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Autore: Banana_Mecha    26/04/2013    4 recensioni
"La signora Kim siede vicino alla vetrina, nella sua caffetteria.
La porta è stata chiusa dall'interno con una spessa catena allucchettata; eppure non è neanche il tramonto.
Dentro le luci sono accese, e diffondono un caldo bagliore arancione, ma adesso che questo locale è vuoto… Prima che scatti il coprifuoco c'è ancora chi si azzarda a venire a trovarla. Sono molte meno di prima, certo, però vengono quasi ogni giorno.
Le passano ancora le lettere. Alcune addirittura portano del cibo.
Le si avvicinano e le sussurrano: «Yesung sta bene?»
Gli occhi della signora Kim si riempiono di lacrime. Non lo so, vorrebbe rispondere, mi manca mio figlio e non so niente di lui da mesi. Però non dice niente. Annuisce, e cerca di sorridere."
Settembre 2013. E' bastata una notte, e nessuno poteva sospettare che sarebbe accaduto così. Il Nord ha attaccato il Sud e la capitale è in ginocchio. La musica viene bandita dalla legge.
Gli artisti vengono costretti a rifugiarsi e a combattere contro i traumi di una guerra crudele e la paura di essere trovati. Non saranno soli però. Presto nel sottosuolo di Seoul nascerà la ribellione.
SJ, SNSD, B1A4, B.A.P.
Genere: Generale, Guerra, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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WARNING: Salve. Finalmente dopo due mesi sono tornata con un capitolo decisamente deludente. Di tutte le cose che ho tentato di scrivere e trasmettere, ne avrò fatte bene al massimo due. Chiedo scusa, so che il capitolo sarà decisamente noioso, ma dal momento che si avranno presto dei colpi di scena vi supplico di pazientare ancora un po'.
Nel capitolo si introduce Leeteuk e poi si parla della "partenza". I nostri idol dovranno rifugiarsi nel sottosuolo di Seul dove c'è poco spazio per le parole e dove dovranno affrontare tanti dei loro scheletri nell'armadio... Ci si sta pian piano riavvicinando allo scenario del prologo e del capitolo 1.
Scusate tanto. so che è noioso. 
Grazie a chiunque leggerà. Ciao ciao. ♥

Confine orientale tra le due Coree.
Il campo di Jeol Mang è un’enorme distesa di prefabbricati intorno ad un vecchio complesso industriale in disuso, in mezzo alle montagne. Qui il regime ha allestito in fretta e furia un campo di internamento circondando l’area di alte reti , filo spinato e cavi ad alta tensione.
Da lontano non si direbbe mai che è un luogo di prigionia, però. Sarà perché non ci si aggira mai nessuno, tutti rinchiusi nelle fonderie a lavorare, o perché forse il rumore dei macchinari e dei pneumatici delle camionette è l’unico suono distinguibile, quasi in quel posto non si aggirasse anima viva.
Il sole dell’alba si appresta a sorgere dietro una spessa coltre di nubi e illumina l’erba bagnata che ricopre la vallata.
Jungsu stringe la mani attorno alla casacca della divisa e se la fa scivolare lentamente sulla pelle, si allaccia le scarpe sdrucite con un vecchio spago ed esce fuori dalla baracca in cui dorme con altri venti, trenta uomini. Non può dare un numero preciso perché alcuni se ne vanno e altri arrivano in continuazione. Trascina stancamente i piedi lungo i vicoli fangosi del campo insieme agli  altri internati che, avvolti nella nebbia mattutina, sembrano tanti fantasmi. Il dedalo di baracche con l’intonaco scrostato e le macchie di muffa sulle pareti ricorda vagamente una di quelle baraccopoli sudamericane che a volte gli era capitato di vedere in TV. 
Sente una goccia di pioggia cadergli sulla punta del naso, con delicatezza; il tempo di sbattere un attimo le palpebre e ha iniziato a piovigginare. 
E’ quella pioggia fredda e leggera che annuncia definitivamente la fine dell’estate. Gli riporta alla mente i ricordi di quando un anno prima, sotto quella stessa pioggia gelida e inconsistente, era entrato nell’esercito.
In quel momento lasciare i Super Junior, il lavoro, sua madre e la sua vita gli era sembrato giusto. Fin da piccolo non avevano fatto altro che imbottirgli il cervello di stupidi ideali patriottici e di modelli di virilità obsoleti a cui non aveva potuto fare a meno di credere. 
“Se non fai la leva, non sei un vero uomo”.
Se ne avesse la forza, ora vorrebbe ridere in faccia a tutti quelli che si sono inventati certe storie. Vorrebbe dirgli “Ehi, guardatemi ora, non vi sembro un vero uomo?”. Poi dopo a pensarci gli viene l’amaro in bocca.
Perché adesso non è un uomo; non è neanche più una persona. Il verbo “essere” non fa più parte di lui, perché a tutti gli effetti lui non è più.
Si lega i capelli incolti con un brandello di corda e cerca di dare aria alla casacca; qui tutto puzza terribilmente. Lui stesso emana un odore acido e insopportabile che gli fa venire voglia di strapparsi la pelle. 
Quando ormai anche la fame e la stanchezza sono diventate parte integrante della sua vita, la puzza di quel posto è qualcosa a cui non riesce ad abituarsi. Si gratta il collo mentre prende posto in mezzo alla fila nel piazzale centrale.
Davanti a quella lunga schiera di relitti umani di cui lui stesso fa parte, appeso al muro degli alloggi dei soldati, un gigantesco tabellone recita incolonnati gli uni sopra gli altri tutta una serie di numeri. Quasi tutti i numeri della prima colonna sono stati barrati di rosso; l’ultimo cancellato è il 134A.
Jungsu ha un numero simile marchiato sul braccio; il suo recita le cifre 351A e quando lo guarda non ricorda più bene neanche come chiamarsi.
Non è la prima volta che gli danno un nome nuovo; saranno passati circa nove, dieci anni da quando successe la prima volta, ormai. Ma allora era diverso.
Leeteuk era un nome che rappresentava qualcosa di ardentemente cercato e voluto; rappresentava il suo riscatto, la sua fama, la sua felicità. Era un nome che di per sé aveva un significato carico di responsabilità. 
Ma il 351 non è neanche un vero nome. Sono solo delle cifre che gli hanno scavato a forza sul braccio. Gli servono solo per sapere quanto tempo ancora gli rimane: un centinaio di giorni, secondo i suoi calcoli approssimativi.
Ogni mattino, prima di caricarli sui camion e portarli a lavorare, sono obbligati a mettersi in fila lì, nel piazzale centrale davanti al tabellone. Non importa quanto freddo fa, che ci sia la pioggia o la neve, loro devono farsi trovare lì all’alba disposti in ordine in base al numero tatuato sul loro braccio. 
Ed ecco che spuntano fuori dalla caserma due soldati, come ogni giorno. Jungsu li guarda attraversare la distanza tra la porta e i primi della fila, accompagnati da un silenzio carico d’angoscia. Prendono i primi tre prigionieri della coda; questi non oppongono la minima resistenza. 
Tra di loro c’è un uomo di mezz’età; Jungsu non sa neanche il suo nome a dirla tutta, ma nonostante ciò non può evitare di abbassare lo sguardo. Ieri sera, dopo il lavoro, quell’uomo è venuto da lui mentre stava pulendo le suole fangose delle scarpe, in un angolo della baracca. Dal momento che difficilmente qui ci si rivolge la parola a Jungsu è sembrato piuttosto strano che qualcuno si avvicinasse a lui con tanta determinazione.
«Tieni», gli aveva detto l’uomo allungandoli un cartellino.
«Che cos-», Junsu non aveva fatto in tempo a finire che l’uomo gli aveva già appuntato il biglietto alla tasca della divisa.
«È un pass per i magazzini. Non tutta la roba che viene confiscata viene distrutta; la maggior parte viene portata qui o in altri punti di raccolta. Con questo pass puoi andare a lavorare nel reparto dove viene smistata. Ti avverto, è un lavoro faticoso, non ti metteranno di certo a stilare un inventario… Però è meglio della fonderia e se sei fortunato trovi anche qualcosa da mangiare. Fanne buon uso, a me non serve più, domani mi portano via», l’uomo gli aveva tirato un paio di pacche sulla spalla e poi si era voltato pronto ad andarsene.
«Aspetta», lo aveva bloccato Jungsu. «Perché a me?».
L’uomo l’aveva guardato con uno sguardo triste, il più triste che avesse mai visto prima e il cuore gli si era stretto dolorosamente in petto.
«E’ per ringraziarti per ciò che hai fatto a mia figlia. La prendevo sempre in giro, sai? Era tutta un “Leeteuk è l’amore della mia vita, Leeteuk è importante…”. Pensavo fossero i soliti discorsi da adolescente», l’uomo ha lo sguardo perso nel vuoto, quasi potesse rivedere la figlia davanti a sé.
«Deve mancarle…», aveva bisbigliato Jungsu alzandosi in piedi lentamente. Gli occhi dell’uomo si erano velati per un istante, poi però gli aveva sorriso.
«È morta di leucemia un anno fa, la mia Jae In. Nell’ultimo periodo però non si sarebbe neanche detto che stesse per morire, sorrideva in continuazione. Ad ogni infermiera che passava vicino al suo letto porgeva una cuffietta e diceva, “Senti il nuovo album dei Super Junior!”. A volte, se non era troppo debole, la sentivamo addirittura ridere se per caso qualcuno le aveva acceso la TV su Strong Heart. In una settimana l’ho vista sorridere, ridere, piangere e guardarti orgogliosa, come quando si guarda un innamorato. Quindi… ti prego di accettare il mio favore, per quanto piccolo. Se non vuoi accettarlo da me, accettalo da mia figlia».
L’uomo aveva annuito fra sé e poi se n’era andato a letto. Chissà con che stato d’animo si va a letto, quando si sa che è la nostra ultima notte?
Jungsu non lo sa; ma sa com’è andare a letto e trovarsi inspiegabilmente a piangere ore e ore la morte di una ragazzina sconosciuta fino a farsi bruciare gli occhi, e non può fare a meno di ripensarci, ora, sotto questa pioggerella fastidiosa.
I tre sorteggiati si fanno legare la mani con una corda e poi vengono trascinati via, a capo chino, fatti montare su una camionetta e infine spariscono con lei oltre i cancelli del campo. Nessuno sa dove vadano, se vengano uccisi o torturati, o ancora usati come cavie per esperimenti. Semplicemente spariscono nel nulla e i loro numeri vengono cancellati dal tabellone con una linea rossa.
Il campo di internamento è qualcosa di così orribile che neanche nel peggiore degli incubi Jungsu se lo sarebbe mai potuto immaginare. Ogni secondo che passa desidera di trovarsi in cima alla fila per essere preso e portato via e così morire il prima possibile pur di non sentire la sete, il freddo e il dolore agli arti. Pur di non sentire l’odore pungente del sudore e i morsi della fame che gli fanno venire voglia di scoppiare a piangere e di urlare. 
Dall’altra parte si chiede se magari non valga la pena resistere ancora un po’. Perché la vita è bella e anche se appare come un ricordo lontano e sfocato dentro di lui c’è ancora la speranza di tornare a sorridere, un giorno. Certo, servirebbe un miracolo e dov’è ora, di miracoli, non ne avvengono. 
E rimuginando questi pensieri viene spinto come ogni giorno nel retro di un camion insieme agli altri e viene trasportato in fonderia; ha il tempo necessario per dimenticarsi chi è, cosa ha fatto fino ad ora e quanto gli manchino i suoi affetti prima di varcare la soglia dell’officina sapendo che non rivedrà il sole, perché quando uscirà sarà già sera tarda. Non gli va di usare il pass, non gli sembra giusto. Per oggi è ancora di quel padre triste e solo. Solo per oggi, finchè non avrà raggiunto la sua Jae In.
 
Caro Jun Hong,
a te, che per me sei come un figlio.
Che ti ho visto crescere e superare tutte le difficoltà che la vita ti metteva di fronte. 
Ti faccio questa richiesta perché conosco il tuo coraggio, la tua tenacia e la tua bontà d’animo. Anche l’altro giorno mi hai dimostrato la tua forza riuscendo a non aprire bocca perfino sotto tortura, e in questa lettera posso decisamente ammettere che tu, nonostante la giovane età, sia davvero l’uomo che stimo di più al mondo.
Nella mia umile esistenza ho fatto ben poche cose degne di nota; una di quelle che mi rende più fiero però è quella di aver in qualche modo creato la musica attraverso di voi.
Jun Hong, la musica è ciò che ci tiene in vita. Le parole nascondono bugie, ma la musica no; la musica comunicherà con la sincerità dei sentimenti. La musica parlerà al cuore di tutti, anche di chi non capisce il testo. Un mondo senza musica è un mondo di bugie.
Per questo ti domando di proteggerla.
Il regime vive di bugie e SULLE bugie. Chi è venuto a cercare Yongguk l’altro giorno voleva metterlo a tacere, perché è una testa calda che non ha paura di denunciare niente attraverso la musica, ma ben presto inizieranno a dare la caccia a chiunque abbia in qualche modo dato un po’ d’aria di libertà a questo Paese. All’agenzia ci sono già arrivati diversi avvertimenti,sono iniziate le confische di tutti i CD e della merchandise e le stazioni televisive hanno chiuso. 
Non mi importa dove hai nascosto Yongguk, non mi importa se dovrai scovare altri nascondigli, giurami,  Choi Jun Hong, giurami sulla tua vita che metterai in salvo quanti più artisti potrai. Non lasciare che qualcuno imprigioni e uccida la musica. Fa’ piuttosto che questa sia la prima cosa che la gente sentirà, una volta liberata questa nazione. 
Hong, oggi mi uccideranno. Sono troppo malconcio per avere una qualche utilità in un campo di internamento. Probabilmente sarai l’ultima persona che vedrò, ma va bene così.
Molto meglio che questa sorte sia toccata a me che a te. Morendo avresti salvato Yongguk, forse. Ma se muoio io non salverò solo te e lui, salverò tutti quelli che riuscirai a nascondere. Fa’ che il mio sacrificio non sia vano. Salutami tutti.
Ti voglio bene.
Kim Taesung.
P.S. Alla Signorina Lee: Son Ji, mi dispiace dovertelo dire attraverso una semplice lettera, ma è un peso con cui non posso morire. Ricordi quella sera tanti anni fa, quando Go Daejung ci presentò, alla festa? Era una bellissima notte di maggio, e tu avevi una rosa bianca fra i capelli. Lee Son Ji, sembravi un sogno. Da allora mi sono ripromesso di fare qualsiasi cosa per tenerti accanto a me. Ti amo da allora, Son Ji-sshi. Ecco, solo questo. Anche adesso, mentre chiudo gli occhi, ti rivedo avvolta in quell’abito lungo e bianco. Ogni volta che tentavo di dirtelo sono stato troppo codardo e ho taciuto per la paura di perderti. Spero davvero che un giorno Dio possa liberarmi da questi rimorsi. Ti amo.
 
Hong siede sul pavimento a gambe incrociate; si inumidisce la punta delle dita con la lingua e inizia a contare quanti fogli ci sono nel grosso plico che ha appena stampato.
Di fianco, la grande fotocopiatrice continua a emettere un ronzio mentre la spia gialla vicino al monitor lampeggia pigramente.
Improvvisamente lo schermo del telefono che si trova sul pavimento si illumina lanciando un bagliore bluastro sul soffitto buio dello studio di suo padre.  Hong lo afferra con la mano fasciata e se lo porta all’orecchio.
«Pronto».
«Ho contattato tutti», risponde la signorina Lee. Poi sospira.
Deve essere molto stanca, non dorme da giorni, ma è davvero riuscita a contattare tutti quanti.
«Signorina Lee la ringrazio infinitamente, vada a letto adesso. Qui finisco io». 
«Ok», risponde la giovane segretaria stancamente. Poi indugia qualche secondo e aggiunge: «Abbiamo fatto un buon lavoro Jun Hong. Il signor Kim sarebbe fiero di noi».
«Già, lo credo anch’io», passano alcuni secondi e poi la signorina Kim bisbiglia un ultimo “ciao” e riaggancia.
Per un attimo la frase della signorina Lee gli ha lasciato un grande vuoto nel petto. Quello è il vuoto che prima occupava il signor Kim. 
L’ultima volta che l’ha visto era uscito dalla stanza dicendogli “allora torno domani”, e il signor Kim aveva annuito, “a domani”. Stringendo quella lettera non aveva avuto il coraggio di aprirla finché non era tornato in casa. 
Hong si alza con non poca fatica, stringendo i denti per il dolore che gli provoca la ferita all’addome, e pian piano si dirige verso la fotocopiatrice che nel frattempo si è fermata del tutto. Estrae il plico di fogli caldi dal cassetto e li distende sulla scrivania di suo padre sotto il fascio di luce della lampadina da lettura.
Arrotola le mappe e le ferma con un elastico di gomma, dopodiché esce e si chiude la porta dello studio alle spalle.
Questo sarà l’ultimo giorno che vedrà sua madre, pensa.
«Mamma, ho bisogno di una mano per il bendaggio», le dice con il tono più pacato che riesce ad avere, posando la cassetta del pronto soccorso sul tavolo della cucina. Sua madre si asciuga le mani e abbassa la fiamma del fornello.
«Siediti», gli sussurra con pacatezza, e lo aiuta a sfilarsi la maglietta.
Quel rituale che i due portano avanti da una settimana è sempre accompagnato da un silenzio angosciante.
La prima volta che è successo, sua madre non aveva neanche il coraggio di guardarlo negli occhi.
“Hai idea di cosa significhi raccogliere il proprio unico figlio da una pozza di sangue? Hai idea di cosa significhi sentire l’unica creatura che hai giurato di proteggere fino alla morte urlare nella stanza accanto alla tua senza poter fare niente per aiutarlo? Riesci minimamente a capire quello che mi hai fatto?”.
Quelle parole continuano a rimbombare nella testa di Jun Hong insieme alle sensazione del volto umido di sua madre nell’incavo della spalla. 
Le sue mani delicate gli tamponano le ferite con del cotone imbevuto di disinfettante. La guarda, guarda il suo volto bellissimo e triste, i lunghi capelli soffici che le incorniciano il volto e il largo golf di lana marrone che le si affloscia sulle spalle esili. Pensa che sia una donna meravigliosa e che avrebbe dovuto trattarla meglio; pensa che non avrebbe dovuto farla soffrire tanto e che gli dispiace infinitamente.
«Mamma, ti voglio bene», bisbiglia.
«Jun Hong, stai cercando di rendermi la separazione meno dolorosa?», sussurra la donna serrando le labbra. «Mamma, guardami negli occhi».
Lei  alza il viso rigato di lacrime e punta uno sguardo supplichevole negli occhi di Hong. Poi però annuisce tirando su col naso.
«Va bene, Jun Hong, vai. Ti preferisco lontano da me che morto», sussurra asciugandosi la guancia sulla spalla.
E’ il 15 ottobre 2013. Mentre Hong esce di casa con lo zaino in spalla e il rotolo di fogli fra le braccia, sua madre  tira fuori un pacchetto marrone dalla credenza.
Non l’ha trovato, si dice, doveva essere il suo regalo di compleanno. Era un libro d’avventura. Come piacciono tanto a Hong.
 
«Vieni con me», mormora Jinyoung.
Quelle parole lasciano Bani spiazzata. Alza gli occhi dalla sua tazza di tè fumante e riesce a sillabare solo un:«Come prego?», del tutto incredulo.
Da qualche settimana sono soliti fermarsi a una caffetteria nei pressi del cimitero; la prima volta, il giorno dopo che lei è scappata in preda all’imbarazzo, quando lui gliel’ha chiesto si è dovuta tirare un pizzicotto per assicurarsi che non fosse un sogno. 
«C’è una caffetteria carina vicino all’incrocio», le aveva spiegato lui, così ci erano andati. Effettivamente era davvero carina; non troppo grande, con le pareti rivestite di legno, tavoli di mogano lucido e poltroncine imbottite. Si siedono sempre nel posto vicino alla vetrina; non che la visuale della strada sia particolarmente bella, solo che da lì si può scorgere la cancellata del cimitero. Bani non capisce questa sua ossessione per quel posto, ma suppone sia qualcosa di talmente personale che se anche lui tentasse di spiegarglielo probabilmente lei non capirebbe. Allora, nelle lunghe pause in cui lui osserva oltre il vetro, lei indugia con lo sguardo sul grande acquario in fondo alla parete in cui nuotano due pesciolini azzurri.
Nella caffetteria non c’è mai nessuno a parte l’uomo dietro al bancone ed è il posto perfetto per due anime sole come loro.
E così, ogni pomeriggio avevano parlato davanti a del tè caldo, guardando le città fredda fuori dalla vetrina.
Parlavano di quello che facevano nella vita – lui era un cantante dei B1A4, in effetti la faccia non le era del tutto nuova– e si erano detti i propri interessi.
Pur essendo conversazioni del tutto superficiali, c’è qualcosa nel modo in Jinyoung le affronta (pacatamente, con interesse nonostante siano argomenti banali) che le fa desiderare non finiscano mai. 
Il volto pallido del ragazzo, che di per sé rappresenta la perfezione, incornicia un’espressione dannatamente triste.  Bani si chiede in continuazione come sarebbe se solo quelle labbra squisitamente piene si curvassero in un sorriso.
Con lui si sente sempre un po’ a disagio; è così bello, grazioso… Si chiede perché mai le chieda tanto spesso di passare del tempo con lui. A lei, che è solo una ragazzina goffa e impacciata, che sicuramente non ha un briciolo di fascino.
«Vieni con me», ripete Jinyoung, a voce ancora più bassa avvicinandosi a lei.
Bani rimane per un attimo a fissare quei grandi occhi liquidi e poi, adottando il suo tono di voce, gli bisbiglia:«Dove?».
«Non lo so. Ma mi devo nascondere se non voglio essere arrestato. Vieni con me», le ripete per la terza volta, con un’espressione di supplica negli occhi. Jinyoung vede la confusione attraversare lo sguardo di Bani e allora le afferra le mani. 
Smettila, non vedi che mi fai battere il cuore all’impazzata? Ti sembra divertente?, vorrebbe urlargli la ragazza. E invece annuisce lentamente, senza smettere di guardare dentro quegli occhi tristi.
Un ragazzo di cui non sa niente, uno sconosciuto, le sta chiedendo di mollare casa, madre e scuola per scappare con lui chissà dove. E’ semplicemente una follia. Ma lui continua a tenerle le mani, e i loro volti sono così vicini che se volesse potrebbe baciarlo.
«Vengo», risponde.
Jinyoung si allontana lentamente e le lascia le mani.
«Grazie», le sussurra, e poi, come se niente fosse, si porta la tazza alle labbra e sorseggia il suo tè, guardando fuori le luci della città che iniziano ad accendersi.
«Perché io?», domanda Bani bruscamente,e Jinyoung si sente improvvisamente riportare alla realtà. Il suo volto è serio e preoccupato.
«Perché sei l’unica capace di capirmi», si limita a rispondere, abbozzando un sorriso. Il primo che Bani gli vede fare. Gli occhi per un attimo si sono incurvati e hanno brillato e le guance si sono riempite. E’ durato un istante, un misero breve istante.
Ma suo malgrado, è bastato ciò perché Bani si sia ormai convinta di amarlo.
Verrò con te, pensa, anche solo per vederti sorridere di nuovo.
 
Hyoyeon scende le scale con il suo zaino in spalla, seguita da una Sooyoung dallo sguardo perso. In strada non c’è nessuno; sono le sette di sera di un mercoledì e probabilmente ora tutti quanti sono in fila per i rifornimenti. Non che si noti particolarmente la differenza dal solito, ultimamente nessuno esce troppo di casa, specialmente ora che il sole tramonta prima e inizia a fare freddo. Con un senso di disagio nel petto Hyoyeon prende Sooyoung per mano, una mano piccola e gelida, e inizia a trascinarla in silenzio lungo il marciapiede. Il sole del tramonto allunga le loro ombre tremolanti a dismisura. 
«Hyo, come ci troverà se ce ne andiamo?», bisbiglia Sooyoung, senza smettere di seguirla. Il suo sguardo è tutt’altro che assente ora. Sarà la decima volta che le pone quella domanda. 
«Ti ripeto che per quando riapriranno le frontiere noi saremo già tornate a casa», la voce di Hyoyeon è tremendamente stanca. Sooyoung abbassa lo sguardo e si morde il labbro senza però lasciarle la mano, quasi non riuscisse a camminare da sola. Le strade deserte la spaventano, e poi sarebbe voluta rimanere a casa; sa benissimo che Tiffany non può tornare in Corea, ma comunque lasciare quella casa, ancora piena della sua presenza, le provoca un enorme senso di abbandono.
Passano davanti a un piccolo giardino pubblico per bambini davanti al quale c’è una baracchino dei gelati chiuso. Hyoyeon guarda altrove, perché i ricordi non riaffiorino; e invece tornano a galla tutti. 
Quello è il posto in cui nell’estate di dieci anni prima lei e Hyukjae avevano preso il gelato quasi ogni giorno. Anche quel pomeriggio erano andati lì. Lui aveva scelto yogurt e fragola, lei invece aveva voluto provare l’arancia; leccando i loro gelati si erano presi per mano per dirigersi alla fermata dell’autobus, ed era la prima volta che succedeva. Qualunque altra ragazza si sarebbe vergognata a passeggiare mano nella mano con uno come lui, ma non Hyoyeon. Hyoyeon era la ragazza più felice del mondo. E si erano baciati, nascosti dietro la penultima fila di sedili, su quel bus deserto. Era stato un bacio impacciato, che a ripensarci fa quasi ridere. Lei aveva sentito il sapore della fragola sulle sue labbra. Perché diavolo se ne ricorda così bene? E’ stato un bacio, un penosissimo primo bacio fra due ragazzini imbarazzati.
«Tutto ok?», domanda Sooyoung.
«Sì tranquilla», le sorride Hyoyeon.
Girano l’angolo e si affrettano a raggiungere le altre sei, che parlano a bassa voce sul ciglio del marciapiede. Le loro parole trasudano nervosismo.
Nessuna parla di Tiffany, della guerra, dei bombardamenti, dei soldati, di ciò che stanno per fare.  Parlano del tempo, del fatto che quest’anno l’aria è diventata fredda prima del solito e che la pioggia ha iniziato a dare un po’ di tregua solo ora. Sinceramente Hyoyeon le capisce; nessuno ha voglia di concentrarsi su questo presente incerto. Di ricordare i bei tempi andati non se ne parla neppure, perciò…
Sospira. Una sagoma compare in fondo alla strada e corre verso di loro.
«Eccoci», sospira Hyoyeon. Sinceramente non ha la minima idea di dove abbiano intenzione di nasconderle; sono in pieno centro della città, a piedi e tra un’ora scatterà il coprifuoco.
Via via che si avvicina la sagoma prende una forma, quella di Jeon Hyosung. Per tutti era sempre stata Hyo, l’altra Hyo. Ma ora le cose sono cambiate e preferisce un più secco Sung. La ragazza le raggiunge con il fiatone e dalle labbra le escono delle nuvolette di vapore.
Hyoyeon non può fare a meno di notare quanto la leader delle Secret abbia messo su peso ultimamente, e quanto nonostante ciò sembri splendida. Non si aspettava di vedere lei, però.
«Che ci fai qui?», domanda Jessica, con il suo solito tono un po’ seccato. Ovviamente non lo fa di proposito, ma Hyosung non può evitare di lanciarle un’occhiataccia.
«Vi metto in salvo, che domande», risponde bruscamente appena finito di riprendere fiato, asciugandosi le mani sudate sui jeans. Poi si china vicino a una grande grata di metallo, ai cigli della strada, e con un rapido cenno del mento le invita ad aiutarla. Hyoyeon si affretta a accovacciarsi accanto a lei afferrando la grata dalla parte opposta.
«Al mio tre tira verso l’alto. Uno, due, tre!»
Le due riescono a spostare il tombino. Con un calcio Hyosung lo scosta quel tanto che basta per farci passare i loro esili corpi, poi estrae una torcia dalla tasca dello zaino e senza dire niente si cala agilmente giù.
«Che aspettate? Muovetevi, non abbiamo tempo!», la sua voce giunge da poco più in basso, avvolta nell’oscurità. 
Raccogliendo il coraggio a quattro mani una ad una si lasciano scivolare nella fessura, e poi con non poca fatica richiudono la grata e iniziano a seguire Hyosung lungo quei corridoi stretti e umidi illuminati dal fioco bagliore della torcia.
«Dove stiamo andando?», domanda Yuri. Hyosung si gira verso di lei per un attimo, poi torna a guardare davanti a sé.
«Nel posto più sicuro di Seul», si limita a rispondere. Yuri intuisce che forse è meglio non indagare oltre e si limita così ad accendere la propria torcia elettrica e a puntarla davanti a sé.
Non dev’essere la prima volta che viene qui, constata Hyoyeon, totalmente affascinata dalla determinazione della leader delle Secret.
Quest’ultima si ferma, si scosta i capelli dal collo e illumina una porta di metallo che all’inizio con quel buio le altre non avevano notato. La serratura è forzata, a Hyosung basta spingerla perché si apra con un cigolio. Al di là non c’è una stanza, bensì una scala a pioli di metallo fissata sulla parete opposta. Il cunicolo è piuttosto stretto, ma sembra sufficiente perché loro ci si possano calare dentro. Hyosung stringe la torcia fra i denti, si assicura di avere afferrato saldamente i pioli della scala e poi inizia lentamente a scendere.
Yuri è l’ultima a calarsi giù.
E’ buio, fa freddo e le sembra quasi di scendere all’inferno. Non sa per quanto dovrà stare lontana dalla luce del sole, tra quanto rivedrà i suoi cari e se mai riuscirà a sopravvivere. Eppure sa che è l’unico modo di salvarsi; nella capitale sono stati arrestati già molti artisti: in prevalenza scrittori e pittori, i primi a ribellarsi al regime. Solo qualche settimana fa hanno iniziato con i cantanti.
Sì, ha tanta paura, ma è anche abbastanza intelligente per capire che non può permettersi di fare altrimenti.
Una volta posati i piedi per terra, dopo una discesa che sembrava interminabile, riprende la sua torcia in mano e illumina il gruppetto che la sta aspettando in silenzio. Appena Hyosung si è accertata di averla dietro riprende il cammino imperterrita.
«Siamo solo noi?», la vocetta squillante di Sunny si propaga per un attimo contro le volte del soffitto.
«Certo che no. Gli altri arrivano da altri punti della città», mormora Hyosung. I corridoi si sono fatti più larghi e le voci rimbombano in modo agghiacciante.
Dopo un buon quarto d’ora passato a camminare in silenzio, finalmente Hyosung si ferma davanti a un’altra porta.
«Benvenute nella vostra nuova casa», mormora spingendo la maniglia mentre una luce rossastra invade il corridoio.
 
«Una stazione della metro?», esclama incredulo Donghae. Ha fatto un po’ di fatica a mettere a fuoco l’ambiente, visto che è illuminato solo da qualche lampada da campeggio.
In effetti si era sempre chiesto a che conducessero quelle porte di metallo sempre chiuse che si trovavano ai lati delle piattaforme; beh ora che è sbucato da una di quelle lo sa.
Il gruppetto si guarda intorno incredulo; sì, non c’è dubbio che si trovino proprio su una piattaforma della metropolitana; sulle pareti sono ancora affissi i manifesti pubblicitari di qualche mese prima accanto ai grandi schermi spenti dove solitamente comparivano gli orari e i percorsi dei trasporti sotterranei.
Hong si china e apre la cerniera dello zaino, estraendo un plico di fogli dalla tasca anteriore.
«Ecco, ce ne dovrebbe essere una per ognuno», dice mentre li distribuisce fra i Super Junior.
«Di che si tratta?», chiede Hyukjae.
«Sono mappe del sottosuolo della città», risponde Hong srotoloando la propria e illuminandola con il fascio luminoso della torcia.
«Il tracciato verde chiaro sono le fognature, mentre quello blu sono i cunicoli della metropolitana. Dove vedete questi segni rossi troverete delle porte che comunicano fra i due sistemi sotterranei… oh, beh, ovviamente sono quasi tutte da scoprire, noi abbiamo avuto poco tempo per esplorare tutta la zona e…»
«Cosa?!», lo interrompe Sungmin. «Avete esplorato tutta quell’area in meno di una settimana?».
Hong annuisce. Illuminato appena dalla luce della torcia, i suoi occhi appaiono visibilmente segnati dalla stanchezza. Ha ancora dei lividi e delle ferite sul volto e una mano fasciata. 
«Le lineette gialle invece sono i punti da cui si accede alla superficie; vi ho scritto tutti i nomi delle strade. Questi grandi quadrati invece sono le stazioni della metropolitana. Adesso noi siamo qui», indica un punto della mappa vicino a un segno rosso, « e dobbiamo arrivare alla fermata di Oksu, dove abbiamo stabilito il quartier generale. Dopodichè vi accompagnerò a Yaksu insieme agli MBLAQ… spero abbiate portato provviste sufficienti per qualche giorno visto che ancora non sappiamo bene come gestire la questione dei rifornimenti. Bene è tutto, andiamo, da qui a Oksu sono solo un paio di kilometri», annuncia Hong riponendo la mappa nella tasca del giacchetto e girandosi per riprendere il cammino.
«Cosa? Ancora due kilometri?», piagnucola Kyuhyun trascinando i piedi stancamente.
«Magari è la volta buona che dimagrisci», lo canzona Shindong.
«Ma senti chi parla!», sbotta Kyuhyun. Le loro voci rimbombano in maniera agghiacciante e l’eco si propaga lungo i tunnel bui della metropolitana.
Hong si siede con non poca fatica sul bordo della piattaforma e si cala sulle rotaie. L’addome continua a dargli delle fitte a causa delle quali non fare smorfie di dolore è difficile. Chissà quanto starà sanguinando… Merda.
«Prendete tutte le lampade da campeggio che trovate, servirà luce», ordina con la voce un po’ incrinata.
Seguendo le rotaie si addentrano fra i bui tunnel della metropolitana. Non inciampare nelle rotaie è difficile.
«Questo posto dà i brividi», la voce di Ryeowook giunge da qualche punto indefinito della galleria, rimbombando contro le pareti. 
Sungmin sussulta e un attimo dopo china il capo, contento che nessuno in quell’oscurità possa vedergli le guance arrossate.
Si sente una ragazzina stupida, è solo che in quell’attimo gli è bastato sentire la voce di Ryeowook per dimenticarsi di essere in un tunnel spaventoso e pieno di topi. 
Ultimamente negli occhi dei Super Junior c’è tristezza, rassegnazione, ma più di tutto rabbia. Una rabbia incontenibile.
Non era mai successo, e tutto ciò spaventa Sungmin enormemente. 
Quando incontra lo sguardo di Ryeowook si sente trafiggere da una fitta di nostalgia.
Odiava Hyeyoung, oh se la odiava. Odiava ogni sua risatina infantile, ogni suo vestito rosa, ogni suo fiocco “adorabilmente vintage”, come avrebbe detto lei. Odiava il fatto che fosse carina come una bambola e che avesse una risata da bambina ingenua, e detestava il modo in cui guardava Wookie. Con quegli occhi languidi di chi è pronto a scoppiare a piangere per ogni minimo rifiuto.
Ma la cosa che odiava di più in assoluto, era il fatto che Ryeowook la amasse. Nonostante  tutti quei difetti era riuscito a vedere in lei qualcosa, qualcosa che non aveva visto in Sungmin. 
Non si era sentito in colpa di averla odiata neanche al suo funerale. Certo, non è così sadico da affermare che il fatto lo rendesse felice, ma ecco, guardando la sua foto odiosa su quella bara bianca non si era affatto pentito di aver pensato tante cattiverie su di lei.
Perché non solo gli aveva portato via Ryeowook, il SUO Wookie, ma adesso gli aveva anche spezzato il cuore. Ed era stata una banale casualità, non l’aveva fatto apposta; chi poteva immaginare che sarebbe rimasta intrappolata nello studio televisivo e che la bomba le sarebbe esplosa addosso? Nessuno. 
Ma Ryeowook non sorride più, e Sungmin DEVE dare la colpa di ciò a qualcuno. Non è una questione affrontabile razionalmente, sa solo che deve prendersela con qualcuno.
Negli ultimi tempi ha realizzato di non poter vivere senza la solida certezza che almeno Ryeowook è felice; ha provato in tutti i modi a farsi passare quella che all’inizio aveva pensato fosse solo una semplice cotta tra amici. Aveva respinto l’idea in tutti i modi finchè non aveva addirittura deciso di passare il minor tempo possibile con lui, lasciando persino la radio. Inutile. 
Si sente il protagonista secondario di un drama, quello che ama più di tutti e al tempo stesso rimane il più solo, alla fine. Sospira.
Qualcosa nella tasca di Hong inizia a emettere dei suoni elettronici, e tutti sussultano spaventati. Il ragazzino tira fuori un walkie talkie:«Pronto, qui Hong».
«Lo so, babbeo, l’ho digitato io il numero», la voce di Himchan giunge frusciante ma è piuttosto comprensibile.
«Senti giraffa», prosegue Himchan, «Noi siamo già a Oksu e la situazione è piuttosto affollata… ».
«Arriviamo tra poco… Chi manca?»
«Mhm… Non vedo Hyosung ancora…».
«Mhm, credo sia normale, arrivavano da Seobinggo. A dopo, chiudo», Hong spegne il walkie talkie e se lo rimette in tasca. 
Seobinggo, riflette Hyukjae. Il nome non gli è nuovo… Era il posto dove lui e Hyoyeon erano soliti andare a prendere il gelato quand’erano ancora dei trainees. Ora che ci pensa la baciò anche, una volta, ma è stato così tanto tempo fa che ricordare i dettagli è quasi impossibile. All’epoca Hyoyeon gli piaceva un sacco. E’ stato forse il suo primo amore, se così si può chiamare. Ricorda che pensò parecchie volte di chiederle di diventare la sua ragazza, ma che non ne ebbe mai il coraggio… Perché ci sta pensando ora? E’ passato così tanto tempo, si ripete di nuovo.
In fondo alla galleria si inizia a intravedere una luce fioca.
«Ci siamo», annuncia Hong, «Benvenuti nella vostra nuova città, Seoul Underground».

«Che guardi?», domanda Min Ji.
Soon Mi è rimasta con il suo sacco di cemento a mezz’aria, con lo sguardo fisso in un punto indefinito, oltre l’angolo della strada. Min Ji allora gira intorno al furgoncino per poter scorgere anche lei la scena che, nella perpendicolare all’incrocio, ha attirato tanto l’attenzione di Soon Mi.
«Quelli laggiù…», sussurra la ragazza, «Non sono i Super Junior?».
Min Ji assottiglia gli occhi per mettere meglio a fuoco le sagome minuscole in fondo alla strada.
«Potrebbero essere loro come chiunque altro, sono troppo lontani per distinguerli…», risponde, scrollando le spalle.
«Mhm», Soon Mi si limita ad annuire e torna con noncuranza al suo sacco di cemento. Con un ultimo sforzo riesce a buttarlo dentro al camioncino e chiude lo sportello con un tonfo. Si stringe il colletto della divisa intorno alla gola e trema di freddo, poi prende posto sui sedili del furgoncino insieme a Min Ji.
«Puoi partire», dice quest’ultima.
Il soldato al volante gira la chiave nel quadro senza dire una parola e mette in moto.
«Allora, domani partite?», domanda a un tratto.
Min Ji annuisce: «Sì. Ci trasferiscono chissà dove. Peccato, la città mi piaceva».
  
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