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Autore: lunax    26/04/2013    3 recensioni
Capisce che nessuno parte da zero e che lo zero degli uomini non esiste.
Corre alla finestra che si affaccia di sotto, si sporge più che può ed urla.
Urla, con la forza di un animale ferito, con la volontà di raggiungere gli avi e di dire loro che ha capito che non può scappare. Urla e spera che il fratello sia ad ascoltarla e pure la madre.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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ZERO
 
 
Ti faccio spazio dentro di me,
in questo incrocio di sguardi
che riassume milioni
di attimi e di parole.
 
Pablo Neruda

 
 
1
 
La strada era assolata.
All’interno dell’abitacolo, Valentina cantava pensando a come sarebbe stata questa volta, in cui il padre e il fratello si sarebbero trovati dopo anni, nella stessa casa, per un periodo di tempo piuttosto lungo.
Il sole era tiepido e il finestrino lo filtrava con dolcezza, bonariamente, senza imperlarle la fronte. La carreggiata era alberata e pianeggiante. Le fronde irrompevano nella fragile luce di Marzo e per un attimo la vista si oscurava, e una sottile paura del baratro coglieva Valentina che conosceva la sensazione di brivido sotterraneo e acuto.
Quando aveva dieci anni, al riparo per un istante dagli occhi vigili di Lina, si sporgeva dal parapetto della finestra di Via Poerio per raggiungere i raggi del sole sempre troppo lontani dalla sua casa, e per quell’attimo sentiva l’infinito sotto, spaventandosene, a morte - tanto da rientrare col fiato corto ma con un senso di vita raramente consentito in quegli anni. Dovette fermarsi per un gregge di pecore che spuntò all’improvviso dietro una curva. Non interruppe però i suoi densi pensieri, andando veloce a un pomeriggio di venti anni prima quando sulla stessa strada per la campagna  la stessa cosa accadde d’inverno. La madre Lina cantava immersa al posto di guida, attenta a ogni tornante e dosso, il padre contrito e muto, il fratello assente nell’indistruttibile quiete apparente guardava fuori e Valentina lo scrutava sottecchi per capire e custodire un segreto nascosto dietro l'angolo dell’orecchio, vicino al finestrino.
Era arrivata al bar dei salumi, si fermò, posteggiò alla meglio e si diresse diritta al banco dove ad attenderla, secondo un antico rituale, il signor Mario con i baffi più corti del solito le sorrise a denti larghi e le diede il benvenuto.
“Bentornata signorina Valentina, come sta? Diretta alla villa su a Pratora?”
“Si. Come al solito, .. e Donara?”, il viso del signor Mario si fece rapido, scuro e compunto. Apparvero intorno agli occhi i segni, piccoli ma profondi, del tempo già trascorso - di cui Valentina non si era accorta prima.
Aspettava.
“Me l’hanno portata via..”.
Che vuol dire? Valentina avrebbe voluto chiederlo subito, avrebbe voluto spiegazioni su quell’espressione vaga ma abbagliante. Restò in silenzio però, come colpita all’improvviso da un fendente in pieno volto. Le venne da fare la pipì, ma la trattenne. Si fece caliginosa e piccola. I suoi capelli lunghi e compatti delineavano la nera figura pure fulgida contro il bagliore che arrivava limpido dalla fenditura d’ingresso. “All’ospedale, in giugno..”
“Nella notte di giovedì aveva avuto un malore, diceva di avere mal di testa, ..e di vedere doppio. La mattina siamo andati al pronto soccorso più vicino. Ci hanno detto che forse era per la stanchezza, per via dei lavori del locale, della ristrutturazione..”
”E’ morta due giorni dopo. Era da sola, in camera da letto - attendendo che finissi di dare il blu a quella parete lì in fondo. La vede Valentina..? La parete, dico, la vede..?”
Valentina riemerse da lontano, e piano  risentì parlare la sua voce, dire che sì, la vedeva, e complimenti per i lavori, ma non poteva crederci, che Donara se ne fosse andata...
E se ne andò, salutando il signor Mario con un affetto distante, in un modo che non voleva assorbire il dolore che esalava dal viso e dalla bocca, che invece cercavano un gesto di amore, un gesto che venisse da lontano, da un passato di gioia e di vita, da un passante conosciuto e inconsueto che può portarti indietro, con la forza eccezionale e preziosa  dello sporadico.
Se n’era andata.
Nella macchina già ripartita e sulla strada per il villaggio non riusciva ad afferrare, a realizzare  che Donara, la signora russa con l’accento calabrese della sua infanzia, se ne fosse andata per sempre. Quell’immagine sempre cara, quel porto quieto di sorrisi accomodanti era morta di meningite fulminante.
Fulminante. Così aveva detto Mario, il signore coi baffi neri neri di quando era piccola e poi grigi e poi bianchi, il marito di Donara, che di nascosto la faceva salire nella casina bianca – quando i suoi discutevano con Mario  sui salumi da portare alla villa – e le riempiva le tasche di pezzettoni di Krovrizka, la sua torta  fatta in casa  e che aveva un sapore straniero. Che era coperta da fili di glassa intensa ed effondeva odore di cannella e chiodi di garofano, che, quando Valentina non aveva le tasche, infilava in buste di carta antica di un colore giallastro che sembrava quella del pane e che veniva certamente da lontano, da un Paese diverso e più duro, dalle mani di persone abituate a spugne da bagno spente e  ruvide, da un’igiene avvezza a una carta zotica come foglie di campo. E non le aveva più viste da nessuna parte. Profumavano di nuovo e di pace.
Era il loro segreto. Era il suo solo adesso e Valentina non avrebbe più potuto spiegarne la profonda libertà e bellezza.


  
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