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Autore: Joan Douglas    30/04/2013    10 recensioni
Hai presente quando vai in libreria e, per riaparmiare soldi, richiedi libri usati? All'inizio può darti quasi fastidio che quel libro sia passato nelle mani di un altro. Ma se imparassi ad apprezzare gli appunti a bordo pagina? Se salvassero la tua povera vita da studentessa delle superiori, in una nuova città?
E se fossi talmente cusriosa da voler scoprire di chi fosse, in realtà, quel dannato libro di trigonometria?
«Ehi, Ciuffo» disse una voce, interrompendo i miei pensieri. Chiusi il libro di scatto e lo nascosi in cartella. Non volevo fare la figura della secchiona davanti a OcchiBelli.
«Ciuffo?» ripetei, un po' sorpresa dal rivederlo lì, in quel posto dove l'avevo conosciuto.
Si sedette accanto a me, con eleganza. Indicò la mia ciocca di capelli colorata di verde petrolio. Era nuova, l'avevo fatta da poco. «Sì, Ciuffo.»
Sorrise maliziosamente e io non potei che ricambiare. «Okay, OcchiBelli» risposi, per fargli notare che non era stato l'unico a dare un soprannome.
«OcchiBelli?» Sgranò gli oggetti in questione.
Glieli indicai, con fare ovvio. «Sì, OcchiBelli.»

~
Ad Alessia e alla sua non-sanità mentale, ti adoro, pazza!
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alice Cullen, Charlie Swan, Jessica, Mike Newton | Coppie: Bella/Edward
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
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OcchiBelli e Ciuffo
#5. The first 'I love you'

 

Il cellulare vibrò per l'ennesima volta.

 

Bella, vuoi rispondermi? Capisco che puoi essere scioccata per quello che hai sentito, ma mi devi ascoltare.

 

Lo ignorai. Ma di nuovo il ronzio mi disturbò nel mio tentativo di rilassarmi.

 

Bella. Rispondi. A. Questi. Fottuti. Messaggi.

 

Ebbi l'impulso di lanciare il cellulare fuori dalla finestra, con stizza, mentre sospiravo di sollievo. Ma non feci in tempo ad attuare il mio piano che il cellulare emise la suoneria dedicata alle chiamate vocali. Ignoralo, Bella, ignoralo.

Andavo avanti così dal pomeriggio precedente, quando ero scappata di corsa via dalla scuola, via da Edward. Dalla realtà. Sì, perché lui ricambiava i miei sentimenti ed era anche consapevole della mia cotta. Ma mi trattava come un'amica. Mi trattava così - ora lo capivo - perché non voleva cominciare una cosa che sicuramente non si sarebbe conclusa bene. Tutto per colpa dei suoi studi futuri. Aveva paura che rimanessi ferita io, ma anche lui stesso. E nonostante fosse un grande gesto di altruismo da parte sua, ero arrabbiata. Non poteva scegliere per entrambi.

Meglio soffrire avendo conosciuto la felicità, che soffrire per un semplice gesto d'altruismo non voluto. Ma questo lui non lo capiva a quanto pareva; aveva scelto per entrambi, e io ero stata troppo stupida per non avergli detto quello che provavo subito. Stupida, stupida, stupida.

Qualcuno bussò alla porta. Per fortuna che avevo chiuso a chiave e per fortuna anche che era sabato e non ero costretta a vedere i miei. Non mi andava che mi chiedessero come mai avevo gli occhi rossi e gonfi, chiaro segno del passaggio del pianto. Sì, avevo pianto. Per frustrazione, rabbia, rammarico. Amore, anche, se volete.

Le cotte adolescenziali sono le peggiori, è vero, ma innamorarsi è peggio. Soprattutto se ti accade con persone come Edward.

Edward. Ma quanto era orecchiabile il suo nome? Sembrava un insieme di assolo di chitarra elettrica, così aggressiva e frizzante, e di scampanellii dolci e quieti. Dolcezza e passione. Oddio... ma era possibile fare delle riflessioni del genere?

«Bella?» mi chiamò mia madre da dietro la porta. «Bella, apri immediatamente questa porta e non mi ignorare!» Feci esattamente l'opposto di quello che mi aveva detto. Mi aveva disturbata ben tre volte la sera prima e stamattina due - contando anche questa.

«Oh, Isabella, apri! C'è un ragazzo fuori che non fa che bussare e chiedere di te! Fra un po' butta giù la port...» Non fece in tempo a finire la frase che con un balzo scesi dal letto e aprii frettolosamente la porta di camera mia.

Renèe mi guardava con un sopracciglio alzato e uno di quegli sguardi di sufficienza che odiavo. Chissà cosa stava pensando. Probabilmente una cosa come "Ecco! Ce ne siamo andati via da Forks proprio perché lei non facesse più amicizie pericolose e ora esce con un ventenne poco di buono?" Pff, patetica. Lei non sapeva niente. Era bigotta e insopportabile con i suoi pregiudizi.

«Digli che Bella Swan non c'è. Digli che non rompa le palle» ordinai, con tono arrabbiato. Probabilmente Alice aveva detto a Edward dove abitavo, e ora me lo ritrovavo anche sotto casa a fare da avvoltoio a camera mia. Ero sotto assedio.

Feci per chiudere la porta, ma una sua semplice sillaba mi bloccò: «No.» Scosse la testa. decisa.

«N-no?» Non me lo voleva fare mica affrontare vero?

«Proprio così.» Prese un profondo respiro, come a prepararsi di un lungo ed importante discorso. Mia madre che faceva discorsi lunghi ed importanti? «Per due motivi. Il primo è che se non glielo dici tu di persona che non vuoi essere disturbata, quello butta giù veramente la porta.» Degluitii, improvvisamente spaventata dal suo tono autoritario. «E il secondo è che non puoi scappare dalle tue responsabilità, Isabella.»

Restai di stucco, immobile ancora sulla porta semiaperta. «Le mie... responsabilità?»

Lei annuì, corrugando la fronte. «Bella... è chiarissimo che i tuoi occhi rossi e quel ragazzo là fuori sono collegati» chiarì con tono vagamente dolce, al quale non riuscii a credere. «Perciò fila» mi ordinò, questa volta usando lo spirito da generale che c'era in lei. Tirai un sospiro di sollievo: mia madre dolce faceva ancora più paura di quella autoritaria.

Con passi lenti mi avviai alla porta. Il cuore sembrava che mi volesse uscire dal petto. Non ero pronta per affrontarlo. Per affrontare i nostri sbagli. Ma Renèe per una volta aveva ragione: dovevo affrontare il problema e non scappare e fare la codarda di sempre.

Renèe mi seguì con lo sguardo per poi scomparire in cucina.

Guardai con circospezione la porta di casa che era scossa da violenti pugni. La porta tra Paradiso e Inferno; anche se non capivo quale fosse l'uno e l'altro.

Aprii la porta e lo vidi.

Indossava una camicia azzurra - quella del giorno prima, constatai con stupore - fuori dai pantaloni, stropicciata. Mi ricordava l'effetto che avevo creato volutamente per il mio costume da Jocker. La postura di Edward era curva, come se fosse troppo per lui sopportare tutto quel peso immane. Che credeva, che io non stessi soffrendo? Nella mano destra teneva il cellulare, quello con cui mi aveva mandato una cinquantina di messaggi tra ieri e oggi.

Lasciai il viso per ultimo, sapendo che era senza dubbio la parte migliore di lui, nonostante fosse stralunata.

Le labbra erano ferme in una linea dritta, dura, e le sue guance erano ricoperte da un velo di barba in più a quello che ero abituata a vedere. Ma la cosa che mi stupì di più furono i suoi occhi, le uguaglianze tra di noi: entrambi avevamo un'espressione distrutta, gli occhi gonfi. Era chiaro che anche lui non stesse bene, come me.

«Perché non rispondi ai messaggi e alle chiamate?» mi chiese, trattenendo la rabbia.

Strinsi i pugni. Era strano vederlo arrabbiato con me, ma quella giustamente arrabbiata ero solo io, non lui. «Perché non mi andava di sentire le tue spiegazioni del cazzo. Ho capito: hai scelto per entrambi» gli sputai tutto quello che provavo in quelle poche parole.

Si mosse nervosamente sul posto, torturandosi i capelli ramati; un ciuffo gli ricadde sulla fronte. «Okay, Bella. Hai ragione, non avrei dovuto farlo, ma non credi che sia meglio... così?»

Sgranai gli occhi. «COSA? Tu sei un autolesionista per caso? Preferisci stare male che bene? Preferisci la sofferenza alla felicità? Preferisci vivere nel rimorso, senza sapere quello che avresti potuto provare?!» Gli puntai un dito contro, sorpassando lo stipite della porta. Con la punta dell'indice toccai la stoffa della camicia rovinata. «Preferisci-» Mi tappò la bocca con una mano, e mi fece scontrare contro il muro del pianerottolo, intrappolandomi contro di lui.

A un tratto quel luogo anonimo, dalle pareti rovinate e crepate, mi parve nulla in confronto ai suoi occhi ostili.

Disse solo questo: «No. Ma soffriremmo solo di più se ci lasciassimo andare ai sentimenti.» Socchiuse gli occhi, e vedendo che non mi opponevo più alla sua stretta mi mollò. Fece male. La mancanza della pressione delle sue mani sulle mia braccia, mi ustionò come avevano fatto le sue parole. «Bella, io partirò per l'università. Non voglio cominciare una cosa che sono sicuro non continuerà, anzi, finirà certamente.»

Scossi la testa, trattenendo le lacrime. Cazzo, mi dovevo solo calmare e ritornare in me. Già, ma dov'era finita la me che non si faceva trascinare dai sentimenti?

«Io non la penso così, Edward. Meglio un periodo breve ma intenso, che proprio niente.»

Abbassai lo sguardo e su di noi calò un silenzio pressante.

«Ma se tu non vuoi, allora è inutile.» Camminai verso la porta socchiusa. «Ti dico solo una cosa: io sarei resistita, sei tu quello debole, cazzo.» Ero stata troppo tempo senza dire una parolaccia.

Chiusi la porta senza guardarlo e mi aggrappai alla sua superficie liscia, per poi ricadere sul pavimento. Mi sembrava di essere caduta tra le pagine melodrammatiche di un romanzetto rosa.

 

***

 

Ma tutte le ragazze della mia età erano così tanto cotte di un ragazzo? Sbandata, farfalle allo stomaco, punto fisso nella testa, lacrime... non c'erano punti favorevoli.

Ne sei proprio sicura?

La mia testa, ancora stordita dal mal di testa, si riempì di immagini diverse tra loro, ma con un unico punto in comune: il suo sorriso. Noi due in centro; io mi ero provata un cappellino con visiera, troppo grande per la mia testa, mi era caduto sugli occhi, lasciando alla vista solo la punta del naso; lui aveva riso. Quel pomeriggio in cui ci eravamo vendicati su Greene, imbrattando il pavimento, davanti alla presidenza, di olio, e lo avevamo visto scivolare, verso il bagno delle ragazze, urlando impaurito; lui aveva riso. Quella volta di appena una settimana fa, in cui avevo sbraitato contro una gomma da masticare perché non riuscivo a staccarla decentemente dal banco, lui mi aveva sorpresa; e aveva sorriso.

E il suo sorriso era la fine del mondo.

Poi però mi balenò in testa un'altra sua istantanea: i suoi occhi vitrei, carichi di rabbia. Le sue labbra tese che, di certo, non esprimevano alcun tipo di felicità.

Insomma cominciavo a credere che quello che provavo non fosse una semplice cotta adolescenziale, anche perché non riuscivo a togliermelo dalla testa, a distanza di una settimana dalla nostra ultima discussione. Sette giorni, sei ore, ventitré minuti e... qualche secondo, non avevo voglia di controllare.

«Devo solo dimenticare» sussurrai tra me e me, mentre camminavo da sola per le strade affollate di San Francisco.

Mi calai sugli occhi gli occhiali da sole scuri, per coprire le occhiaie evidenti.

Non avevo una meta precisa, volevo semplicemente evitare di stare a casa. Camminare per San Franciso, poi, ultimamente lo trovavo molto piacevole e rilassante: tutta quella gente gentile, affabile. Ero passata dall'odiare quella città, all'amarla.

Attraversai la strada, facendo attenzione alle auto.

Passai attraverso una via interna, per poi spuntare in Union Street. Dio, ma perché non facevo caso ai miei piedi che inevitabilmente mi portavano in un luogo che mi ricollegava a lui?

«Dannazione» sbottai contro me stessa.

«Ehi, tutto bene?» mi chiamò una voce profonda.

Mi girai di scatto, spaventata, ritrovandomi di fronte un ragazzone alto e imponente. Probabilmente aveva sentito che parlavo da sola e si era chiesto se fossi nelle mie piene facoltà mentali. Aveva un aspetto familiare.

«Scusa, non volevo spaventarti.»

Scossi la testa, un po' sorpresa. Avevo capito chi fosse. «Ehm... no, non fa niente.» Rimasi un attimo a fissarlo prima di avere il coraggio di porgli la domanda che mi premeva. «Tu sei... Emmett McCarty, vero?»

Il ragazzo aggrottò la fronte, per poi illuminarsi improvvisamente. «Oddio, e tu invece sei Isabella Swan!»

Risi leggermente, sentendo la sua sorpresa nella voce. Ero un po' imbarazzata.

«Wow, non avrei mai creduto che una ragazza di sedici anni avrebbe potuto far perdere la testa al mio migliore amico» commentò, con un fischio. E a quanto pare ha fatto lo stesso con me, Emmett.

Sì, Emmett era il migliore amico di Edward. Me ne aveva parlato in uno dei tanti pomeriggi che avevamo passato insieme, e mi aveva fatto vedere anche una foto. A quanto pareva Edward aveva fatto la stessa cosa con una mia foto.

«Perdere la testa?»

«Povera piccola bimba» rispose, con tono bonario, accarezzandomi la testa come si fa, per l'appunto, con i bambini. «Dovresti vederlo in questi giorni. È ridotto piuttosto male.»

Fu il mio turno di non capire. «Aveva solo da dirmi che voleva stare con me, senza complicarsi la vita» risposi, chiaramente.

Annuì. «Sì, sono completamente d'accordo con te.»

Lo guardai scioccata. Non era il suo migliore amico? E come tale non avrebbe dovuto sempre appoggiarlo?

«Non guardarmi in quel modo, ti prego. Conosco Edward e... ma ti va se ci spostiamo in un bar?»

Entrammo in un bar, per poi sederci a un tavolo abbastanza isolato. Ordinammo un bicchiere d'acqua per me, e un cappuccino per Emmett. Era davvero carino, mi piaceva. Appena l'avevo visto avevo creduto che fosse una di quelle persone che non vedesse l'ora di cominciare a fare a botte per ogni cosa possibile e inimmaginabile - ecco perché si sarebbe ritrovato con Edward, in parte -, ma adesso che ci stavo parlando, capivo che aveva un cuore tenero.

«Che stavi dicendo?» Ero interessata; forse c'era ancora una possibilità per noi?

«Sai, Edward è una persona che finge di essere tutta d'un pezzo, ne ha passate tante. E una cosa di cui sono certo è che non resisterà molto all'università.»

Sgranai gli occhi. Come? Quindi una possibilità c'era davvero? Scacciai subito dalla mente quel pensiero subdolo. Non potevo desiderare che mollasse solo perché io volevo che rimanesse con me.

Proprio in quel momento il cameriere arrivò con le nostre ordinazioni. Portai il bicchiere alle labbra. «Cosa te lo fa pensare?»

«Sai, forse lui non te ne ha mai parlato, ma... suo padre è un tipo piuttosto rigido, ligio alle regole, vorrebbe per i figli un futuro certo, senza se e senza ma. Ultimamente aveva deciso di non seguire i consigli del padre di fare l'università, ma poi ha cambiato improvvisamente idea. Ha deciso di non deludere il padre.» Scosse la testa. Era chiaro che non fosse d'accordo. «Credevo che dopo essersi reso conto di essersi innamor... cioè, voglio dire...» balbettò improvvisamente.

Sgranai gli occhi di colpo. "Innamor...?" «COSA? Cosa stavi dicendo?!» Era assurdo quello che avevano afferrato le mie orecchie, ma forse... no, non mi dovevo illudere. Forse era solo una sua constatazione.

«Ehm... ahi, questo non avrei dovuto dirtelo» sussurrò più a sé stesso che a me. Si grattò la nuca, imbarazzato.

Deglutii l'acqua gelata, giusto per darmi un po' di contegno. «Dimmi che ho sentito bene e che non sono pazza. Ultimamente tutto è contro la mia sanità mentale» confessai.

«Forse sei uscita completamente di senno.»

«Emmett!»

Alzò le braccia, rassegnato all'idea di tradire il suo migliore amico, e anche un po' spaventato dalla mia reazione. «Okay, okay! Hai sentito benissimo. Non hai bisogno di una visita al manicomio.»

Mi immobilizzai per un attimo, riflettendo sul significato della parola "innamorato". Mi sarebbe piaciuto saltellare per il bar in realtà, ma sentivo che non sarebbe stato esattamente il massimo, dato che ero ancora pietrificata per quella rivelazione. Innamorato. Edward era innamorato di me. E lo ero anch'io di lui probabilmente. Il formicolio allo stomaco, la consapevolezza che se avessi passato un giorno senza vederlo o sentire la sua voce vellutata, sarei stata male quasi fisicamente - come stava succedendo, appunto. Il fatto che ogni volta che posavo lo sguardo sul suo viso, non riuscissi più a spiccicare una parola sensata. I suoi occhi erano pari a una calamita. Ma come avevo fatto a non accorgermi che anche lui fosse perso come me?

Ero annegata nella speranza, ecco perché, e non riuscivo a vedere niente se non quella.

«Ripetimelo.»

«Cosa?»

«Quello che hai detto prima» gli suggerii, ancora lì fisicamente, certo, ma mentalmente tutt'altro.

Aggrottò le sopracciglia, forse chiedendosi davvero se fossi uscita di testa. «Lui è innamorato di te. Innamorato perso. Ma sa anche che tu sei ancora piccola e che non puoi ricambiare come si deve. Pensa che sia una cotta passeggera.»

Okay, ora l'unica cosa che fui in grado di fare fu quella di saltare sulla sedia, indignata. Non potevo ricambiare perché ero troppo piccola?! Mi alzai dalla sedia e mi misi di fianco alla sedia di Emmett, con passo ancora deciso. «Glielo farò vedere io se sono in grado o no di ricambiare. DIGLIELO!»

Mi guardò spaventato. Mi sentivo davvero la personificazione della bipolarità in quel momento. Poi annuì, una gocciolina di sudore gli scorse lungo il collo.

Proprio in quel momento mi vibrò una coscia. Sobbalzai; ultimamente ero davvero nervosa, ogni cosa mi spaventava. Presi il cellulare dalla tasca, sotto lo sguardo curioso di Emmett, che si era ripreso momentaneamente dal mio attacco d'ira. Di sicuro non era un messaggio di Ed: non me ne aveva mandato uno dal nostro scontro.

E invece mi sbagliavo.

 

Ciao, Bella.

Ti scrivo per dirti che ho trovato il proprietario del tuo libro di trigonometria.

 

«Oh cazzo» esclamai, mentre leggevo. Continuai.

 

Gli ho detto che lo volevi incontrare, così mi ha proposto di vedervi stasera alle 21.00, al Midnight Sun. Ho bisogno di una tua conferma, ci sarai?

E.

 

«Oh. Cazzo.»

Emmett si alzò dal suo posto e lesse il messaggio, non capendo che mi stesse succedendo.

«Il proprietario del libro di trigonometria? Cosa? Di che sta parlando? Siamo sicuri che ha ancora tutte le rotelle al proprio posto?»

Digitai in fretta la risposta. Non sapevo neanch'io che cosa mi avesse spinta a farlo, dato che ormai era tutto inutile. Forse la curiosità e la voglia di una serata divertente per svuotarmi da ogni emozione negativa, per affrontare Edward al meglio. Sì, presto lo avrei affrontato.

 

Certo che sì. Digli che sarò puntuale e gentile con lui. Al contrario di qualcun altro.

 

Non rispose.

 

***

 

Alle 20.45 ero già fuori dal locale.

Ero la curiosità e il nervosismo fatti a persona, stavolta. Anche schizzata, volendo.

Il mio intento iniziale era stato quello di distrarmi da Edward, chiedendogli del libro, e anche se ora non ne avrei tratto alcun profitto - dato che ormai ero... innamorata -, ero interessata di scoprire davvero chi mi avesse aiutata con trigonometria. Chissà, forse mi avrebbe aiutata in qualcosa, forse mi avrebbe distratta sul serio.

Guardai, a disagio, il riflesso della mia figura su una vetrina. Mi ero messa un vestitino e non potevo ancora credere ai miei occhi.

Forse il mio subconscio legava il mio essere maschiaccio, priva si femminilità, a Edward e al fatto che gli piacessi - e qualcosa di più - anche se fossi uscita con lui in pantaloncini e maglietta. Ecco, almeno per quella sera volevo scordarmi di questo particolare e dimenticare i miei difetti che lui apprezzava così tanto.

Con mani tremanti stirai il vestito, per coprire più porzione possibile di coscia. Il tessuto bordeaux tirò leggermente.

Avevo indossato un abitino di quel colore, che mi arrivava poco sopra le ginocchia, ma io mi sentivo comunque scoperta, perciò mi ero infilata degli shorts che sarebbero passati sicuramente inosservati per tutta la sera. Il tessuto cremisi mi avvolgeva delicatamente, mettendo in risalto quelle curve che mai avrei pensato di avere, sempre nascoste sotto le magliette scure, e larghe che tanto amavo. Due lembi si incrociavano dietro il mio collo, lasciando almeno metà della schiena scoperta.

Mi percorse un brivido. Perché quel pomeriggio ero uscita a fare shopping proprio con mia madre?! Ah, già: Alice era incazzata nuovamente con me. Diceva che avrei dovuto dire chiaramente a Edward cosa volevo e non tra le righe, dato che - testuale - "gli uomini non riescono ad arrivare a cose dette in mezzi termini".

Eppure io mi ero espressa benissimo con lui.

Il tutto era completato da del trucco cupo, che mi copriva le palpebre e metteva in risalto i miei occhi e l'incarnato pallido, secondo mia madre. Sembrava strano che parlassi con mia madre? Sì, lo era, ma era stata anche l'unica che in qualche modo mi aveva sorretta dopo che ero tornata a casa quel pomeriggio ed ero scoppiata in lacrime. Di nuovo.

Con passo traballante - pur avendo indossato delle zeppe - entrai nel locale. Sì, per una che non aveva mai portato scarpe con il tacco ma solo anfibi e All Stars, era un vero dramma.

Mi feci spazio tra la folla urlante. L'ultima volta che ero entrata in un locale era stato con Alice, era passato circa un mese, ma la cosa non mi mancava. In quel periodo mi ero interessata a ben altro piuttosto che fare casini in discoteca come mio solito.

Edward, dieci minuti dopo il mio messaggio, mi aveva detto che il ragazzo - perché era un ragazzo, ci avevo azzeccato - avrebbe indossato un borsalino, stile anni sessanta. Chiaramente era uno di quei cappelli che nessuno indossava più, quindi sarebbe stato facile notarlo se non fosse stato per tutta quella gente che non faceva altro che darmi sui nervi. Ecco: ero cambiata anche in questo. Pazzesco.

«Ehi, cerchi qualcuno in particolare?» mi urlò all'orecchio un ragazzo, per sovrastare la musica assordante, con due bicchieri di vodka e coca tra le mani. Me ne porse uno e mi fece l'occhiolino.

«Veramente sì» risposi con tono monocorde. Era davvero bello, niente da ridire. Ma non era Edward.

Ma evidentemente il ragazzo non mi aveva sentito. «Se non cerchi nessuno, potresti sempre farmi compagnia, eh, che ne dici?» Mi fece di nuovo l'occhiolino - cominciavo a odiarlo -, per poi avvicinarsi pericolosamente a me e cominciare a ballare a tempo di musica. Stava per allungare una mano ma gli tirai un leggero schiaffo. Oh cazzo, come mai con un miniabito si cuccava e con delle Converse, no? La mentalità dei maschi era piuttosto ottusa.

Scossi la testa. «No, ma puoi sempre usare la mano per farti compagnia.» Dicendo questo, scappai via. Gli ero comunque grata che mi avesse offerto un bicchiere di alcolico.

Trovai un angolo del locale dove poter rilassarmi e vedere l'entrata. Scrutai la folla con interesse. Ma era possibile che... mi avesse dato buca? O che Edward avesse inventato tutto per farmi fare una semplice figura di merda? Forse sarebbe arrivato un tipo con un borsalino e io, scambiandolo per il ragazzo che cercavo, gli avrei chiesto se fosse lui, e lui mi avrebbe guardato come se fossi pazza, e poi avrebbe chiamato il manicomio e...

Stop.

Mi dovevo solo calmare e tornare me stessa.

Tirai ancora la stoffa verso il basso, barcollando.

Proprio in quel momento, lo vidi.

Era alto, molto più di me da quello che potevo dedurre. Indossava una giacca in pelle nera, sotto alla quale c'era una semplice maglietta bianca che lasciava libera l'immaginazione a molte ragazze - tra cui la sottoscritta. Il suo viso, però, era oscurato in parte dal borsalino beige. Si riuscivano a vedere solo le labbra carnose, per essere quelle di un ragazzo.

La cosa più strana di tutte?

Lo conoscevo. Conoscevo quelle labbra, che l'ultima volta mi avevano riservato solo una smorfia. Conoscevo quella mascella squadrata. Conoscevo quelle mani dalle dita lunghe e affusolate. Conoscevo persino la giacca in pelle, che aveva comprato insieme a me.

Mi aggrappai al bancone del bar. Non poteva essere lui, no. Forse c'era qualcun altro con quel dannato cappello. Avrei preferito cento volte un ragazzo brufoloso a lui.

Lo sai che non è così, mi rimproverai.

Guardai la gente che ballava e si divertiva. No, non c'era nessun altro. Così mi feci coraggio, decisa a sfruttare l'occasione e consapevole che i miei buoni propositi per quella serata se ne sarebbero andati a quel paese. Bevvi quello che era rimasto del bicchiere e mi avvicinai alla sua figura.

Muoviti, fatti coraggio, Bella.

«Edward» lo chiamai, toccandogli una spalla, con dita tremanti.

Per un attimo ebbi l'impressione di stare sbagliando persona, ma non era così: col tempo avevo saputo riconoscere bene le sue spalle larghe, le sue mani, i suoi occhi verdi, felini.

«Bella...» rispose, senza neanche un minimo di sorpresa nel suo sguardo, girandosi.

In quel momento, ebbi solo voglia di saltargli al collo, di abbracciarlo, di insultarlo, per poi ammettere quanto bene gli volessi, quanto... amore provassi.

Ma non feci niente di tutto questo. Fissai il libro rovinato nella sua mano destra, lasciata a penzoloni. «Sai, forse in qualche modo lo sapevo già.» Ed era vero.

Ripensai a quando aveva scritto il suo numero di cellulare, a mano, su un post-it per poi darlo al preside. Quella scrittura, capii solo in quel momento, la conoscevo; ce l'avevo avuta sempre sotto gli occhi. E capii anche perché Edward non avesse mai scritto qualcosa a mano in mia presenza.

Per un attimo, mi squadrò da capo a piedi. Oddio. Perché mi ero vestita in quel modo ridicolo?! In quel modo che non mi si addiceva per nulla. Ma la sua reazione fu inaspettata: posò lo sguardo sul mio viso, per poi sfiorarmi la spalla scoperta con le dita. Non era una carezza, era proprio uno sfioramento leggero, eppure il mio corpo fu invaso da dei brividi, le farfalle si risvegliavano.

Deglutì. «Che fine hanno fatto gli anfibi e la giacca in pelle?» chiese infine, forse cercando di distrarsi. E lo credevo bene. Ero un mostro in confronto a lui. Eppure lui... mi amava. Improvvisamente mi resi conto di quanto fosse incasinata la nostra situazione. Prima cosa: io ero minorenne, lui maggiorenne. Sarebbe stato contro legge. Non che me ne fossi fregata mai più di tanto, ma in quel momento appariva tutto diverso.

«Perché non mi hai detto subito che il libro era tuo, Edward?» deviai la domanda con una molto più importante. Be', veniva seconda a quella in assoluto più importante.

Si tolse il borsalino dalla testa, per poi lanciarlo al barista. «Grazie per avermelo prestato» gli disse. Poi mi prese per mano, sempre con quell'espressione indecisa e le sopracciglia che quasi si congiungevano. Avrei voluto distenderle con le mie dita.

Mi condusse fuori dal locale, zigzagando tra le persone. Poi fece un fischio, chiamando il taxi parcheggiato poco lontano e, sempre con le mani congiunte, ci accomodammo nei sedili posteriori. Non sapevo dove mi stesse portando, dato che aveva sussurrato al tassista la destinazione, ma sinceramente non me ne importava più di tanto.

«Stai cercando di fare il romantico, per caso?» domandai. Forse avrei dovuto reagire, fare qualcosa di molto più importante - come per esempio dirgli tutto quello che provavo - ma la mia testa si era stazionata su quella linea.

«Non è mai stata mia intenzione. Voglio essere me stesso ora, e non sono romantico» affermò quasi con disgusto.

Ridacchiai; in fondo ero con lui, perché non avrei dovuto farlo? Mi convinsi.

«Bene. Ci sono già io che sono l'opposto di me stessa, stasera.»

Mi fissò interrogativo. «Perché?»

Scrollai le spalle, guardando fuori dal finestrino. «Dico, ma mi hai vista? Ti sembro la ragazza che hai conosciuto mesi fa, che ti ha mandato a fanculo alla prima occasione?» dissi un po' incazzata con me stessa. Non mi sentivo a mio agio vestita in quel modo. Okay, il trucco, ma il vestito no, e nemmeno le scarpe. E il fatto che Edward mi stesse studiando ancora, mi mise ancora di più in soggezione.

Mi voltai. Ancora nessuna risposta.

Alla fine, fece il suo solito sorriso sghembo. «In effetti non mi sarei mai aspettato di vederti così. Ho fatto fatica a riconoscerti.» Allargò il sorriso, stringendosi nelle spalle. «Ma, sinceramente, non me ne importa nulla di cosa ti metti addosso, basta che rimani solo te stessa. A me piac... a me va bene così» si corresse. Perché non voleva ancora ammetterlo?

Tralasciai l'ultimo pezzo, dopotutto ero nello stato di colorito tra peperone e pomodoro. Solo lui ci riusciva, cazzo! «Ecco. Sei riuscito a mettermi in imbarazzo.»

Ridacchiò, mostrando la sua dentatura perfetta. Sì, da adolescente aveva portato l'apparecchio. «Va bene, cambiamo discorso...» propose.

«Mi dici che significa tutto questo? Perché hai sfruttato il fatto di essere il vero proprietario del libro per vedermi?» In realtà l'avevo intuito, ma volevo sentirlo dire da lui.

Sospirò. «Sapevo che non avresti voluto vedermi dopo il nostro scontro.»

«Ammetto che prima di un avvenimento di oggi, fossi decisa a dimenticare.» Si riscosse, chiedendosi cosa mi fosse successo, evidentemente. «Comunque se me l'avessi chiesto avrei accettato di incontrarti.»

Liberò un sorriso amaro. «Non ne ero sicuro, non volevo rischiare. Ho davvero bisogno di parlarti.»

«Di cosa?» Fa' che sia quello che spero io, ti prego, ti prego.

Ma proprio in quel momento il tassista tossì per attirare la nostra attenzione. «Ehi, piccioncini, siamo arrivati.»

Mi sorpresi, sentendo quel nomignolo che ci aveva affibbiato, ma poco dopo scesi dall'auto, seguita da Edward. E quello che mi si presentò davanti fu da infarto per due motivi: il primo era che non avevo la minima intenzione di fare quella camminata, la seconda fu perché i miei piedi chiedevano incessantemente pietà.

«Ehi, puoi anche chiudere la bocca» mi apostrofò Edward.

«Tu mi vuoi ammazzare per caso?»

Scrollò le spalle. «Certo che no, piccola.»

Sbattei violentemente una mano sulla mia fronte, esasperata. «Edward, siamo ai piedi di Telegraph Hill.» Continuò a guardarmi in silenzio, inclinò addirittura la testa da un lato. «Pensi che abbia voglia di farmi una camminata fin lassù? E poi adesso la torre è chiusa, di certo non ci faranno salire.»

Alzò gli occhi al cielo, per poi posarmi una mano sulla vita e spingermi leggermente. «Avere un amico che lavora lì di certo non è un male, sai» borbottò, mentre ci dirigevamo alla prima rampa di scale di quella serata. Sicuramente non l'ultima.

Telegraph Hill era nota per la vista mozzafiato che si poteva godere dalla sua sommità. Era la collina più alta di San Francisco e, arrivati in cima, si poteva salire sulla Coit Tower, una torre alta sessantaquattro metri, e ammirare il panorama di colline caotiche a trecentosessanta gradi. Certo, l'unica cosa negativa era che non c'era nessun mezzo di trasporto per arrivarci e io non avevo la minima voglia di farmi tutte quelle scale. Dicevano che era terribile.

Eppure, non appena guardai con la coda dell'occhio il mio accompagnatore, cambiai subito idea. Sì, potevo fare uno sforzo.

Piegai una gamba per togliermi una scarpa; feci lo stesso con l'altra. «Ho conosciuto Emmett, sai?» Ero un po' intimorita da quello che avrei scoperto di lì a poco.

«Davvero? E come? Oddio, che ti ha detto quel coglione?» mi chiese preoccupato. Oh, non immagini neanche, Ed. Probabilmente lo ringrazierò a vita.

«Stavo passeggiando per la città e mi sono imbattuta in lui. Non posso dirti quello che mi ha rivelato, mi dispiace.» Lo sorpassai nella scalinata, dato che si era fermato un attimo. Cercai di non far caso al dolore ai piedi e ringraziai il cielo della mia idea di mettermi dei pantaloncini sotto il vestito.

«Okay, lo andrò a chiedere al diretto interessato.»

Calò il silenzio. Ma era un silenzio diverso da quello della settimana prima. Sentivo che stavo per scoprire quello che volevo.

«Credo che tu mi debba delle spiegazioni, Ed.»

Da dietro di me, arrivò un grugnito di disapprovazione. «Tu dici?»

«Sì, davvero stavolta.»

«Avrei preferito dopo.»

«Avanti, hai la lingua, no? Usala così ci togliamo un peso.»

Continuammo e scalare i gradini sempre più ripidi. E io continuavo a ripetermi perché mi avesse portata proprio lì quando invece avrebbe potuto mostrarmi il Golden Gate, senza salite o discese.

«Preferirei usare la lingua in un altro modo, ma va bene. Comincio.» Per fortuna che ero davanti a lui, non volevo rischiare che si girasse e vedesse la mia espressione; avrebbe potuto rimandare. «Ho... riflettuto parecchio in questa settimana. Credo che... oh insomma, non mi va di girarci intorno e non mi sono nemmeno preparato un discorso.» Lo sentii sbuffare. «Non vado più all'università.»

Oddio, quello che avevo desiderato stava per succedere. Lui non mi avrebbe abbandonato. Feci i salti di gioia, o meglio, immaginai di farli dato che non volevo interromperlo. Ci sarebbe stato tempo per saltargli addosso.

«Però ti voglio dare... anzi, meriti una spiegazione sulla mia scelta. Se hai parlato con Emmett, allora ti avrà detto che non sono un tipo da università.»

«In realtà mi ha detto che tuo padre è una persona abbastanza rigida, che desidera solo il meglio per i figli, ma che tende a soffocarli. Mi ha detto che tu, in origine, avevi deciso di fare di testa tua, ma poi, di punto in bianco, ha deciso di non deludere tuo padre. La domanda è: perché?» In quel momento non potei fare a meno di odiare suo padre senza nemmeno averlo conosciuto. «E ora me lo richiedo dato che hai cambiato di nuovo idea.»

Sospirò, ma non mi girai e continuai la salita.

«In realtà era soltanto una copertura. In realtà volevo andarci solo perché...» Si interruppe. Era snervante.

«Cosa, Edward? Non ti far togliere le parole di bocca, per favore.»

«Dimenticati quello che ti ho detto la scorsa settimana okay? Io ho deciso di partire perché non saresti stata mai in grado di ricambiare appieno quello che provo per te.» Ora la sua voce era un sussurro, ma di nuovo non mi lasciai andare e proseguii la salita.

Mi alzai il vestito fino alla vita, per poi legarmelo ed evitare che scendesse. Evviva, le gambe erano libere, coperte da dei comodi pantaloncini.

«Credevo che la tua fosse una semplice cotta adolescenziale. So come sono, ti portano a credere di tutto fuorché la verità. Si crede di essere innamorati, ma poi si rivela tutto solo una grande cazzata. E dato che io...»

«Che tu?» Era solo una mia impressione o faceva caldo? Sentivo delle goccioline di sudore scorrermi sul collo. Ma forse non era propriamente il caldo a procurarmele.

«Dato che io provo qualcosa di più avevo deciso di allontanarmi da te, cosicché saresti riuscita a... disintossicarti dalla mia presenza.» Ecco, in quel momento mi girai davvero verso di lui, troppo stufa di sentire quelle sciocchezze.

Lui non era nella mia testa. Io sapevo quel che provavo.

«Ascoltami, tu, razza di imbecille.» Alzò un sopracciglio, per poi incrociare le braccia al petto. Dio, quella giacca di pelle lo fasciava troppo bene per i miei gusti. «Sei nella mia testa per caso? No. Quindi non giungere a risposte - peraltro anche senza senso - senza sapere nulla. So cos'è quello che sento. Mi ci è voluto troppo tempo per i miei gusti, ma ora l'ho capito.»

«E... cosa senti?»

Non ero mai stata una persona particolarmente romantica. Quello che mi bastava era una cosa come: il mio ragazzo e me che ci baciavamo, non importava il luogo. Magari a parlare e prenderci per il culo continuamente. Non importava nemmeno che non avessi mai amato qualcuno. Ma poi alla fine ci sono diverse intensità di amore, no? Io pensavo - e penso tuttora - che è così. Comunque, essendo io una ragazza tutt'altro che romantica, non desistetti a dirglielo. Non aspettavo il posto adatto, l'atmosfera adatta, il vento che ci solleticava i capelli. No, a me bastava dirglielo, senza continuare a torturarci a vicenda.

«Io...» Eppure all'improvviso ebbi paura. Non sapevo esattamente di cosa, ma avevo ancora paura che potesse non credermi. Mi attorcigliai una ciocca tra le dita, nervosa. Oddio, e ora?!

Posò una mano sulla mia vita, dove si raggrumava il tessuto del vestito attorcigliato. Sembrava deciso su quello che voleva dire. «Ti devo togliere io le parole di bocca, ora?» Lo guardai di traverso. «Penso che il vederti in difficoltà sia il fattore che cercavo.»

«Come, scusa?»

Mi prese per mano, sfruttando l'allargamento del vicolo. Proseguimmo nella camminata/scalata.

«Con il tempo le persone cambiano, Bella. Quando ti ho incontrato ho fatto il solito sbruffone, come mi conoscono tutti. Tu lo stesso.» Altra occhiataccia. «Invece ora se ci vedessimo dall'esterno, probabilmente, non ci riconosceremmo. Siamo cambiati e so anche il perché.»

«Mi... vuoi rendere partecipe allora?»

«Io mi sono innamorato.» Lo disse come se io lo fossi di lui.

«Felice per te. Anch'io» ammisi, con voce tremante quanto le mie caviglie.

Ci fermammo nuovamente, uno di fronte all'altro. Avevo solo voglia di continuare a giocare come due bambini.

«Di chi, se mi è permesso saperlo?»

«Non ti è permesso, infatti.»

Sbuffò. «D'accordo, andiamo avanti.»

«Quindi tu volevi solo che mi schiarissi le idee, sfruttando il periodo in cui non ci saresti stato?» chiesi, cercando risposte che lui dava solo tra le righe. Diceva di non volerci girare intorno, ma continuava a farlo. Come me.

«Sì. Hai ragione, anche se probabilmente tu non ricambi appieno, non mi va di negarmi nulla di quello che potrebbe succedere... tra di noi.» Sentire quel 'tra di noi' detto dalle sue labbra peccaminose, mi fece solo sorridere soddisfatta, mi riempi il petto. Mi fece lo strano effetto che ti fa il rumore dei fuochi d'artificio nelle orecchie.

Sentivo un bisogno impellente di baciarlo e, dalla sua stretta sul mio fianco, potevo capire che per lui era lo stesso. Ma mi doveva ancora dire molto. «Come mai non mi hai detto subito che era tuo il libro di trigo?»

«No, prima devo dirti un'altra cosa. Ti ricordi quando abbiamo fatto quella stupida gara con le gomme da masticare e alla fine ho vinto io e ti ho chiesto di baciarmi?» Annuii; come potevo dimenticarmene? «In realtà, in quel momento, ti consideravo davvero come una sorella. Poi, dopo averti vista andare via, sono andato dai miei per cena dato che non avevo la minima voglia di cucinare a casa mia; così ho sentito la telefonata di Alice. Ecco, qui bisogna tornare di nuovo indietro.»

«Ancora? Stai cercando di fare l'intellettuale?»

«Prima romantico e ora intellettuale? No, no, signorina Swan. Allora, la sera della zuffa al 'Twilight', ricordi?» Non mi guardò neanche. «Quella sera ero presente, sai, non mi andava che Alice andasse da sola: è ancora piccola.»

«Ehi, ha la mia età!»

«Comunque, vi ho viste. Ho capito che eravate diventate amiche, ma non lo dissi a mia sorella. E poi, ritornando alla sera della nostra uscita, ho sentito la vostra chiamata e ho ricollegato tutto: tu eri pazza di me.»

Gli mollai uno schiaffo sulla nuca. «Non esageriamo.»

Ma non mi ascoltava neanche, abbozzò solo un sorrisetto alla mia risposta. «Così ho chiesto il tuo numero a Alice e ti ho potuta contattare. Ma da quella sera, nolente o volente, ho cominciato a vederti con occhi diversi... però non volevo lasciarmi andare. Penso che la richiesta di insegnarti a baciare, sia stata dettata dal mio subconscio che, in parte, stravedeva già per te.»

Stravedeva. La mia testa si focalizzò su quella parola.

«Mi sono reso conto che provavo qualcosa solo quando... ci siamo baciati a scuola.»

Mi percorse un brivido al pensiero. «Dopo la leggendaria battaglia di polpette.»

«Già. Ma ormai la decisione era già stata presa: sarei andato all'università per farmi dimenticare da te. Sapevo che era solo una cosa passeggera.» Allora la sua espressione si fece cupa, come si stesse ricordando di qualcosa di particolarmente doloroso. A livello fisico quasi. «Poi sono passate le settimane e mi sono reso conto che quello che provavo cresceva.»

Ma non feci in tempo a dire quello che pensavo, che - finalmente, aggiungerei - sbucammo sulla piazzetta in cima alla collina della Telegraph.

La prima cosa che notai fu l'assenza di nebbia, che di solito scendeva sulle colline della città.

La seconda fu che avevo freddo. Enormemente freddo. Un insistente soffio di vento mi scosse. Istintivamente mi sfregai le mani contro le spalle e le braccia per donarmi un po' di calore. Se mesi prima mi avessero detto che avrei avuto freddo a San Francisco, non ci avrei mai creduto.

Ma fu anche a causa del freddo che vidi Edward sfilarsi la giacca in pelle nera e posarmela delicatamente sulle spalle seminude. Mi invase il suo profumo. Sapeva di menta, dopobarba... sapeva di qualcosa di non ben definito che mi piaceva da morire. Non mi sarei mai stancata di inspirarlo.

«Ammettilo, stai cercando di fare il romantico» proruppi, ma senza nascondere un minimo di soddisfazione.

«Nah, sto solo evitando che tu prenda freddo. Non mi va di vederti con la febbre.»

Ci avvicinammo alla ringhiera che delimitava chiaramente il suolo ricoperto di ghiaia, e il prato dell'esterno che scendeva obliquamente. Sai che belle capriole da fare lì?

Lasciai perdere quei pensieri senza senso per godermi la vista mozzafiato di San Francisco la notte.

Non si poteva dire che non ci fosse vita, la sera. Migliaia di puntini dorati e argentati spiccavano in quel mare scuro, insieme ai fari delle auto in movimento sulle strade in salita e discesa. Sull'orizzonte si poteva scorgere chiaramente la baia, dominata dal Golden Gate che, in origine rosso ruggine, appariva di un insolito nero che però appariva quasi più chiaro del resto della baia, rifletteva i raggi deboli della luna sul metallo. Sembrava avesse una magia tutta sua.

Si potevano scorgere le sagome dei grattacieli imponenti, accompagnate da quelle più dolci delle case e dei condomini.

Sì, San Francisco era vita. E in quel momento non potei fare a meno che chiedermi come avessi fatto ad odiare quella città, con tutte le sue colline, la gente, i grattacieli che oscuravano quasi il cielo. Con Edward.

Mi girai verso di lui. «Ora me lo dici perché non mi hai detto subito che il libro era tuo?» Era la terza volta che glielo chiedevo, e se non mi avesse risposto avrei dato di matto.

«Seriamente?» Fissai il suo petto, senza incrociare i suoi occhi. Per una volta la mia altezza che raggiungeva l'un metro e sessanta scarsi era una scusa.

«Seriamente» acconsentii.

«Quando mi hai chiesto di aiutarti ho capito che era un semplice modo per dimenticarmi momentaneamente, seguendo il mio implicito consiglio, e quando ho visto il libro» sgranò gli occhi, imitando la faccia stupita di chissà chi, «ho deciso di non crearti altri problemi. Avrei mentito per il tuo bene.»

Sorrisi. «Questo è davvero in gesto da cavaliere senza macchia e senza paura, Mr. Cullen.»

Si avvicinò impercettibilmente a me, chinandosi. Mi alzai sulle punte. Per una volta nella vita avrei voluto indossare i tacchi che avevo lasciato cadere una volta arrivati nello spiazzo. Come lui aveva lasciato cadere quel povero libro con la fronte consumata.

«In realtà era una semplice constatazione.»

Sentii il suo respiro sulle mie labbra. Le farfalle nello stomaco mi fecero visita. «Quindi... non partirai?»

«No. Voglio conoscerti meglio, voglio conoscere la persona di cui ti sei innamorata.» Sorrise sghembo, con lo sguardo acceso dalla felicità. Gli occhi gli brillarono. «E voglio che tu sappia di chi mi sono innamorato.» Strinse la presa sui miei fianchi, come a volermi incoraggiare ad aggrapparmi a lui.

«Dimmelo.» Non era un ordine dei miei, dove non si poteva fare altro che ubbidire per non riceversi qualcosa in testa. No, semplicemente era il modo più breve per incitarlo, dato che il mio cervello era in tilt. Stavo andando completamente in tilt.

Ma non rispose mai a quell'ordine.

In compenso sentii finalmente il contatto che desideravo.

Lì, sulla Telegraph Hill, in tarda serata, ci demmo il nostro primo vero bacio, con tanto di lingua e saliva. Ma non era la cosa più sconvolgente, sebbene lo fosse già di per sé.

Lui aveva risposto al mio ordine. Con quel bacio mi stava dicendo che mi amava. E io stavo facendo lo stesso.

Ogni paura, ogni sensazione negativa si volatilizzò in uno schiocco sordo; solo un travolgente vortice di euforia ci fece capire che quello che provavamo, doveva ancora giungere il culmine, che eravamo solo all'inizio di quello che sarebbe stata una delle migliori esperienze della vita di entrambi. Era un po' come San Francisco se si vuole: ricca di colline, di sali e scendi, e noi eravamo ai piedi di una di esse.

Sentii la sua lingua umida scorrere contro le mie labbra socchiuse, per l'ennesima volta. Saggiarono con devozione quella piccola parte di carne, e io feci lo stesso con lui. Il suo sapore era dolce e fresco allo stesso tempo. Mi dissetava, ma mi metteva anche sete; ne desideravo sempre di più. Maledii il fatto di aver bisogno di ossigeno; ne avevo bisogno, ma non lo volevo veramente.

«Così» cominciai, una volta posata la fronte sul suo torace, «ti sei innamorato di una come me?»

«E tu di uno come me?»

Ridemmo insieme. Sentii il suo petto sussultare, e ne approfittai per posargli una mano sul petto ed ascoltare il suo cuore. Non era difficile: il mio e il suo avevano lo stesso suono. Forse volevano uscire dai nostri toraci per conoscersi?

Improvvisamente, si staccò da me e mi prese per mano. «Vieni ti devo far vedere una cosa. Vuoi salire sulla torre?»

«Solo se c'è l'ascensore.»

Rise, per poi tirarmi verso la Coit Tower.

Ero completamente in tilt. La mia mente, il mio corpo, entrambi, per una volta, erano d'accordo su quello che stava succedendo: Edward mi amava. Edward, Edward, Edward. Lui ricambiava, lui non sarebbe andato all'università - e chi se ne fregava se fosse un pensiero subdolo -, lui non mi considerava più una ragazzina con gli ormoni impazziti. Lui credeva e sapeva che io lo amavo. Dovevo ancora realizzare, forse, che il mio desiderio si era avverato.

Raggiungemmo la base della torre in pietra e lì ci aspettava un ragazzo alto, capelli biondi e con un labbro spaccato. Ma sinceramente non me ne fregava più di tanto di che avesse combinato, non lo conoscevo nemmeno.

«Ehi, Jazz» lo salutò Edward.

«Ciao, Ed» rispose lui, evitando di sorridere per via del taglio.

«Che hai fatto al labbro?»

Il ragazzo scosse una mano, senza dare importanza alla domanda e posando per un attimo lo sguardo su di me. Fece quello che doveva essere un sorriso. «Volete salire?»

Non aspettò risposta, dato che era inutile, e infilò una chiavetta in una serratura di lato alle porte dell'ascensore. Si aprirono all'istante e vi entrammo.

Posai una mano sul suo torace. Il battito si era calmato. «Sai, non mi era mai capitato di provare nulla del genere.»

Scrollò le spalle, prendendo l'altra mia mano. «Nemmeno a me.»

«Non ti sei mai innamorato?» In fondo non dovevo essere poi così sconvolta, anzi, avrei dovuto essere felice.

«Mai.» Mi baciò con una tenerezza da diabete i capelli.

Soppesai per poco le sue parole dato che eravamo arrivati in cima alla torre, avvertiti da un sonoro dlin dell'ascensore. Con le mani ancora intrecciate ci sporgemmo alla ringhiera e quello che mi si presentò davanti fu ancora meglio del panorama della collina.

Oltre alla baia, si poteva vedere il paesaggio per trecentosessanta gradi. Quindi questo includeva anche la parte interna della città.

Edward quasi schiacciò la mia schiena contro di lui e si chinò verso mio orecchio per lasciarmi un bacio dietro la pelle sensibile di questo. Rabbrividii e sentii le sue labbra distendersi sul mio collo.

«Vedi» disse tutto a un tratto, «l'università sarebbe stata oltre quelle colline laggiù.» Indicò con l'indice il loro profilo scuro. «Avevi ragione: sono un po' autolesionista.»

Ridemmo a bocca chiusa per non interrompere l'atmosfera. Sì, dopo tutto un po' di romanticismo, volente o nolente, si era venuto a creare.

«Quindi non mi consideri più una ragazzina» riflettei.

«No, una ragazzina non saprebbe baciare come baci tu. E la cosa da una parte mi compiace, dall'altra no.»

«Perché?» Avrei voluto vederlo, ma mi bloccava ancora tra il suo petto e la ringhiera.

«Perché significa che ce ne sono stati altri» borbottò.

«Geloso, Cullen?»

«Non mi vergogno ad ammetterlo, Swan.»

E finalmente lasciò che mi girassi, e capii che in realtà quello che c'era da vedere era solo negli occhi di Edward e non nel panorama. «Be', allora non voglio immaginare quante ragazze sono passate nel tuo letto.»

«Meno di quante immagini.» Mi sfiorò il naso con il suo. «Però una cosa positiva c'è.»

Portai le mie mani dietro il suo collo, solleticandogli la nuca. In tutta risposta ci avvicinammo un po' di più fino a sentire l'uno il respiro dell'altra. Era come se avessimo voluto incastrarci tra di noi: ogni spazio vuoto, ogni spiffero d'aria era di troppo.

«Quale?» domandai.

«Siamo stati entrambi i primi: tu sei stata la prima a farmi innamorare e io il primo a farti innamorare» ammise, come se fosse ovvio. E alla fine lo era. Era la cosa positiva, l'unica cosa che contava realmente in quel momento.

«Ho tentato di trovare difetti in te» continuò, «e li ho anche trovati. Ma la verità è che sono proprio loro a renderti speciale.»

«Sei riuscito a fare il romantico.» Mi strofinai un occhio, cercando di fare scomparire le tracce di lacrime.

Scosse la testa. «Ti amo... Ciuffo» sussurrò ridacchiando e attorcigliando tra le dita la ciocca colorata, ma lievemente scolorita.

«Ti amo... OcchiBelli.» Non potei altro che dirlo per la prima volta ad alta voce, rimirando i suoi occhi chiari.

E per una volta non fui del tutto scontenta di essere finita in un romanzetto rosa.

 

 

 

 

 

 

 

Spazio dello sclero della pseudoautrice.

Hola. c:
Okay, io... io non lo so, sono in uno stato catatonico dove non mi rendo ancora conto di quello che sta succedendo. L'unica cosa certa è che sto trattenendo le lacrime.
Non tanto perché la fine è commuovete, ma perché sono felice di aver terminato per la prima volta una mia storia. E, per giunta, pubblicando l'ultimo capitolo nello stesso periodo in cui un anno fa ho deciso di iscrivermi a efp.

Oh, via con i sentimenti, petto in fuori pancia in dentro e via. c':

Lo so che questo capitolo è un papiro (12 pagine word, gente o.o mai scritto così tanto), e ammetto che mi sia passato anche per la testa di dividerlo in due, ma vi avevo promesso che questo sarebbe stato l'ultimo e quindi eccomi qui. Spero davvero che vi sia piaciuto, davvero, davvero, davvero.

Ho cercato di fare capire in qualche modo che entrambi i personaggi sono maturati. Non sono cambiati di molto, è vero, ma ho voluto sottolineare il fatto che sono un po' maturati dopo tutto il casino dell'università. Tra parentesi, spero che sia tutto chiaro. çç In caso contrario non esitate a dirmelo. ;)

Questa storia, lo ammetto, rispecchia un po' (un pochetto-etto) quello che ho provato io in una determinata situazione, ed è anche per questo che, nonostante sia una stupidata, la ritengo importante.

Mh, dunque. Telegraph Hill esiste veramente, chiaramente (mica mi vado a inventare le cose... ho solo googlato qua e là u.u). Ho letto varie cose a riguardo e dicono che una volta arrivati in cima grondi sudore talmente è ripida. Qui però l'ho un po' addolcita.

Perciò, per ritornare all'argomento fine, direi che le fontane si sono aperte.

Dedico questa storia a tutte/i, e dico tutte/i, quelli che mi sono stati vicini durante questa prima avventura conclusa, ma anche a chi segue/ha seguito altre mie ff, anche se non questa. E' un ringraziamento speciale a chi si è interessato a quello che ho scritto e creato in generale, ecco!
In particolare la dedico - rullo di tamburi - ad Ale. Sì, te Ale. Perché ci sei sempre e perché nonostante in questi giorni ci sentiamo poche volte, mi dici che ti voglio bene. Ehi, sembra una cosa scontata ma non è proprio così! (:

Be', altra cosa, scusate per il ritardo. lol La mia mente era focalizzata solo sul pensiero "è l'ultimo, è l'ultimo" e non riuscivo a mettere giù le idee che avevo. E' stato piuttosto frustrante. Ho scritto questo capitolo tre volte di seguito. Ma si dice che il tre è il numero perfetto, no? (':

Ultimo ma non meno importante: sareste disposti a leggere degli estra di questa storiella? Ho già qualche idea a riguardo, ma ho bisogno del vostro parere.
Perciò, via con le risposte. (:

Non mi resta che dirvi ancora una volta grazie e di farmi sapere com'è questo papiro, se vi ha annoiate, se vi ha deluse, se vi è piaciuto. (:
(Io non so se riuscirò a riprendermi çç)


La vostra, tra le lacrime, non pronta a lasciare la storia,
Choc

PS: Se avete tempo volete leggere qualcosa di leggero, ho pubblicato da poco una OS. Eccola. (:

A clumsy thief.
Il piccolo sgranò gli occhi. «Ehm... okay, m-ma chi è quello...?», mormorò con voce tremante. C'era troppa poca luce per vedere il viso di Edward, se ne riusciva a scorgere solo la sagoma massiccia. 
«È il ladro maldestro che è appena entrato in casa, va bene? È un mio carissimo amico. Ora via, aria». E l'ennesimo visitatore tornò nella sua camera, lasciandoli soli. 
«E così, sarei un ladro maldestro, eh?», chiese curioso. 

Edward: ladro maldestro o semplice ragazzo innamorato?



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