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Autore: Dante_Chan    02/05/2013    1 recensioni
Questa storia parla di due ragazzini. Di un metallaro allevatore di ratti (o un allevatore di ratti metallaro?) che si innamora irrimediabilmente di un truzzo un po' particolare. La trama...beh, in realtà la scopro scrivendo, ma in generale il primo incontra il secondo, rimane colpito e tenta di ritrovarlo. Seghe mentali comprese nel prezzo :3
Genere: Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Mu, altro stupido capitoletto. Dopo di questo ho un buco nella storia che sto cercando di colmare, ma la mia fantasia, già a livelli bassi di suo, è portata a zero da esami e stanchezza e scazzo. Oppure mi vengono in mente situazioni assurde non adatte a un racconto realistico :°D sono proprio un genio <3
(p.s. ma quanto scemi sono i miei titoli?)



La settimana seguente passò senza episodi rilevanti. Il cugino molesto chiamò il nostro amico più volte, senza mai ottenere risposta. Meglio lui che un suo compagno di classe, per carità! Almeno non l’avevano visto o, per lo meno, così sperava. Comunque, in quei giorni si sentiva piuttosto triste; non sapeva bene dire perché, era una specie di tedio misto ad angoscia. Gli era dispiaciuto non trovare il ragazzo, più della volta precedente; la voglia di conoscerlo era tornata prepotente, portando con sé quella malinconia.
«Ho provato solo due volte, ma…è dura sprecare i sabati sera per andare in quel postaccio. È la cosa più noiosa del mondo, e mi sento pure uno scemo a buttare via i soldi per entrare lì. Mi vien male all’idea di tornare anche questo sabato…» si lamentava con Trunks, a scuola.
«Se è così tedioso lascia stare, allora.» rispondeva logicamente lui.
«Ma…non voglio. Ehm…è difficile spiegare…voglio solo trovarlo il più presto possibile, ecco. Anzi, vorrei averlo già trovato. E magari ci riuscivo pure, se non incontravo mio cugino, che non mi mollava più. E poi…ho paura di dimenticarmi la sua faccia, se passa troppo tempo. Già ora non sono sicuro di poterlo riconoscere, in realtà…».
«Dante…perché ti complichi così la vita…? Non starci troppo male, su. Se lo trovi bene, altrimenti pazienza. Non lo conosci nemmeno, non riporre troppe aspettative, dai.». Il ragazzo gli accarezzò i capelli con fare quasi paterno, e l’altro lo guardò interrogativamente.
«Oi Dante, qualcosa non va?» si avvicinò Chele, azzannando un panino al prosciutto grande come la sua faccia.
«Perché?».
«Gno, è che vedo che Trunksh…chomp…vedo che Trunks è entrato in modalità protettivo - coccolosa. Ma in realtà lo fa solo con te…».
«No, tranquillo. È solo…un po’ le verifiche, i miei…sono stanco.».
«Ah beh, aspetta la quinta per essere stanco! I prof non ti danno un attimo di tregua, hai verifiche, interrogazioni o simulazioni ogni settimana, da nausea! A volte mi trovo costretto a svegliarmi alle 4 di mattina per studiare.».
«Cosa?? Noo, per carità, io preferirei prendere un voto di merda, piuttosto!».
«Eh, all’ultimo anno mica te lo puoi permettere…».
«No, sei solo tu che sei una secchia…!».
«Beh, che c’è di male? Comunque dai, non buttarti giù, vedrai che sabato dal Diama ci sfondiamo di Halo e ti riprendi.».
«Mmh, sabato non ci sono, mi spiace…devoo…sono via coi miei.».
«Uh, non vieni di nuovo? Mi dispiace…che, non è che quei due truzzetti stronzi t’hanno spaventato, vero?».
«No, no, non è questo, davvero. È solo una coincidenza, sì. Tranquillo.».
«Non farti intimidire, capito, fratellino? Cercano solo di fare i prepotenti per sentirsi più forti, ma in realtà non hanno il coraggio di fare sul serio qualcosa.».
«Massì, certo. Tranquillo, non è per quello. Grazie, comunque, sei un amico.».
Il pomeriggio, Dante si recò ad un parco non lontano da casa sua; andava lì ogni tanto, per stare solo, godersi un po’ di pace, nascondersi dai genitori, pensare, ascoltare musica o, nelle giornate più calde di maggio, studiare. Ci aveva passato le estati a giocare, quand’era piccolo, coi suoi amici delle elementari, perché anni prima la casetta bianca che si poteva vedere lontana dall’altro lato del campo fatto a L, mezza nascosta dai salici, era una ludoteca; diventata, col tempo, una qualche sede temporanea di circoscrizione, era stata infine abbandonata. E con lei il parco, che si trovava allora con gli alberi non potati, l’erba alta e stopposa, le vecchie porte da calcio arrugginite e senza più rete, le poche panchine di legno marcescenti e sempre umide. Ma a Dante piaceva quel posto: non poteva dimenticarsi le ore passate a divertirsi, era affezionato a tutto ciò che crollava e imbruttiva sotto il peso del tempo e dell’abbandono. Poi era sempre deserto, ed era l’unico luogo in cui poteva trovare un po’ di solitudine stando vicino a casa sua; entrando dal piccolo cancello posteriore, salutava con lo sguardo la casetta lontana alla sua destra, attraversava tutta la lunghezza del campo da calcio, passava di fianco a un imponente e solitario salice malinconico (ah! Quante fruste aveva ricavato dai suoi rami sottili, quando era solito giocare alla guerra! Si ricordava ancora il dolore di quando lo colpivano…), raggiungeva una parte del parco nascosta dalle frasche disordinate dei cespugli lasciati a se stessi e si adagiava infine sotto a un tiglio, anche quando d’inverno il terreno era bagnato, e quando in primavera nascevano tanti rametti rigogliosi alla sua base, e quando poi tornava a casa tutto appiccicoso per via della melata, d’estate. Quel pomeriggio si sedette sull’umido della rugiada che col freddo non evaporava mai, con in grembo il suo ratto arancione (si fidava a portarlo in giro, tanto era così pigro che non muoveva più di qualche passo, per cui non si sarebbe mai sognato di scappare via); sentiva un vago bisogno di piangere, ma da bravo uomo lo soppresse.
Fissò un carpino lontano una trentina di metri: una volta, un autunno di parecchi anni prima, aveva sommerso un suo amico con le foglie cadute. Non sentiva quel suo amico da anni…è proprio un peccato perdere i contatti. Quel bambino era stato il suo compagno di giochi per tutta l’infanzia, e nonostante ciò ora si trovava a ricordare a malapena il suo viso…e la sua voce, chissà com’era cambiata…chissà di quanto si era alzato, se gli era già spuntata la barba… «Forse i mesi per voi sono come gli anni.» mormorò al roditore, che già si era spaparanzato su una sua coscia con gli occhi semichiusi. «Per esempio, se uno di voi muore e passa un mese, magari per voi è come se fosse passato un anno, e quindi già dopo una settimana vi siete abituati alla sua scomparsa e non soffrite più. E dopo un anno reale ve lo siete completamente dimenticato…Noi invece riusciamo a soffrire per qualcuno che non fa più parte della nostra vita da decenni. Nonna pensa ancora al nonno, e lui è morto da qualcosa come quarant’anni; anche se non so se tu riesci ad immaginarti cosa significa quarant’anni di tempo, in realtà. E io torno ancora in questo parco solo perché sono cresciuto qui, anche se ora è solo brutto e abbandonato. La memoria è una bruttissima cosa…». Ma perché stava facendo quel discorso? Dio, stava parlando come un vecchio! E fortuna che all’apparenza era ancora un ragazzino! Si grattò la testa imbarazzato (sì, riusciva ad imbarazzarsi da solo), poi si mise a fare i grattini dietro le orecchie all’animaletto, che si addormentò all’istante. «Che cazzo il passato, quello che conta è il futuro, pensiamo a quello, piuttosto!». Sì. Al sabato successivo, per esempio.
La musica quella sera gli pareva ad un volume più alto del solito, era assordante: ad ogni “tunz” Dante si sentiva le tempie pulsare, la testa esplodere. Quella mattina si era svegliato stanco e sul pomeriggio tardo gli era venuto mal di testa; aveva seriamente pensato di starsene a casa e andare a letto subito dopo cena, ma alla fine la voglia di tentare di nuovo aveva avuto il sopravvento e, presa un’aspirina, era tornato alla discoteca per la terza volta. Ora però, appoggiato con le spalle a un muro, tentando di tenere gli occhi aperti e di resistere al dolore, quasi se ne pentiva. Era passata quasi un’ora e si era stancato di girare tra la bolgia mentre la gente continuava a urtarlo; stava pure iniziando a salirgli una certa nausea, ma non voleva andarsene, era una questione di principio. “Magari viene più tardi. Se me ne vado sempre presto non lo troverò mai. Ancora un’altra oretta, almeno un’altra oretta.”. E intanto la discoteca si riempiva sempre più, rendendo sempre più arduo il compito.
Indossava i vestiti della settimana prima; si era però risparmiato il gel. Suo cugino aveva ragione, la volta precedente aveva fatto ridere i sassi, per cui non aveva provato a rimetterselo.
Ad un certo punto incrociò lo sguardo con un suo compagno di classe, uno con cui non parlava quasi mai; si scambiarono un cenno di saluto, ma il ragazzo non andò da Dante a chiedergli come mai fosse lì o cose del genere; almeno i suoi genitori gli avevano insegnato a farsi gli affari suoi, eh! Non era da tutti.
Mentre rimuginava e sperava che il suo compagno continuasse a ignorarlo, la sua attenzione fu catturata da un tono di voce che si era fatto strada fino alle sue orecchie in tutto quel rumore, giusto per un secondo; Dante si girò di scatto per vedere la persona che aveva sentito parlare, ma non individuò nessuno. “Che fosse proprio la sua voce…? Boh…ma sono sicuro d’averla già sentita…”. Riprese a muoversi tra la folla, evitando la zona dove la gente ballava. “Ma davvero, che ci faccio qui…nemmeno so ballare, anche volessi…”. Stava iniziando a deprimersi. E la nausea stava pure peggiorando. No, davvero: se non avesse trovato Target quella sera –e non l’avrebbe trovato, lo sapeva, lo sentiva­– il sabato successivo non sarebbe tornato di nuovo, era inutile e aveva voglia di passare una sera in compagnia dei suoi amici; li vedeva qualche pomeriggio, ogni tanto, ma il sabato sera era diverso: il sabato sera era sacro.
Sbuffò annoiato, girò lo sguardo e improvvisamente quasi ebbe un colpo. Sgranò gli occhi: l’aveva trovato. Era lì, a parlare con altri due ragazzi, in mezzo alla folla, noncurante del casino attorno. Il suo cuore prese a battere all’impazzata, mentre sia mal di testa che nausea sparivano di colpo. E adesso? Come si doveva comportare?
Mosse qualche passo nella sua direzione avvicinandosi per timore di perderlo di vista tra la calca, poi rimase fermo a fissarlo a qualche metro di distanza; quella sera indossava una camicia a quadri in stile boscaiolo, una di quelle che andavano di moda e che Dante riteneva orripilanti…però, doveva ammetterlo, gli stava bene: aveva un fisico asciutto, adatto. Era piegato in due dal ridere, e Dante sorrise a sua volta: la sua faccia metteva allegria. Ma il nostro eroe non sarebbe mai riuscito ad avvicinarsi finché l’altro sarebbe rimasto in compagnia: già si vergognava da morire e non sapeva cosa fare, se poi con Target c’erano altre persone non avrebbe mai trovato il coraggio necessario per attaccare bottone. Dunque, aspettò: e parlavano. Aspettò ancora: continuavano a parlare; lui gesticolava, si vedeva che si trovava a proprio agio in quel posto, al perfetto contrario di Dante. E di nuovo: non la smettevano di parlare (“Ma come minchia fanno a sentirsi con tutto questo rumore?”). Parlarono per qualcosa come mezz’ora; poi il Target fece un gesto di assenso con la mano e si allontanò in direzione del bancone del bar: era il momento di agire!
Dante deglutì e lo seguì, avvicinandosi a lui mentre il ragazzo s’accingeva a ordinare qualcosa; a solo un paio di metri di lui, ancora non sapeva cosa dire; le mani gli tremavano. Avrebbe voluto poter aspettare ancora per prendere maggiore coraggio, ma sapeva che probabilmente quella sarebbe stata la sua unica occasione. Il suo sguardo si posò sulla catenina che, scomposta, scivolava fuori dalla camicia del ragazzo; “Virgilio” lesse, ripetendo poi tra sé e sé il nome, muovendo in silenzio le labbra. Virgilio, dunque, ordinò qualcosa da bere per sé e per i suoi due amici; mentre aspettava tamburellando le dita sul bancone e muovendo con noncuranza la testa a ritmo di musica, Dante si fece coraggio e gli mise una mano sulla spalla; rendendosi poi conto che probabilmente a lui avrebbe dato fastidio essere toccato così da uno sconosciuto, la ritrasse subito dopo. «Ehm…ciao.» mugolò dopo che l’altro si fu girato verso di lui. Virgilio lo guardò inizialmente smarrito, poi con sguardo interrogativo, strizzando un poco gli occhi, chiaramente chiedendosi in quale occasione aveva già visto il ragazzino che lo stava salutando. «Pro…probabilmente non ti ricordi di me, ehmm…».
«Oh…oh, massì! Non sei il piccoletto che era assieme a quei metallari che davano fastidio quella volta…? Ciao.». La spalla di Dante ebbe uno spasmo per quel “piccoletto”. «Che ci fai qui?» continuò Virgilio guardandolo. «Hai cambiato sponda?» sorrise.
«Nno…io, ehm…sono qui per…ehm…».
«Scusa un attimo.» fu interrotto Dante: erano pronti i tre cocktail che Virgilio aveva ordinato. Il ragazzo ne prese due in mano: «Li porto ai miei amici, arrivo subito.».
“E ora che cacchio gli dico?” pensò disperato Dante appena fu solo. “Merda merda merda…”. Ma non ebbe il tempo di escogitare una scusa soddisfacente, perché dopo meno di mezzo minuto l’altro era già di ritorno. «Allora!» gli diede una pacca sulla schiena. «Ti sei salvato, dobbiamo festeggiare! Cosa ti offro?».
«Salvato…?» domandò Dante, guardandolo confuso.
«Dal diventare come quelli lì! Hai seguito il mio consiglio.».
«Loro sono i miei amici, non devo “salvarmi” da loro.».
«Ma sei qui, ora, questo basta! Allora, cosa ti offro?».
«Offrirmi…? Ma no, non voglio che tu…ehm, vabbè, magari una birra, allora. Grazie.».
«Una birra? Ma ce le hai le papille gustative? Senti, ti piacciono i mirtilli, vero? Scusi! Me ne fa un altro, per piacere?» decise Virgilio per Dante, facendo vedere al barista il proprio bicchiere.
«Che roba è?».
«Succo di mirtillo, vodka e calvados. Ti piacerà, vedrai, è dolce.».
Virgilio si mise a parlare con lui come se lo conoscesse da tempo, senza nemmeno chiedergli il nome; non voleva sapere come mai era lì e Dante si sentì subito a proprio agio a conversare con lui. Scoprirono pure di andare nella stessa scuola; non si erano mai incrociati perché la classe di Virgilio era situata al pianoterra, mentre quella di Dante al secondo, ed erano due mondi separati («Ah, così fai parte di quegli stronzi della A e della B che non devono farsi due rampe di scale alla mattina appena svegli!». «Ehiii, siete voi che siete sfigati!!»). La prima impressione del nostro amico si era rivelata giusta: Virgilio gli sembrava proprio una persona piacevole, allegra e gioviale; continuava a offrirgli cose da bere, nonostante a Dante paresse di sfruttarlo; però quei cocktail erano così buoni…praticamente zero alcol, ma buoni…e Virgilio insisteva così tanto…mica poteva rifiutare! Anche perché sembrava che lì non facessero storie per l’età. Meglio approfittarne…
Dopo un po’, quando la tensione fu scesa, il mal di testa bussò però nuovamente alle tempie di Dante; il ragazzo a quel punto, portata a termine la missione e con la certezza di poter beccare il nuovo amico a scuola, avrebbe desiderato arrendersi alla stanchezza e andarsene; l’altro però non sembrava d’accordo.
«Balli?».
«Cosa?».
«T’ho chiesto se vuoi ballare.».
«Nno no no. Pensavo di andarmene, in realtà…e poi non so ballare.».
«Oh, eddai! Che ci sei venuto a fare qui, se no??».
«Non…a ballare, sicuramente…».
Virgilio insisté e lo trascinò verso il centro della sala, l’altro sgusciò via e si rifugiò vicino a una parete; il ragazzo tornò a prenderlo e dopo tanti dai e dai riuscì a portarlo in mezzo alla gente che ballava. Una volta lì, Dante ancora non si muoveva e se ne stava impalato e imbarazzato, guardandosi in giro, con la testa che iniziava a girargli leggermente a causa dell’alcol; ad un certo punto, però, si sentì prendere le braccia da dietro e qualcuno iniziò a muovergliele a ritmo; s’irrigidì come uno stecco quando si rese conto che era Virgilio che stava cercando di coinvolgerlo. Lo prese, gli fece fare giravolte, salti, tentava di condurlo nonostante la durezza del suo corpo; Dante apprezzò il tentativo, anche se si sentiva maledettamente goffo e impacciato.
«Ma guarda un po’ che ragazza carina s’è trovato Virgilio stasera!» commentò uno dei due suoi amici ridacchiando scherzosamente; il ragazzo in risposta lo mandò a cagare con un gesto della mano, senza però spegnere il sorriso che gl’illuminava il volto.
Il qualche modo Virgilio riuscì a sciogliere un poco Dante, e non gli permise di fermarsi nemmeno quando questi si disse senza fiato. Dopo un po’, al ragazzino sembrò quasi diventare divertente…
***
«…p-porc…».
Era notte fonda, anzi quasi mattina. Qualcosa come le quattro e un quarto. Dante era fermo a bordo strada, di fianco a un fosso, piegato in due, a vomitare l’anima. La sua bicicletta era buttata malamente a terra, abbandonata in mezzo alla carreggiata. Non si ricordava d’essersi sentito così male in tutta la sua vita; la testa era lì lì per esplodergli e la nausea gli faceva vedere doppio; stava pure morendo di stanchezza. “E pensare che c’era pochissimo alcol in quei cocktail…”. Già, ma non riusciva a contare quanti ne aveva ingollati. E l’agitarsi, e la musica ad alto volume, e le emozioni provate quella sera non avevano aiutato il suo malessere ad andar via, anzi. “Che coglione…è tanto se riuscirò a tornare a casa…”. Virgilio gli aveva proposto un passaggio col suo motorino («Ho pure due caschi, ho spesso dei passeggeri. Se ti va…»), ma avendo la bici Dante aveva dovuto rifiutare.
Riuscì ad essere a casa per le quattro e mezza; non vedeva l’ora di buttarsi a letto, ma appena entrò si ricordò di un dettaglio importante, anzi, importantissimo: i suoi genitori.
«Dante!!!». Sua madre, in camicia da notte, si alzò di scatto dal divano in soggiorno e corse alla porta d’entrata, dove stava il figlio, puzzolente di alcol e di vomito.
«Ehm…cia-».
«Dove sei stato?? Ti pare l’ora di tornare a casa??». Questo invece era suo padre. Vestito di tutto punto, lui. E incazzato nero. «Sono persino uscito per andare a cercarti, ti rendi conto?? Dov’eri??» abbaiò, scuotendo il figlio per le spalle.
«Abbiamo provato a contattarti ma avevi lasciato il telefono a casa! Abbiamo scomodato Trunks chiamandolo alle due, e lui era già a letto! Non s-sapevamo se chiamare i carabinieri! Non sapevamo dove potevi essere!». Sua madre aveva gli occhi rossi: doveva aver pianto.
«Io…io sono…s-scusate…». Si sentiva un verme, non sapeva come difendersi. Li aveva fatti preoccupare, lo sapeva. Si era completamente dimenticato di loro.
«Puzzi d’alcol, sì?? Hai bevuto, sei ubriaco?? Cos’è, ora vai in giro a fare l’alcolizzato??! Non dovrebbero nemmeno vendertelo, alcol!!».
«S-sì, ho bevuto un po’, mi hanno offerto un po’ di roba, ma…».
«Si può sapere dove sei stato…?».
«Oddio, no, mamma, ti prego, n-non guardarmi così…sono stato…ehm…io…sono…stato in una discoteca…».
«Oh, Dante…».
«Ma bene! Quindi ti sarai pure drogato! Bravo ragazzo, questa sì che è una buona strada, inizia ad impasticcarti a quindici anni! Ubriacati fino a stare male, così sì che diventerai qualcuno!».
«No, papà, io non ho-».
«Non m’interessa se vuoi rovinarti la vita facendo il debosciato, ma sappi che se questa è la strada che vuoi prendere devi fare i bagagli, e andare fuori da casa MIA!».
«Papà, PAPÀ!! Non farne una tragedia solo perché sono andato una volta!!! È la prima volta che vado, e sarà anche l’ultima, lo prometto! Non mi-» ma non finì la frase, perché gli arrivò un manrovescio.
«Non alzare la voce con me, guarda!!».
«…n-non con la sinistra, con l’anello fai male…» piagnucolò il figlio portandosi una mano alla guancia, riferendosi alla fede. «…non andrò mai più. Ho provato una volta, non mi piace, basta! Non fatene una tragedia! Mi dispiace di essere tornato a quest’ora, non mi sono reso conto di che ore erano! Mi dispiace, non volevo farvi preoccupare!».
Sua madre scuoteva la testa e guardava il pavimento, chiaramente delusa; aveva di nuovo gli occhi lucidi.
«Non credere di passarla liscia scusandoti, signorino! Ci hai fatto perdere dieci anni di vita! Da adesso sei in punizione, a tempo indeterminato! Guai a te se esci di casa per un motivo diverso dall’andare a scuola! Niente playstation, niente computer! Il cellulare te lo sequestriamo! Basta cazzate, adesso! Tu devi metterti a studiare, altro che discoteche e alcolici!! Se stai crescendo storto ti raddrizzo io, vedi come ti raddrizzo!!».
«NO! NON È GIUSTO!! Non sono andato a sgozzare le vecchiette in chiesa, che cazzo!!!».
«Sparisci! Non far più vedere quel tuo brutto muso ALMENO fino a mattina! Sparisci o ti faccio sparire io a calci in culo!!».
«Sei uno stronzo! Siete degli stronzi!! I ragazzi con dei genitori normali tornano tranquillamente a casa a quest’ora!! E se io non vi vado bene come figlio, divertitevi a farne un altro allora!! VAFFANCULO!!!». E una volta sbraitato ciò, Dante corse a barricarsi in camera prima che suo padre potesse reagire agli insulti.

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