quella nave, che la voglia di ridere, scherzare, litigare per un' insulsa brioches fosse venuta meno tempo prima, e che di conseguenza nessuno necessitasse più di medicazioni urgenti per contusioni o lividi provocati dall' ira di chi aveva esaurito la pazienza. I sorrisi erano divenuti rari come diamanti, e uno solo bastava ad allietare la giornata dell' intera ciurma; ognuno a turno cercava di ritrovare la normalità, trovando il lato positivo ad ogni situazione e condividendolo con tutti gli altri.
Un' impresa ardua, a cui non tutti riuscivano a prendere parte.
- Dove diavolo li avranno messi? - chiese con un tono leggermente alterato, mentre sbatteva l' ennesimo sportello.
- Terzo scaffale a destra. -
Essenziale, come lo era sempre stato.
Nelle parole e nella sua vita.
Si alzò in piedi, evitandolo accuratamente, mentre faceva mente locale sulle indicazioni che glia aveva fornito. Per una volta era lui ad indicarle la strada e non il contrario. Con la coda dell' occhio intravide la scatola bianca con la croce rossa, sorridendo timidamente in previsione della medicazione che avrebbe fatto; si avviò verso il ripiano, cominciando una nuova serie di tentativi per afferrare il contenitore senza lasciare ulteriori tracce di sangue; gomiti, polsi, avambracci, le provò tutte, senza però ottenere risultati, se non quelli di far sogghignare sotto ai baffi l' uomo che le stava alle spalle. Percepiva il suo sguardo penetrarle le carni e il cervello, indagarle l' anima, così come solo lui sapeva fare.
Era qualcosa che non si poteva imparare.
L'istinto li avrebbe sempre guidati.
Una mano più grande ad abbronzata le sfilò a lato del volto, andando a posarsi sulla cassettina incriminata. Era incredibile come i ruoli si fossero ribaltati: era sempre stata lei a medicarlo, curarlo, vegliare sulle sue ferite rimproverandolo per quell' audacia che gli sarebbe costata cara prima o poi, e che lei detestava proprio perchè sapeva che sarebbe stata ciò che li avrebbe allontanati. Si voltò, vedendolo prendere posto a tavola, mentre armeggiava con qualche benda; lo imitò, rimanendo in religioso silenzio, sedendosi goffamente sulla panca che circondava un lato del tavolo. Si sistemò di fronte a lui, in modo tale che potesse medicarla con facilità, allungando le mani verso le sue, in attesa di ricevere le cure che meritava. Sussultò quando le sue dita s' intrecciarono ad altre, molto più grosse e muscolose, ma che in quelle circostanza di dimostravano infinitamente delicate ed attente a misurare la forza con cui si muovevano.
Non si sarebbe mai abituata al suo tocco, una droga che l' aveva stregata e da cui ora era in dolorosa astinenza.
Sollevò il volto, incastonando lo sguardo in quello del suo uomo, specchiandosi in lui. Era troppo tardi per tornare indietro, troppo tempo sprecato per poter cancellare quel velo di tristezza e rammarico che oscurava la luminosità delle sua iride color pece; avrebbe voluto cancellare ogni segno di sconforto, un desiderio che sarebbe per sempre rimasto tale. Mosse leggermente le dita, riportando l' attenzione alle ferite, invitandolo tacitamente a prendersi per un' ultima volta cura di lei. Non avrebbe retto oltre se avesse continuato a immergersi in quel mare buio, calamita per la sua essenza, metà di quel cuore che non sarebbe mai tornato intero.
- Quando? -
Non era mai facile comprenderlo, ancor di più se sottintendeva le frasi, aspettandosi che lei le comprendesse. Parlare non era mai stato il loro forte, si esprimevano a gesti, come bambini immaturi che non trovavano altre parole da dirsi se non ridicoli soprannomi senza senso. Ma era stata proprio quell' essenzialità di parole ad insegnarle a cogliere ciò che nessun altro avrebbe visto, i messaggi che lui nascondeva dietro la sua incapacità di esprimere con le parole ciò che provava, uniti all' orgoglio che gli bloccava le parole in gola. Solo una volta avevano intrattenuto una conversazione degna di esser definita tale, poco prima di separarsi quando gli aveva confidato quella sensazione che la preoccupava e che si era realizzata con la loro divisione.
Parlarsi per loro non era mai stato presagio di felicità.
- Sono cambiate troppe cose... - tentò di giustificarsi, osservandolo prendere una serie di cerotti, scartarli ed adagiarli sulle ferite, aspettando che quel gesto si ripetesse fino hall' ultimo taglio - Poche ore, il vento ha accelerato molto la navigazione e entro domattina saremo sbarcati a Rodha. -
Quell' addio che premeva sul cuore di entrambi e che solo uno di loro aveva avuto il coraggio di ammettere ad alta voce.
- No, quando te ne andrai? -
Lui, che l' aveva letta ancora una volta, capendo i segnali, sommandoli, e giungendo infine alla giusta conclusione.
Non sarebbe rimasta, non era tornata per restare.
L' ultimo addio.

Sillabe.
Questo le usciva dalla bocca, versi gutturali che non erano altro che l' inizio di un discorso che non giungeva mai a compimento. Per quanto si sforzasse di assemblare le sue idee, quelle non volevano saperne di concretizzarsi in suoni di senso compiuto, rimanendo sospese tra la sua mente e la sua lingua. Aveva le mani rigide e le dita quasi raggrinzite, aggrappate con forza ai polsi dell' uomo che le stava dinnanzi. Era lei quella intelligente, non lui. Lui proteggeva, agiva, combatteva, urlava per avvertirla che stava correndo un pericolo e dormiva anche nelle situazioni dove era richiesta la sua presenza, ma non pensava, non lo aveva mai fatto. Era il suo braccio, mentre lei era la mente che lo governava, un' unione perfetta che creava la completezza.
Ma quei sette anni avevano cambiato anche lui, spingendolo a trascorrere più tempo in compagnia di sè stesso, rispolverando i neuroni assopiti dall' ambizione di essere più forte. Anche lui come lei aveva riscoperto un lato di sè che forse nemmeno sospettava di possedere.
- Come sta? - deviò improvvisamente la conversazione su un altro piano, chiedendogli spiegazioni riguardo ciò che avevano in comune e che ancora li univa.
- Dorme. - rispose, continuando a carezzarle le mani, mentre applicava l' ultima garza sterile al taglio più profondo. Lo tamponò delicatamente, impregnando il tessuto di sangue, ripiegandolo con cura prima di fissarlo con un altro cerotto. Come infermiere faceva davvero pena, ma per lo meno si era impegnato più del solito in qualcosa che per lui era nuovo, occuparsi degli altri. - Ti vuole molto bene. - le confessò con una punta di amarezza, appoggiandosi meglio al tavolo da pranzo con entrambi i gomiti.
- Mi odierà per il resto della sua vita, bella madre che sono. L' ho messa al mondo, affidata ad un vecchio pazzo e trascinata su un' isola deserta per preservarla da qualcosa che era solo nella mia testa...- sbuffò, rilassando la testa ed il collo - Avrebbe tutte le ragioni per odiarmi! -
- Haredas non era pazzo! - una vocina stridula li interruppe, proveniente dalla porta della cucina.
Sull' uscio stava Nora, in piedi con i capelli scompigliati ed una maglia bianca a coprirle il corpicino esile, troppo grande per poter essere sua. Con un mano si strofinava gli occhi impastati dal sonno, mentre l' altra era tesa e rilassata lungo i fianchi, impugnando il suo fedele orsacchiotto di pezza. Era a piedi nudi, con le labbra contratte in un broncio, ed avanzava lentamente verso di loro; non era mai stata capace di essere passiva nei discorsi, se la si nominava appariva magicamente, dimostrandosi curiosa di apprendere e matura oltre la sua giovane età. Faceva domande, chiedeva spiegazioni, il tutto per dare un volto tutto suo alle persone che la circondavano; una peculiarità tutta sua, che la rendeva terribilmente speciale agli occhi di chiunque.
- Era solo molto particolare... - difese il suo primo baby sitter, giustificando il fatto che la invitasse a volare oltre le nuvole con il pretesto della creatività, quando invece qualche rotella doveva davvero mancargli - Andava capito, ci voleva molto bene! - prese posto anche lei accanto al suo papà, abbracciando il suo bicipite muscoloso e succhiandosi il pollice, rilassandosi nuovamente dopo quel contatto. Era pur sempre una bambina, ed esser coccolata era ciò che gli era sempre mancato. 
Nora stava bene così, accanto al suo papà.
Sospirò pesantemente, mordendosi le labbra alla ricerca delle parole giuste, quelle che per tutto il pomeriggio si era studiata ma che in quel momento si erano trasformate in polvere ; sapeva che non appena fosse passata la tensione avrebbe avuto un fiume in piena sulla punta della lingua, pronto ad esprimere ciò che sentiva, senza riserva alcuna. Ma aveva imparato che ricercare qualcosa equivaleva a perderlo, e che la vita si poteva progettare, ma non programmare. Apriva e chiudeva la bocca come un pesce a cui manca l' aria, intrappolato in un mondo che non le apparteneva e in cui non sapeva come muoversi; pazza, infantile, incapace, se l' avessero insultata non avrebbe potuto far altro che annuire e tacere, incassando delle accuse che avevano un fondo di verità.
E poi, l' illuminazione.
- Tu stai bene qui... -
Eccole le parole giuste, ciò che doveva dirle fin dall' inizio, ma che non aveva mai avuto il coraggio di fare per paura che le scivolasse come sabbia tra le dita. Non riuscì a guardarla negli occhi mentre ammetteva la sua resa, nello stesso momento in cui il suo orgoglio si eclissava davanti alla consapevolezza che Nora si fosse innamorata del mare, esattamente come era successo a lei. Sapeva che lei la stava fissando, lo intuiva, dato che la sua bimba era avvezza scrutare ogni pupilla in cerca del vero volto delle persone, togliendo la maschera di ipocrisia che ciascuno vestiva.
- Papà non è poi così squattrinato, forse un po' baka! - lo derise, osservandolo con ammirazione. Si strinse ancor di più a lui inspirando l' odore della sua pelle, desiderosa di tatuarlo su di sè, come il simbolo che la sua mamma aveva sul braccio.
L' eroe di ogni figlia, il proprio papà.
- Ci farai l' abitudine, non temere, per lo più dorme! - sorrise anche lei, notando come anche il ragazzo cercasse di nascondere un lieve accenno di divertimento, del tutto estraneo a quelle dinamiche così intime e famigliari. Un' allegria malinconica, in previsione di un saluto definitivo. Ma ammettere la tristezza equivaleva per lui a perdere la sua identità, forgiata oramai sull' imperturbabilità degli eventi. Ritornò a guardarlo, accorgendosi che nel suo occhio fosse ora accesa una nuova scintilla, debole, seppure ardente ancora di quella forza che l' aveva per la prima volta creata; non riuscì a dargli un nome, seppe solo che quella notte lo voleva per sè, con sè, dentro di sè, con quella magica fusione che solo loro potevano attuare. Lasciarlo non equivaleva a rinnegarlo; significava semplicemente adattarsi alle esigenze del suo cuore, che in quel momento sentiva il bisogno di tornare alle origini, bambina forse, per imparare ad essere donna.
Si alzò da tavola, prendendolo per mano, invitandolo a seguirla, per quella che sarebbe stata la loro ultima volta.
Nora rimase seduta al tavolo, sorridendo tra sè e sè mentre una nuova immagine si faceva strada nella sua testolina: non sarebbero mai stati una famiglia normale, era destino per loro crescere in separata sede, lontani gli uni dagli altri. Ciò che li avrebbe uniti però sarebbe stato qualcosa che superava la morte, la lontananza, le bugie e ogni più piccolo sbaglio: erano una famiglia, comunque li si guardasse, felici di essere strani nella loro unicità. Le avevano sempre detto che quando si è lontano dagli occhi, lo si è anche dal cuore delle persone ma se in un primo momento ci aveva quasi creduto, ora era sicura che chiunque avesse inventato quest' assurdità non avesse mai amato davvero qualcuno.
Era felice, ora completa di ogni sua parte.
Nora Roronoa; ecco, suonava davvero bene.

Ciao.
Li aveva salutati tutti così, senza nessun monologo straziante. Un semplice abbraccio, una raccomandazione in più e un sorriso rassicurante, soprattutto per il suo capitano; nessuna lacrima questa volta, nessuna moina inutile, solo l' esigenza di tornare a casa, confidando nella sapienza di ciascuno di loro. Aveva detto solo una frase emblematica, la sola che ritenesse necessaria per un momento del genere: qualcosa che era una minaccia, un augurio, una raccomandazione e una preghiera nello stesso tempo, ma che riassumeva tutto ciò che sul suo diario per anni aveva appuntato, senza mai riuscire a metterlo in pratica
Te l' affido.
L' aveva lasciata a ciascuno di loro, chiedendo solo che la proteggessero come avevano fatto con lei e a Rufy che trasferisse la promessa fatta a Genzo sulla sua nuova sottoposta, una piccola piratessa che sintetizzava una tigre feroce ed un gatto astuto. Il mare aveva catturato anche lei, tentatore con onde spumose e mille avventure, luogo per cui sua figlia era nata; non la si poteva ingabbiare, sarebbe scappata, sempre e comunque, conquistando un passo dopo l' altro tutto ciò che voleva. Le sarebbe mancata da morire, già lo sapeva, così come Zoro, primo ed unico uomo a cui aveva mostrato la donna nascosta il lei, quella che aveva tenuto segregata per anni.
Ma sapeva in cuor suo che li avrebbe rivisti, ritrovati e amati di nuovo se possibile ancor più di prima.
- Aspettami - le aveva detto, promettendole che sarebbe tronato vivo e vincitore a prenderla, accompaganto dalla piccola donna a cui ora avrebbe dedicato ogni suo sogno.
Aveva visto la nave salpare, salutandola con un gesto della mano, mentre ognuno le diceva ciao a modo suo: chi cantava, chi le fissava e sorrideva enigmatica, chi disegnava cuori con la sigaretta nascondendo le lacrime dietro al ciuffo boindo. E c'era anche chi sventolava il cappello, sorridendole bonario, giurandole fedeltà con un solo sguardo. E infine c'era che invece reggeva una pupetta tra le braccia che benchè in lacrime, riusciva a trasmetterle comunque felicità.
Erano esattamente sette modi diversi, contando che Usop e Chopper preferivano piangere abbracciati in simultaneo.
Effettivamente il sette era il suo numero.
Sette, come gli anni che aveva passato lontana.
Sette, come i mari che sua figlia avrebbe ora solcato, alla ricerca del suo sogno.
Sette. come gli anni che avrebbe atteso prima di imbarcarsi nuovamente, alla ricerca del suo One Piece.
La parola fine non sarebbe esistita per lei, mai.









Angolo dell' autore:
Ho partorito il finale! Mi scuso per l' ora in cui lo posto ma mi sembrava doveroso farlo.
Allora, chiedo scusa per il ritardo, ma come molti di voi sanno è successo un fatto che mi ha mandato in blocco e in crisi. Ho smesso di scrivere leggevo a fatica e volevo dire addio alle Fan Fiction. Ma poi siete arrivati voi, che con mille messaggi, recensioni e solidarità mi aveva spinta a tirar giù dal chiodo la tastiera, e a riprendere in mano la staseura di queata storia. Questo finale è quello che avevo pensato inizialmente, lascia aperte molte possibilità, per questo lascerò l' avvertimento incompiuta.
Magari la continuerò un domani, ma vedremo.
Grazie a chi mi ha segiuta e a chi mi ha sostenuta psicologicamente ( ed è una bella sfida )!
Un grazie particolare a chi mi ha scritto bellissime parole e edicato storie, insomma quale onore:
- Celiane4ever
- Flick
- Kiko90
- Lucix24
- Metaldolphin
- Nami_88
- Phoenix_Passion
- RoloChan105
- Vivian_1992
- Zomi
- Zonami84

Ma anche a chi mi ha preferita, segiuta e recensita, facendomi tornare la voglia di scrivere.
A presto gente,
per davvero eh,
Alu.

   
 
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