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Autore: FALLEN99    01/05/2013    3 recensioni
secondo capitolo della saga di POISON.
Ginevra è costretta così a partire, lasciando in Italia la sua famiglia e i ricordi brucianti della relazione che ha vissuto con Stefano. Quando la nave che la porterà in Grecia salpa dal porto una nostalgia indescrivibile le stringe il cuore, perché né Stefano né Micaela sono autorizzati ad accompagnarla. Ginevra si ritrova in una nuova scuola, dove gli studenti sono demoni pentiti in cerca di redenzione e a cui viene insegnato come usare beneficamente i propri poteri. Anche Ginevra ha dentro di sé un demone, e per tanto sarà addestrata ad usare i poteri che Lucifero possiede. Ma il viaggio verso il raggiungimento del controllo di Lucifero sarà tortuoso e non facile, e la ragazza sarà aiutata da due studenti a dir poco particolari: Paul, un demone pentito che le si avvicinerà molto e farà vacillare l’amore per Stefano e Lucia, un’amica angelica capace di estirparle di dosso le preoccupazioni. Ma nulla è mai ciò che sembra, e la gente che la sta’ intorno cela intrighi e identità nascoste. Ginevra si ritrova in pericolo nel posto più protetto del mondo, e oltre alla sua vita, si ritroverà a salvare il suo amore.
Genere: Azione, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Poison saga'
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I
 

 
Il cielo era nero, come se qualcuno ci avessero rovesciato addosso un calamaio d’inchiostro, che si era presto diramato, assoggettando la volta celeste al suo colore scuro e traslucido. Enormi nuvole plumbee non permettevano alla già fioca luce di accarezzare la terra con i suoi raggi, privandola di quell’esigenza che da sempre aveva dato per scontata. Leggeri soffi di vento si insinuavano fra gli effimeri fili d’erba, facendoli ondeggiare al ritmo di una musica muta e macabra. Le lapidi di pietra si stagliavano dal prato incolto, spuntando come relitti di vecchie imbarcazioni, a cui il destino aveva deciso di far rivedere per l’ultima volta la luce del sole. Sentieri tortuosi e usurati dal tempo salivano per le colline tetre come serpi in cerca di una preda da poter inghiottire, ma che scappava loro appena la loro lingua li sfiorava.
Gli alberi secolari si elevavano dalla cima delle colline, i loro rami protesi verso il cielo e le foglie secche in balia dei fruscii del vento crescente, che le privava di ogni tipo di appiglio. L’odore acre della cenere era nell’aria, a simboleggiare ulteriormente l’austerità di quel luogo, dove nemmeno un’anima viva si addentrava senza motivo. Una chiesa in marmo bianco si trovava al centro del cimitero, il grande campanile che fendeva l’aria verso l’alto, come a chiedere un po’ di carità a quel dio che aveva creato quel luogo. La facciata gotica della chiesa incuteva una certa inquietudine a chi la guardava, e guglie aguzze dai colori spenti troneggiavano al fianco dell’imponente campanile. La campana d’ottone era ferma, come se ci fossero catene indistruttibili a garantire che non si muovesse e andasse ad intaccare il silenzio che assoggettava il cimitero.
Una folla di persone era radunata davanti alla chiesa, i visi malinconici e i vestiti rigorosamente neri che avvolgevano le loro membra stanche e segnate da un lutto sconvolgente.
«E che alla sua anima sia concesso l’ingresso al paradiso. Amen.» disse il prete, in piedi davanti ad una grande cassa da morto realizzata in legno scuro, probabilmente in ebano. Rimase qualche istante in silenzio, per concedere alla folla che aveva davanti di mandare l’estremo saluto alla vittima che giaceva all’interno della bara. Quel lavoro non gli era mai piaciuto, chi era lui per fare da tramite fra la Terra e il Regno dei Cieli? Con che coraggio avrebbe dovuto guardare in faccia la gente che conosceva il cadavere e dirgli che non l’avrebbero mai visto, ma che la sua anima sarebbe arrivata in paradiso, quando nemmeno lui ne era certo? L’angoscia gli montò dentro, stringendogli lo stomaco e facendogli sbattere un paio di volte le palpebre per scacciarla. Ma essa pervase, era come un parassita, che si nutriva del suo essere per prosciugarlo e privarlo di ogni emozione che fosse lontanamente felice.
Ad una goccia di pioggia cadde dal cielo, infrangendosi a terra, come aveva fatto poche settimane prima la vita di Rebecca, vittima di forze più grandi di lei.
Ginevra si strinse al braccio forte di Micaela per cercare un sostegno che le concedesse stabilità emotiva, fosse anche stato per un attimo, non le importava. Aveva bisogno di qualcosa a cui attaccarsi, un appiglio per non cadere nel baratro oscuro e senza fondo della disperazione, che non aspettava altro che la sua anima pura e immortale per colmare la sua enorme voragine. Micaela la strinse a sé, facendole appoggiare la testa sulla spalla e cercando di essere forte, quando nemmeno lei stessa ne aveva la certezza. La tristezza segnava il suo viso angelico come una maschera altera, e, in quel momento, si sentì più vicina a qualcosa di umano in tutta la sua vita.
Baciò i capelli scuri di Ginevra, cercando di infonderle una briciola di conforto, che però fu annientato dallo scudo di negatività che Ginevra aveva eretto attorno alla sua mente per proteggersi dal mondo esterno, che le aveva strappato la nonna con crudeltà e ferocia. Una lacrima salata le segnò le gote arrossate, scendendo fino al pesante abito di cotone nero che sua madre l’aveva obbligato ad indossare. La ragazza si era in primo momento rifiutata, ma la sua poca forza di volontà aveva fatto sì che le pressione di Alessandra riuscissero a farle indossare quello stupido abitino per “Barbie in lutto per Ken”, come lo chiamava la ragazza ironicamente. Era lungo appena sotto il ginocchio, lo scollo a V che metteva in risalto parzialmente il seno e le maniche lunghe, che non permettevano al clima stranamente freddo di quell’estate di infierire sulla sua salute.
Micaela, vedendo la lacrime dell’amica, usò i suoi poteri per alleviarla. Un soffio di vento appena percettibile la scostò dal viso di Ginevra, e la fece ondeggiare davanti a suoi occhi stupiti. La ragazza osservò quella piccola lacrima cristallina risplendere della poca luce che il firmamento concedeva, e le sembrò fosse l’emblema della sua vita, una minuscola lacrima in confronto ad un oceano di crudeltà, a cui bastava muovere solo un dito per annientarla. Micaela, intanto, faceva compiere alla lacrima una danza aggraziata e lenta, come se fosse un fiocco di neve. Ma Ginevra abbassò lo sguardo, non voleva che la cosa riuscisse a distrarla dal forte dolore che aveva in petto. Non lo sentiva giusto nei confronti della nonna, che meritava tutte le sue attenzioni, dato che era stata colpa sua se era morta. Colpa sua e della sua eterna maledizione, che nei secoli l’aveva sempre privata delle persone a cui teneva di più al mondo. Altre lacrime seguirono la precedente, testimoniando la consapevolezza che aveva di se stessa e del gioco di potere intrecciato alla sua vita fin dal suo concepimento.
«Ginni, cerca di essere forte…» le sussurrò Micaela all’orecchio, e la sua voce rassicurante le penetrò nella mente, ridestandola dai brutti pensieri.
La ragazza si voltò verso Micaela, inchiodandola con uno sguardo fin troppo intenso, di quelli che solo lei poteva riservarle.
«C-come faccio a essere forte…?» domandò con voce rotta, le lacrime continue che le rigavano il volto distrutto e il vento che le scompigliava i lisci capelli e che li faceva muovere come ali di corvo impazzite.
Micaela restò in silenzio, come se le parole malinconiche di Ginevra la avessero derubata della sua voce rassicurante, che non riusciva a rispondere alla domanda fin troppo vera che le aveva fatto l’amica. Sostenne a fatica lo sguardo di Ginevra, facendo appello a tutto il suo autocontrollo per non scoppiare in un pianto disperato, come già l’amica aveva fatto. Lei era una creatura angelica, discendeva dal Paradiso e da una stirpe pura come le piume candide di una colomba, e mai avrebbe dovuto permettersi di infrangere il già sottile confine fra la sua natura e quella umana. Ma Micaela era stata troppo tempo sulla terra, e ogni volta che veniva a contatto con Ginevra e con i suoi familiari, era come se si avvicinasse sempre più al mondo terreno, dove i peccati erano all’ordine del giorno e dove l’istinto comandava l’individuo, senza lasciargli nemmeno la minima forza di volontà.
A quei pensieri che ricordavano un passato lontano, sepolto da secoli di distruzione e lacrime, abbassò lo sguardo da quello di Ginevra, consumata dal senso di colpa per non essere un’amica forte come Ginevra meritava.
«Micaela, scusami…» sussurrò Ginevra cercando gli occhi dell’angelo, che però fissavano il terreno, l’unico che secondo lei meritava il contatto con i suoi occhi.
«Non scusarti, sono io che dovrei farlo...» rispose la ragazza, i capelli color del grano che si muovevano come calme onde di un mare di oro fuso. Restò in silenzio per qualche istante, l’aria sempre più intrisa della delusione che provava nei propri confronti.
Ginevra la guardava, gli occhi d’oceano alla ricerca di un sorriso familiare e confortante, di quelli che solo l’amica sapeva regalarle per placare la tempesta di sentimenti oscuri che le girava sempre più vorticasamente nel petto. Ma quel gesto familiare non arrivò, come se nemmeno Micaela avesse più la forza di regalarle. E allora cominciarono ad arrivare i singhiozzi, prima deboli e soffusi e poi, mano a mano che le lacrime le rigavano il volto, sempre più forti e colmi di tristezza e rabbia.
Al sentirli il cuore di Micaela si strinse, come se artigli oscuri l’avessero assoggettato al loro volere. Una nuova forza le cominciò a inebriarle le membra; era forte e pura, come se arrivasse direttamente da lassù, da dove il suo Signore vegliava sempre vigile su di lei, in attesa che lei avesse bisogno del suo aiuto.
L’angelo, allora, in balia della nuova forza, guardò Ginevra e sorrise, ignorando i suoi singhiozzi e le sue lacrime. Le sorrise per rassicurarla, per dirle senza parole che andava tutto bene. Le sorrise per ridarle l’amica che meritava, per restituirle tutto ciò che lei le aveva dato diventando sua amica e facendole conoscere la gioia di essere emozionata ed umana.
E Ginevra, a quel gesto, non poté fare a meno che ricambiarlo. Le sue labbra si incurvarono i quello che doveva sembrare un sorriso titubante ed instabile, come se bastasse un soffio di vento per spazzarlo via.
«Sai, una volta mi hai detto che la vostra forza arriva da qui dentro.» le disse Micaela sfiorando con l’indice il cuore dell’amica, che diffondeva per il suo corpo battiti sempre crescenti, segno della forte emozione di Ginevra.
«Io non ti avevo creduto, avevo fatto molta fatica ad accettare che una virtù celeste come la forza derivasse da un’insignificante organo umano. All’epoca erano gli inizi della missione, e ci conoscevamo da solo una decina vite, e la tua amicizia non mi aveva ancora presa così come adesso.» Micaela scosse la testa e scacciò le lacrime che le bruciavano ai lati degli occhi. «Ma ora io ci credo, ed è ora che ci creda anche tu.» sussurrò, lo sguardo intrecciato a quello di Ginevra. Nella mente di questi cominciò a farsi sempre più nitido quel ricordo, che la sua anima immortale non aspettava altro che mostrarle da molto tempo.

 






§ Germania, 9 Agosto 1321, Crepuscolo §
 





La luce del crepuscolo tingeva il cielo come una carezza infuocata, illuminando ogni cosa con il suo bagliore rosato ed intenso, e proiettando imponenti ombre sul terreno. Le sagome di due ragazze si stagliavano snelle sul tetto forato e usurato dal tempo di una vecchia casa di campagna, dove la polvere e la desolazione regnavano sovrane. Le due ragazze sedevano a penzoloni sul cornicione lacero, i vestiti da umili contadine che avvolgevano le loro membra e la brezza di fine estate che gli accarezzava i volti giovani ma allo stesso tempo centenari. Una delle due aveva folti capelli neri, che le scendevano sulla schiena legati in una treccia trasandata, e una catenina d’argento che le pendeva dalla camicia ingiallita. Fissava l’orizzonte, dove il sole si stava dissolvendo, facendo sì che l’equilibrio fra il giorno e la notte fosse rispettato. L’altra ragazza aveva profondi occhi azzurri, le sfumature violette che ne scalfivano le superficie come fossero nastri. Era intenta a intrecciare alcuni fili di grano, mentre non prestava alcuna attenzione allo spettacolo crepuscolare che aveva davanti, tante volte l’aveva già visto.
La ragazza dai capelli neri, ad un tratto, le si sedette più vicina, facendo tintinnare la catenina che portava al collo, che rappresentava due angeli leggiadri suonavano arpe d’ottone. Gliel’aveva regalato l’altra pochi giorni dopo che si era trasferita in quella piccola cittadina di campagna, dove Ginevra viveva dalla sua rinascita.
La ragazza bionda alzò lo sguardo, trovando quello della mora, che la fissava pensierosa.
«A che pensi, Ginevra?» le chiese, curiosa. L’altra tentennò qualche istante, quasi dovesse mettere ordine ai suoi pensieri per esporli.
«Al fatto che siamo davvero effimeri, in confronto alla bellezza del tramonto.» rispose ritornando a fissare il sole scemare, come se fosse fatto di granelli di sabbia, che venivano trasportati via dalla brezza della notte.
«E che non abbiamo forza in confronto a ciò, se non quella che deriva da qui.» aggiunse, portandosi una mano al cuore.

 




§
 




Ginevra ritornò al presente, il ricordò svanì come una cortina di nebbia spazzata via dal vento. Si riscosse, come se la sua mente fosse appena ritornata nel suo corpo dopo un lungo viaggio che andava a ritroso nei secoli per afferrare ciò di cui aveva bisogno in quel momento. La volontà. Ecco cosa simboleggiava quel ricordo tanto intenso, e che si legava al presente con una precisione impressionante. Lei doveva trovare la forza di volontà, sepolta ma ancora vigile nel suo cuore, che poteva ritornare a bruciare, risorgere da ceneri appesantite dal tempo che passava.
Si ridestò ad un tratto, quando una folata di ventò le sferzò sul volto. Quelle parole le aveva dette davvero lei, la Ginevra che in quel momento credeva in ciò che diceva, e che era certa che la forza derivasse da lì. Le stessa Ginevra che, ora, si aggrappava avidamente a quella consapevolezza per sopravvivere e per restare a galla in quell’oceano che aveva tolto crudelmente la vita a sua nonna.
«Allora? Cos’hai visto?» le chiese Micaela, il volto contratto dalla curiosità. Anche nella sua mente quel ricordo era riaffiorato come un relitto lontano, che le aveva fatto sfiorare, di nuovo, la bellezza della loro amicizia eterna.
«Quello che dovevo vedere.» rispose Ginevra travolgendola in un abbraccio che l’angelo ricambiò con affetto.
Rimasero così, l’una fra le braccia dell’altra, due ragazze che cercano sostegno in un’altra persona, finché Alessandra non le riscosse.
«Ragazze, dobbiamo seguire il parroco, stanno per sotterrare la bara.» disse loro con un filo di voce. I capelli biondo cenere le stavano raccolti in una crocchia ordinata, e gli occhi castani non si soffermavano mai su qualcosa in particolare, data la forte angoscia che le opprimeva il petto.
Ginevra e Micaela sciolsero il loro abbraccio e seguirono Alessandra dietro la chiesa, dove una grossa ruspa gialla scavava una profonda fossa nel terreno. Una grossa folla di persona le stava intorno, fissando quella fossa, che si faceva via via più grande, come il varco che l’assenza di Rebecca aveva lasciato nei loro cuori. Ginevra si fece largo fra la folla, riconoscendo alcuni volti di parenti che non vedeva da tempo, ma che affioravano nei suoi ricordi d’infanzia mano a mano che li incontrava. Davanti alla ruspa, chino a terra, trovò suo padre. Le sue mani forti si addentravano nella coltre disordinata di capelli corvini, come se li volesse strappare. Era stato un duro colpo la morte della madre, che l’aveva fatto cadere nella disperazione, come era già successo con il decesso del padre, avvenuto quattordici anni prima. Era sempre stato un uomo fragile, in vita solo grazie alle medicine e all’alcool, che era il suo unico modo per provare emozioni oltre alla paura e all’autocommiserazione.
Gianni fissava intensamente il terreno umido delle sue lacrime, che scendevano a fiotti dagli occhi arrossati, come se il dolore potesse essere espulso dal suo corpo attraverso quelle gocce argentee. Singhiozzi sempre crescenti scuotevano il suo corpo ripetutamente, e Ginevra provò un’innata compassione per lui. Non appena lo ebbe raggiunto gli posò una mano sulla spalla, sperando che il suo tocco riuscisse in qualche modo a confortarlo e rassicurarlo. Lui alzò piano il capo, incrociando il suo sguardo per una frazione di secondo, dove la ragazza gli fece percepire la sua presenza e il suo sostegno. Poi, come se lei non ci fosse, ritornò a piangere.
Intanto la bara veniva calata lentamente verso il fondo della fossa, inghiottita dalla coltre di terra che prima la riempiva e che ora ne giaceva ai lati. Ginevra scrutava la scena facendo appello alla sua forza, che sentiva farsi più intensa ogni attimo che passava nel proprio cuore. Ad un tratto qualcuno le sfiorò la mano, e la ragazza voltò il capo verso vedere chi fosse. Ebbe una grande sorpresa nel vedere che era Susanna, la sua sorellina, che, con la sua infantilità, le si era avvinghiata al braccio. Ginevra le sorrise; la tenera età della sorella era come uno scudo che la proteggeva dalla realtà, facendogliela apparire altera e sempre gioiosa, anche in un momento come quello, dove di felicità non ce n’era nemmeno l’ombra.
Susanna poggiò la testa sulla spalla di Ginevra, inondandola con i suoi ricci corvini, e facendola travolgere dalla familiarità che solo quel gesto fraterno poteva infonderle.
«Mamma mi ha detto che nonna è andata a fare un viaggio.» disse Susanna nell’orecchio alla sorella. «Ma non mi ha detto se tornerà.» aggiunse.
Ginevra restò qualche istante in silenzio, pensierosa, mentre la ruspava riversava la terra sulla tomba della nonna, che ormai giaceva tre metri sotto terra. Fissò il cielo nero, e notò qualcosa sfrecciarvi attraverso velocissima, come un proiettile infuocato. Ginevra lo seguì con lo sguardo, vedendo una scia di piume corvine precipitare verso terra, sospinte dal vento, e la sua immagine perdersi nell’immensità scura che era la volta celeste. Le brillarono gli occhi nel capire che quello era un corvo, un’animale oscuro e sfuggente, dannato dall’inizio dei tempi, vittima di tormenti interiori laceranti, la cui anima era vincolata da una maledizione che trovava radici risalenti alla scissione della Stirpe Celeste. Ma era anche un’animale elegante e leggiadro, le cui piume erano lucenti come ossidiana e gli occhi profondi come burroni, ma le cui spire riuscivano a portarla verso un mondo parallelo, riuscendo ad isolarla dal dolore che aveva intorno e avvolgendola nel suo abbraccio oscuro e benefico. Perché quello non era un corvo, o meglio, un demone qualunque. Quello era il suo demone, la persona con cui aveva condiviso l’avanzare dei secoli, con cui aveva dato alla luce un amore profondo e sincero, che sapevo alleviare le sue ferite. Si sfiorò le labbra con un dito, poteva sentire il sapore delle sue ancora sulle proprie, come se ogni che la baciava le lasciava impresso una parte di lui. «Stefano…» sussurrò senza pensare.
«Allora, Ginni?» la voce della sorella la riportò alla realtà. Ginevra si riscosse, interrompendo il flusso senza controllo dei propri pensieri e cercando una risposta da dare all’innocente domanda di Susanna.
«La nonna tornerà dal suo lungo viaggio?» chiese la bambina.
Questa volta Ginevra non indugiò a risponderle.
«Sì, tornerà.» disse, più per convincere se stessa che Susanna.
«E quando?»
Ginevra aggrottò la fronte; alle volte la curiosità infantile della sorella la metteva in seria difficoltà.
«Quando tu sarai grande e forte; quando sarai così alta da poter toccare il cielo con un dito.» rispose, sperando che la bambina si accontentasse.
«Dici che ci vorrà tanto?» chiese Susanna scrutando il cielo scuro, che le nuvole stavano via via coprendo.
«Beh, diciamo che devi mangiare tanta carne per allungare queste gambette esili!»  Ginevra le diede qualche pizzicotto e la sorellina si oppose ridacchiando. La sua risata le sembrò un frammento lontano di felicità, uno spiraglio che squarciava la tristezza che in quel momento avvolgeva ogni cosa.
Susanna sfuggì alla stretta della sorella e la fissò, i suoi occhi castani in quelli blu di Ginevra a cercare anche la più piccola ombra di menzogna. La ragazza cercò di comunicarle una sicurezza che non aveva, ma riuscì a rendere il suo sguardo credibile. Susanna, sazia di informazioni, le stampò un bacio sulla guancia e corse via, il vestito nero che indossava, identico a quello di una bambola di pezza, che ondeggiava a ritmo con il movimento dei suoi piedini.
Ginevra sorrise e riportò lo sguardo sulla tomba della nonna, ormai ricoperta di terra. La ruspa si stava allontanando, come stava facendo la folla di gente dietro di lei, che si disperse nel cimitero come una coltre informe di formiche che scappavano da un formichiere. Rimase sola con il suo dolore a fissare l’orizzonte, dove le nuvole si annidavano come vincolate da una ragnatela appiccicosa e avvolgente. In sottofondo ai suoi pensieri c’era il rumore soffocato dei singhiozzi del padre ed il fruscio continuo del vento fra i fili d’erba. Micaela la aspettava con Edoardo appoggiata al muro della chiesa, le braccia conserte e mille pensieri che le ronzavano nella mente.
I due angeli aspettarono per un quarto d’ora buono Ginevra, che si era abbandonata al continuo proiettarsi di ricordi felici con Rebecca. La ragazza, interrotto il flusso dei suoi ricordi, si avvicinò a Micaela ed Edoardo che, in un silenzio innaturale, la scortarono verso i cancelli del cimitero. Quando vi arrivarono, Ginevra li congedò, dicendo loro che sarebbe tornata a casa da sola. Edoardo era un po’ riluttante, dopotutto nemmeno una settimana prima la ragazza aveva rischiato di morire, e non si sentiva sicuro di lasciarla girare sola per la città, potevano esserci demoni nascosti e pronti a finire ciò che Karl aveva lasciato in sospeso.
Ma Ginevra era irremovibile e, con l’aiuto di Micaela, riuscì a fargli cambiare idea. Trenta minuti più tardi, dopo aver avvisato la madre, Ginevra camminava per le vie tetre della sua città. Era senza meta, un’eterna pellegrina che aveva smarrito la strada di casa, proprio come Hansel e Gretel. I suoi occhi vagavano persi alla ricerca di Lui, in cerca del suo sostegno e delle sue labbra calde e rassicuranti. Ma lui non c’era, meglio, questo era quello che credeva. Un’ombra scura le si proiettò a fianco, confondendosi con la sua. La ragazza si fermò di scatto, il respiro mozzato il gola e gli occhi fissi sulla sua ombra. Sentiva il peso del suo sguardo sulla schiena, ed una strana sensazione le avvolse le membra, come se fosse stata perforata da una lastra di ghiaccio e poi da una spada incandescente. Un brivido la fece sobbalzare, ed una folata di vento le fece agitare i capelli davanti agli occhi, impedendole per un attimo di vedere. E, in quell’attimo, lui agì. Compì uno scatto velocissimo verso di lei, portandosi a pochi centimetri dal suo corpo. Le cinse la vita con forza e, con veemenza, la sbatté contro il muro di una vecchia villa ottocentesca che costeggiava la strada su cui la ragazza vagava.
La inchiodò con uno sguardo penetrante, i suoi occhi neri come il catrame intrecciati a quelli blu come l’oceano di lei. si fissarono per attimi che parvero eterni, perdendo la cognizione del tempo. perché quando l’uno stava con l’altra tutto perdeva importanza al di fuori di loro due, e l’unica cosa che contava era il loro amore, il legame eterno che li legava come catene indistruttibili, che nei secoli non avevano mai allentato la loro presa.
«Stefano…»sussurrò Ginevra, le mani legate attorno alle spalle di lui.
«Sì, sono io, Ginevra.» le rispose in un sospiro, il proprio corpo percosso da brividi di eccitazione per la vicinanza con il suo.
«P-perché non c’eri al funerale?» chiese la ragazza togliendosi una ciocca ribelle dal viso, non voleva che niente intralciasse il contatto con gli occhi di Stefano.
Lui restò qualche istante pensieroso, poi rispose: «Non mi sembrava giusto assistere alla morte di una persona che io stesso avrei cercato di uccidere qualche mese fa.»
«Ma tu non sei più come qualche mese fa, o come qualche secolo fa. Tu sei diverso, migliore…»gli disse percorrendo con le dita affusolate il contorno del suo volto.
Lui protese il viso verso quello di lei, la distanza si faceva via via sempre minore. «Hai ragione, e proprio grazie a te.»
«Stefano…io avevo bisogno di te…» ribatté Ginevra frastornata dalla bocca di lui, sempre più vicina alla propria.
Quando le labbra di Stefano furono a pochi centimetri dalle sue, il ragazzo le rispose: «Ma io ora ci sono; sono qui, per te. Grazie a te.» le rispose sfiorandole le labbra con le proprie.
«E ci sarò sempre.» la baciò con intensità, lasciando che la passione prendesse il sopravvento su di lui. Si baciarono per qualche minuto, poi lui si staccò da lei e la trafisse con uno sguardo.
«Per l’eternità.»



Ehiiii! Ciao, popolo di efp, sono tornato! Lo so, vi ho fatto attendere più o meno un mese....ma l'ispirazione non arrivava proprio!
Prometto che il prossima cpitolo arrivera presto, ma, intanto, come vi è sembato uesto???
Sono riuscito a trasmettervi la tristezza di ginevra? il flash back sulla vita passata e la parte finale con Stefano vi è piaciuta?
Ci ho messo un'intera giornata a stendere questo capitolo, gradirei i vostri pareri.
Alla prossima
baci
F99
   
 
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