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Autore: E m m e _    27/04/2013    3 recensioni
Per secoli è stata tramandata l’esistenza di un’entità buona e di una malvagia.
Ed una volta era così:
Lucifero e Dio, l’eterna lotta tra il Bene ed il Male.
Ma ora non più.
Eravamo abituati a parlare di Dio come una presenza buona, genuina.
I nostri genitori, i nostri amici, preti e suore
ce lo hanno presentato come la Salvezza.
Ma si sbagliavano, si sbagliavano tutti.
Perché è a causa sua che la più grande di tutte le guerre si è abbattuta sulle nostre terre, sulla nostra gente.
E sta cercando i suoi Angeli, tra noi, quelli che lo hanno tradito, che lo hanno oltraggiato nel nostro mondo…
E se anche tu pensavi che Dio ti avrebbe risparmiato, ti sbagliavi.
Ora né Dio né nessun altro potrà salvarci.
STORIA SCRITTA A DUE MANI DA MIRIANA (ME) E ANGELICA (ENGI)
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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Capitolo 2 (SCRITTO DA MIRI -ME) :
Un’immagine nell’oscurità
 
La luce del Sole filtrava dal vetro della finestra con tal forza da far divenire anche la polvere simile a frammenti di luce chiara e pura che si disperdeva tra i raggi.
Ed io gli guardavo, ammirata, mentre il loro volo finiva tra le ombre proiettate dagli oggetti della stanza.
-          Hariel?
La donna dai lunghi capelli biondi invase la mia visuale.
Era Bernadette, la nostra domestica; era lei che mi svegliava ogni mattina per consumare la colazione, un atto sacro nella mia famiglia, uno dei pochi pasti che ci univano tutti insieme in un’unica stanza.
-          Cosa mangiamo? Toast? Uova? Frutta?
Il mio tono parve stranamente autoritario, e immediatamente me ne scusai.
Bernadette e le altre facevano parte della famiglia, proprio come me e Gabriel.
-          Non so, piccola. Prova a chiedere di sotto.
Mi alzai dal letto, tentando di disfarlo il meno possibile.
Lanciai un’occhiata alla mia immagine riflesso nello specchio: i lunghi capelli biondi e lisci erano arruffati e stranamente gonfi, gli occhi color del mare parevano stanchi e incerti, e per non parlare della pelle più pallida del solito.
Non si preannunciava una bella giornata…
 
-          Hariel? Mi faresti un favore, tesoro?
Bernadette strinse con forza la piccola maniglia dorata del cassetto della mia stanza, evidentemente bloccato. Mi avvicinai alla domestica, ma quest’ultima mi fermò.
-          In cantina c’è un cacciavite nuovo, lo andresti a prendere? Ti prego, sono decisamente indaffarata qui!
Annuii, senza dire una parola, poi uscii dalla grande stanza da letto che i miei genitori mi avevano riservato. Per un attimo, lasciare quelle mura bianche, le grandi finestre di vetro sottile, i miei giochi dell’infanzia, la mia foto con Gabriel sul cassetto, mi lasciò un grande senso di vuoto, e non capivo il perché.  Misi la mano sullo scorri-mano mentre scendevo sulle alte scale a chiocciola.
Dalla metà degli scalini riuscivo ad intravedere la porta della cantina, l’unica di materiale diverso dal legno. Passai rapidamente sugl’ultimi scalini di marmo, correndo poi verso la porta, attenta che nessuno mi vedesse.
Non ero mai scesa in cantina, i miei genitori mi avevano sempre proibito il piacere di scendere nel buio tremulo della stanza, inondandomi dall’odore delle cose dimenticate e però cercate da chissà quando. Con la mano sfiorai la superfice liscia e fredda della porta d’acciaio, poi le mie dita scivolarono sulla maniglia. La girai una, due, tre volte, poi finalmente si aprì, senza fare alcun minimo rumore. Mi lanciai un’ultima occhiata alle spalle, poi entrai chiudendomi la porta alle spalle. Le mie dita scivolarono sulle pareti circostanti, cercando un interruttore, ma tutto ciò che trovai fu una piccola torcia legata di fianco alla parete ruvida.
Dopo vari tentativi si accese, lanciando un fascio di luce davanti a me.
Respirai profondamente e andai avanti a passi lenti, fino ad arrivare a due grandi scrivanie, munite di spessi strati di polvere grigiastra e cassetti di legno chiaro.
Aprii uno dei cassetti e, al primo tentativo, trovai il cacciavite che cercavo, posto sopra vari fogli ingialliti dal tempo. Improvvisamente, il mio cuore prese un ritmo irregolare, sentendo il sangue pulsare nelle dita, fino ai polpastrelli che intanto sfioravano il materiale cartaceo.
Lasciai che il cacciavite ricadesse nel cassetto mentre illuminavo con la torcia le parole segnate in grassetto sui fogli chiari.
“25 dicembre 1995.”
Le parole erano come parlate nella mia mente, gridavano, si insinuavano scaltre e oscure.
“Hariel Sangreal, Parigi.”
Il mio nome? Quella data? Che cosa volevano dire? Io non capivo. E se fosse stato il mio…
Non riuscivo a crederci.
Ma quel cognome? Quel giorno? Parigi? Era tutto così sbagliato, diverso.
“Sophia Martinique e Nicolas Sangreal.”
Mi venne una fitta al petto, forte come un tuono che precedeva la tempesta.
-          HARIEL! HAI FATTO?
La voce di Bernadette mi scosse mentre i miei occhi tremolavano di qua e di là nella cantina.
L’odore di polvere e di vecchio divenne, ad un tratto, nauseante, quasi quanto il pensiero di quel posto dimenticato dalla luce del Sole e dal calore della cura umana.
-          HARIEL!
Quella volta fu la voce di mia madre a richiamarmi, ma ero certa che non sapesse che ero lì giù.
I fogli mi caddero di mano, mentre il mio cuore batteva all’impazzata.
“Nata alle 23:59.”
E anche se sentivo di dover andar via di lì, non riuscivo a staccare gli occhi di dosso a quelle carte, illuminate leggermente dalla luce della torcia.
Un ultimo grido, un ultimo richiamo, poi lasciai cadere la torcia a terra. Questa emise corti fasci di luce, poi si spense del tutto, lasciandomi sola ed immersa nelle tenebre.
Scattai in avanti, cercando nell’oscurità la fragile figura della porta illuminata dalle luci della sala che la precedeva. Corsi fino ad essa poi, nel panico, cercai la maniglia. Appena la trovai, iniziai a girarla per tre volte, poi la porta si aprì ed io mi catapultai fuori, il respiro affannoso.
Il mio passo si fermò quando, avanti a me, trovai Gabriel, gli occhi dorati che mi guardavano con sorpresa.
-          Ehi, che cos’è successo? Ti cercavamo tutti per la notizia…
Lo guardai, gli occhi che affondavano nelle lacrime, i respiri che si confondevano tra loro.
Mi asciugai le lacrime, tentando in tutti i modi di regolare il mio respiro o il battito del mio cuore, ma mi fu impossibile.
-          Quale… Quale notizia?
Il mio respiro tremolò tra le labbra, mentre il suo sguardo percorreva il mio viso.
-          Eri in cantina? Quante volte dobbiamo dirti che…
Il mio sguardo scivolava sul pavimento, terrorizzata e leggermente imbarazzata di essermi fatta scoprire così in fretta. Lo presi a braccetto poi gli sussurrai:
-          Non dovevamo scoprire una notizia? Su, su, andiamo!
E Gabriel non si oppose…
 
 
-          L’esercito?!? 
Mia madre si alzò di colpo dalla sedia, gli occhi pieni di una strana rabbia mista a confusione.
Gabriel annuì, lentamente, gli occhi chiusi e le labbra leggermente schiuse.
-          Io… Io non capisco. Perché?
Non avevo mai visto mia madre così furiosa.
Eppure quando guardavamo la televisione e ci capitavano scene di eserciti pronti a scaturire anche la pace, i suoi occhi erano sempre stati gonfi d’orgoglio!
-          Tu non ci andrai! Non ci pensare neanche!!!
Lei distese l’indice, indicando il viso di mio fratello. Nella mia mente quelle varie immagini si mixavano con quelle della cantina: i fogli, le parole, i nomi, le date, tutto era così confuso nella mia mente…
-          Sapevo che avresti detto così, mamma…
Gabriel si alzò, le labbra serrate, poi si voltò verso nostro padre, serio.
-          Papà dille qualcosa!
Ma neanche lui disse nulla per salvarlo. Il ragazzo, allora, si voltò verso di me, ma anch’io, come il resto della famiglia, tacqui.
Gabriel emise un verso simile ad un sospiro misto ad un borbottio, poi si alzò di scatto, ribaltando la sedia. Il forte rumore mi fece sussultare, come il tuono che mi aveva sempre spaventato nella mia infanzia, nei giorni di tempesta.
-          Gabriel…
Mi alzai, ma lui stava già uscendo dalla stanza…
 
 
Correvo per le strade, la luna mi illuminava la via e l’aria fredda mi pizzicava le guance, arrossendole leggermente.
Chiamai a gran voce mio fratello, ma nessuno rispose.
E nonostante non fosse molto tardi, la città sembrava deserta.
-          GABRIEL!
Ma quella volta non seguì il silenzio, ma il suono di qualche passo, il rumore di qualcuno che si avvicinava, scaltro. Mi voltai, e solo un’ombra si mosse sulla strada.
Mi rivoltai verso la direzione primaria, un groppo in gola, le dita che tremavano per il freddo.
-          Gabriel?
Quando anche quella volta alla mia richiesta seguì solo il nulla, ripresi a correre.
A quell’ora le strade sembravano tutte uguali, gli alberi proiettavano maestose ombre lungo l’asfalto, la luna illuminava i miei passi e il vento cantava una malinconica melodia tra le foglie e le case.  E poi, improvvisamente, tutto scomparve se non le alte mura di qualche palazzo abbandonato già da tempo.
L’odore aspro della spazzatura s’insinuò nelle narici, fermando la mia corsa. 
Le grandi buste nere facevano da ingresso ad uno strano vicolo che, anche se ero certa di non aver mai percorso, mi pareva più che familiare.
E poi un’immagine: una donna che correva rapida, i suoi abiti sporchi di sangue.
E poi di nuovo la strada vuota.
Sussultai e mi guardai intorno; nessuna traccia della donna ferita.
Mi addentrai nel vicolo, sentendo i miei passi riecheggiare nell’aria gelida della sera.
E poi di nuovo ancora: la donna sfiorò il viso della bimba, poggiandola sui sacchi scuri, e poi di nuovo riprese a correre, fino alla fine del vicolo, appoggiando la schiena sul muro di mattoni.
Battei le ciglia e tutto tornò alla normalità.
Sentivo il cuore battere, il respiro diventare man mano più affannoso, la paura e la confusione divennero parti integranti della mia mente…  Respirai e mi avvicinai alla parete di mattoni, che sembrava consumata dal tempo. Sfiorai piano i mattoni, sentendo i polpastrelli scorrere con difficoltà sulla superficie ruvida.  E poi un ultimo flash: uno sparo, la donna che cadeva a terra, ancora viva, e dopo le sue dita, tremanti e sporche di sangue, contro la parete, incidendo parole ben chiare: “02041996 - IL PARADISO E’ CADUTO NEGLI INFERI.”
Sfiorai piano il punto dove, diciassette anni prima, v’erano le scritte scarlatte e liquide.
-          Hariel?
Mi voltai, gemendo, le dita contro le labbra tremanti, gli occhi rigonfi di lacrime amare.
Gabriel corse da me, e mi strinse forte, la mia testa che affondava contro il suo petto caldo.
-          Lei ha avuto la Visione…
Una voce nuova ci fece sussultare, facendoci voltare verso l’entrata del vicolo.  Un’ombra ci osservava da lontano… 
   
 
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