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Autore: kalina    03/05/2013    9 recensioni
"Smisi di dondolare la gamba nell’acqua e sistemai meglio le braccia conserte dietro la testa, chiudendo gli occhi. Dio, ancora non ci credevo. Avevamo deciso di prendere in mano le nostre vite, di finirla di nasconderci dietro a futili pretesti e cominciare a goderci ciò che indubbiamente, dopo tanti anni e tante sofferenze, meritavamo. "
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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11 Buongiorno a tutte!
Con che coraggio mi faccio rivedere dopo tutto questo tempo? Lo so, sono pessima.
Se non altro, direte, ti farai perdonare con un capitolo strabiliante!
E invece no, mi dispiace, sarà già tanto se avrete l'enorme pazienza di arrivare fino alla fine senza legarvi un cappio al collo...
Però questa storia proprio non riesco ad abbandonarla, quindi ritorno sempre!
Comunque andrà a finire, vi ringrazio fin da adesso,
perché le vostre parole, i vostri complimenti, anche le vostre riflessioni, sono la soddisfazione più bella che potessi mai chiedere :)
Spero che arriviate indenni alla fine e, se ci riuscirete, farò del mio meglio per farvi presto una bella sorpresa!
Un bacione e grazie infinite di tutto <3





11.
Il programma di quel martedì prevedeva che trascorressi l’intera giornata al Lab, fino all’ora di cena, quando mi sarei recato in ospedale per affrontare la notte. Ovvero 24 ore precise senza vedere Colin.
Col cavolo.
Appena dopo le 8 mi ero già presentato nella stanza. Che trovai completamente vuota, se non  per Claudine che annotava qualcosa sull’agenda che teneva sulle ginocchia, un caffè fumante sulla sedia accanto a sé.
- Ehm… buongiorno… - borbottai, mentre mi avvicinavo con una certa titubanza.
- Oh, Jared! – esclamò lei, un po’ sorpresa, alzando la testa - Buongiorno… - mi sorrise – Scusami se non sono molto accogliente, ma stamattina non riesco proprio a carburare… Guarda, ho persino scritto la stessa parola tre volte di fila! –
- Ma no, figurati… - le sorrisi a mia volta – Capita! –
Rimasi a guardarla, aspettando spiegazioni sull’assenza di suo fratello dalla camera, ma lei continuò a fissarmi in silenzio, per alcuni lunghi secondi. Poi all’improvviso si riscosse e scrollò con forza il capo.
- Oh, ma certo! Colin! – si batté una mano sulla fronte – Te l’ho detto, scusami… L’hanno portato giù per fare la risonanza dieci minuti fa. –
- Ah… - biascicai, deluso.
- Se fai una corsa, dovresti fare in tempo a recuperarlo! Sono quasi certa che si trovi al piano di sotto. –
- Dici? –
Annuì energicamente, per poi agitare una mano verso la porta alle mie spalle.
- Sbrigati! Su, su, vai! –  
In men che non si dica, avevo già infilato il corridoio e raggiunto rapidamente le scale, saltando i gradini a due a due. Mi fermai a cercare l’indicazione per il reparto su un grande cartellone bianco e, individuatala, ripresi a camminare con passo svelto, accelerando sempre di più, finché, svoltando l’ennesimo angolo, riconobbi a pochi metri da me il profilo di Rita. Rallentai appena, cercando di recuperare una qualche compostezza.
Quarant’anni, Jared. Quaranta. Prova a ricordartene ogni tanto.
Non feci in tempo a richiamare la sua attenzione, che Rita si voltò e notai che era al telefono; senza interrompere la conversazione, mi salutò con uno dei suoi grandi, famosi sorrisi e mi indirizzò con l’indice della mano libera verso la porta di vetro poco più avanti. Le sussurrai un “grazie” e mi avventurai oltre quella soglia.
Mi ritrovai in una piccola sala scarsamente illuminata, su cui si aprivano numerosi vani, molti dei quali, da quel che riuscivo a scorgere, avevano una parete completamente in vetro. Tutto era avvolto nel silenzio, se non per un ronzio costante e piuttosto fastidioso che doveva provenire dai macchinari.
Non avevo la minima idea di dove andare, cosa fare o a chi rivolgermi, ma la fortuna arrivò di soppiatto alle mie spalle con voce squillante.

- Salve, Jared! Immagino sia qui per il signor Farrell! –
- Oh, Leia, buongiorno! – le sorrisi – Sì, lo sto cercando in effetti, mi hanno detto che si trova qui, ma… - mi guardai intorno con aria lievemente sperduta.
- È nella stanza numero 3. – la indicò con un cenno del capo – L’esame comincia tra cinque minuti, quindi faccia presto! – concluse strizzandomi un occhio.
La ringraziai e mi avvicinai alla porta in questione. Presi un bel respiro, scacciando definitivamente il fiatone, e spinsi sulla maniglia. Mi si parò davanti un ambiente spazioso, anch’esso illuminato con sfumature tiepide, pallide, ma decisamente avvolto in una bassa temperatura. 
Sfregandomi le braccia per attenuare il freddo, mi avvicinai al grande macchinario sulla parete di fondo, dalla cui estremità, distese su di un piano orizzontale, spuntavano le gamberelle nude di Colin. Soppressi a stento una risata, pensando a quante arie usava darsi sempre riguardo le sue possenti gambe da calciatore irlandese. “Perché voi americani vi credete chissà chi, ma delle cosce così, vedi, dei muscoli del polpaccio così non ve li sognate nemmeno!”. Aveva delle belle gambe, in effetti.
Mi distrasse dai miei ragionamenti la bislacca impressione che Colin stesse borbottando qualcosa.

- … to save a life. –
Mugugnava? Feci qualche passo verso di lui, tendendo l’orecchio.
- … would you kill to prove you’re right … -
Cantava?
- Crash crash, buuuuurn, let it all burn, this hurr –
- Colin?! – non riuscii proprio a trattenere.
Lo vidi tirarsi su di scatto, quasi sbattendo la testa contro il lungo tubo che lo conteneva.
- Cazzo, Jared! Mi hai fatto venire un infarto! –
- Scusa … Ma che stai facendo?? –
- Una risonanza, cosa cazzo ti pare che stia facendo?! – brontolò, risistemandosi in posizione supina.
- Canticchi! Hurricane! Canticchi la mia Hurricane! -  constatai tutto soddisfatto, ma ancora piuttosto sbalordito.
- Ah, sì! Sì, hai visto? – la sua voce mi giungeva un po’ ovattata dal centro del macchinario - Alla fine ne ho trovate di canzoni che mi piacciono nella tua cartella! Al momento questa è la mia preferita. –
Mi ritrovai a gongolare come un adolescente della peggior specie. Avrei giurato di avere l’espressione di un beota. Per fortuna, riflettei, Colin non poteva vedermi in faccia. Poi mi resi conto che l’uomo in camice bianco al di là dal vetro poteva eccome, così mi diedi una svegliata, abbassai lo sguardo, imbarazzato, e mi avvicinai di più al fianco di Colin, poggiandogli una mano sul ginocchio sinistro.
- Sei freddo… Hai freddo? Fa freddo qui dentro. – dissi, dando prova della mirabile estensione del mio vocabolario, al momento.
- Freddo? Nah..! Sono irlandese, io, tu non hai idea di cosa sia il freddo! –
Alzai gli occhi al cielo, intenzionato a rispondergli qualcosa, quando sentii il ginocchio sgusciare al mio tocco e nel giro di un nanosecondo mi ritrovai Colin seduto sul bordo del lungo tubo, il camice arricciato fino alla vita.
- Colin, ma sei impazzito? –  starnazzai, non sapendo bene cosa fare.
- Stai tranquillo, ora rientro subito! – disse, scrollando le spalle ed esibendosi nel suo sorriso birichino – Menomale sei passato, pensavo di chiamarti… -
- Qualcosa non va? Per stasera, forse preferisci ch –
- Per stasera, sì! Pensavo, ecco, che potresti portare un film e potremmo vedercelo insieme… - lo guardai accigliato – Un film qualsiasi che non ricordo di aver visto ma che tu sai che mi piace, non saprei… Scegli tu! –
- Oh… d’accordo… D’accordo, sì, buona idea. – scorsi dei movimenti, di là dal vetro – E’ meglio che tu ti rimetta giù, però, adesso. – Mi spostai davanti a lui, così da indurlo a ritirarsi – Ci vediamo più tardi. E tieni duro, sono gli ultimi esami. – gli feci l'occhiolino, mentre lui si distendeva di nuovo, pronto a rinfilarsi nel tubo.
- Buon lavoro! - esclamò, prima di sparire nuovamente – E augurami buona fortuna! –
Sorrisi, anche se non poteva vedermi: - Grazie! E buon fortuna, Colin. –
Uscii, scambiandomi con Leia, probabilmente tornata per controllare che tutto fosse a posto. Sperai, con un semplice sguardo, di poterle trasmettere la gratitudine e insieme la costernazione per il contrattempo recato. Mi appoggiai alla porta richiusa alle mie spalle e sospirai.
Buona fortuna anche a te, Jared.


Artifact riuscì a tenermi impegnato tutto il giorno.
Escludendo la pausa pranzo con Emma e i ragazzi, durante la quale mi ero scambiato un paio di messaggi con Eamon per assicurarmi che Colin stesse bene, ed una breve telefonata con mia madre, rimasi incollato allo schermo del mio super accessoriato Mac, cliccando, editando, tagliando, aggiungendo. Insomma, lavorando come un matto e con una certa soddisfazione. Il tutto accompagnato dal sottofondo perlopiù continuo della batteria di mio fratello, quel giorno particolarmente ispirato, che suonava come un matto al piano terra, facendo risuonare l’intero edificio di frenetiche note rock.
Avevo portato con me un borsone con tutto il necessario per la notte, così da non dover passare da casa e, alle 18,30, puntuale come un orologio svizzero, mi apprestai a seguire Jamie, offertosi di darmi un passaggio fino all’ospedale. Essendo l’auto parcheggiata vicino al cancelletto dell’ingresso posteriore del Lab, mi ritrovai a dover passare dalla piscina, per raggiungere le scalette in metallo che portavano all’uscita. Rimasi bloccato per qualche indefinito istante ad osservare l’acqua che si muoveva lentamente, il bordo bianco della vasca su cui mi piaceva sedermi da solo a pensare.
Una settimana. Era passata una settimana dalla sera in cui me ne stavo lì a godermi le rosee prospettive della mia esistenza futura.
Avevo perso tutto. Svanito, in una manciata di secondi. Sette miseri giorni. Un’eternità.



- Certo che sono sicuro! Non ci sarà alcun tipo di problema. –
- Mmm… Perché non ne sono per nulla convinta? –
- Te l’ho già detto, Roxy… - sospirai, mentre salivo l’ultimo gradino delle scale e raggiungevo finalmente il terzo piano, dove mi soffermai qualche secondo – Nemmeno io ho fatto i salti di gioia all’inizio, ma ormai ho dato la mia disponibilità e tutti là dentro mi aspettano. Andrà tutto bene. –
- Tesoro, lo so che pensi di poter gestire questa situazione. Tu sei fatto in questo modo, credi di essere d’acciaio e di poter gestire ogni situazione, ma non è così. Non è così soprattutto quando si tratta di Colin. –
Roteai gli occhi. Detesto realizzare di avere torto.
- Senti, lui dormirà e io dormirò! – ripresi a camminare e passai il cellulare da un orecchio all’altro – E’ solo una notte, sono poche ore, se ci pensi, e le supererò indenne, vedrai. Adesso però devo lasciarti, perché sono praticamente arrivato. –
- No! Jared, no! Allontanati subito da quella porta, mi senti? E se proprio ci tieni a fare questa enorme sciocchezza, almeno sfrutta l’occasione per dirgli la verità! Qualunque cosa, ma smettila di immolarti sull’altare del sacrificio gratuito, hai capito?! –
Potevo benissimo figurarmela, mentre concitata e indispettita, girava in tondo nel suo piccolo camerino newyorkese.
- Si può sapere perché perdo ancora tempo a parlare con te? –
- Perché sono l’unica con un minimo di senno, a quanto pare. –
- Sì, come no… Ma ora sto davvero entrando, quindi ciao! – tagliai corto, abbassando il tono, gli occhi puntati sul piccolo 31 blu nel rettangolino accanto allo stipite bianco, dritto davanti a me.
- Jared! Jared, ascoltami! –
- Ti chiamo domani, Roxy. Buona serata anche a te! –
Infilai velocemente il blackberry in tasca, feci un bel respiro ed aprii subito la porta, prima che potesse cogliermi un codardo ma sano ripensamento.
- Eamon, te lo dico per l’ultima volta! Finiscila di rubare il cibo a tuo fratello. È lui che deve rimettersi, tu stai già anche toppo bene, mi pare! –
La prima immagine che mi trovai davanti fu quella di un accigliato signor Farrell che redarguiva il figlio maggiore, intento a sgranocchiare un qualcosa di appena sottratto alla cena del fratello. Colin era seduto sul proprio letto, un vassoio contenente vaschette dall’aspetto poco invitante rialzato sulle sue ginocchia.
Come al solito tutti mi riservarono un’accoglienza cortese e festosa. Mi sedetti con loro vicino al letto, fintanto che Colin finiva di mangiare con poca convinzione quel che gli spettava; Rita si preoccupò che avessi a mia volta cenato e potei rassicurarla. Più per caso che per altro, durante il tragitto in macchina, avevo trovato nel mio borsone una fetta della torta salata di Tomo e una banana, provvidenzialmente riposte lì da qualche anima buona prima che lasciassi il Lab. Il cibo non è mai stato una delle mie priorità e ammetto che in quei giorni non fosse affatto nei miei pensieri, ma per quella sera ero decisamente a posto.
Ricevetti il resoconto degli avvenimenti clinici e non del giorno e, una volta passato l’inserviente a ritirare il vassoio, assistei all’ammutinamento dei Farrell.

- L’hanno strapazzato di qua e di là per tutta la giornata, vedrai che ti crollerà in un batter d’occhio senza troppe rotture! – mi ammiccò Claudine, provocando un bofonchio lamentoso da parte di Colin.
Dopo il rapido giro di saluti e sbaciucchiamenti vari, Eamon assestò il colpo finale al mio stato d’ansia quando, mentre chiudevo la porta della camera, dal corridoio sventolò in aria i pugni chiusi in segno di vittoria e incitazione, bisbigliando un accalorato “in bocca al lupo”.  
Ma che si aspettavano tutti da quella serata?!
Non ebbi modo di affrontare il probabile momento di imbarazzo che avrebbe dovuto seguire, perché, come mi voltai,  vidi Colin impegnato a scendere dal letto.
- Ehi, ehi, ehi! – preso alla sprovvista tornai velocemente verso di lui – Cosa pensi di fare, scusa?! –
- Solo due passi per il corridoio… - disse, alzando lo sguardo su di me – Oggi davvero non mi hanno lasciato un minuto per respirare. –
- Non se ne parla nemmeno! –
Mi fissò sorpreso per qualche secondo, poi riprese a muoversi come per alzarsi: - Ma per piacere! –
- Rimettiti giù, sai! – lo rimbrottai deciso, parandomi a un centimetro da lui, le braccia incrociate sul petto – Credevi che rimanere solo con me significasse far baldoria, eh? Hai capito proprio male! –
- Oh, andiamo..! Ho solo voglia di muovermi un po’! – cercò di convincermi con l’espressione e il tono addolciti, ma negai con la testa in modo risoluto – Bene, saranno fieri di te alla scuola militare in cui ti hanno addestrato! – sibilò allora.
Stava già rimettendosi sotto al lenzuolo, quando decise di giocare la sua ultima carta, voce sommessa e occhioni da cucciolo: - Neppure un giretto per la stanza? –
Mi guardai brevemente intorno e sospirai: - Il tavolino, ti concedo di sederti per qualche minuto al tavolino. Prendere o lasciare. –
Osservò velocemente il punto cui mi riferivo, poi mi guardò: - Ok! Facciamo anche una partita a carte? -
- Uhm, d’accordo… Vuoi una mano per arrivare fin là? –
- No, no no. Ce la faccio benissimo da solo, grazie… Le carte sono nel secondo cassetto del comodino.- mi rispose, alzandosi lentamente e dirigendosi verso la parete di fondo con andamento un po’ traballante.
Presi le carte e lo seguii, aspettando che si sedesse e sistemando una seconda sedia dall’altro lato del tavolino. Mi fece segno di passargli il mazzo e cominciò a mescolare con mano esperta, sorridendomi.
Era bello, non c’era niente da fare. Smemorato o meno, cazzone o meno, era l’uomo più bello che avessi mai incontrato. O visto. O immaginato.

Cominciamo bene.
Mi diedi una scrollata e gli sorrisi a mia volta.
- Allora, è andata bene la tua giornata? La mia è stata un inferno, non mi hanno lasciato in pace un attimo… -
- Però ne è valsa la pena, no? Da quel che ho capito sei sano come un pesce e domani finalmente torni a casa! –
- Già! - pose il mazzo di carte in mezzo al tavolo perché lo alzassi, per poi riprenderlo – Casa… Sono proprio curioso di vederla, la mia casa… Ma soprattutto ho voglia di mangiare qualcosa di decente! –
Risi, cominciando a tirar su le carte che mi aveva distribuito: - Un lungo periodo di inattività fisica unito alle ricette di tua madre?! Diventerai un grassone, poco ma sicuro! – conclusi, senza distogliere l’attenzione dalle mie carte.
- Non fingo nemmeno di offendermi, finirà così di certo! – ridemmo entrambi – Hai lavorato al tuo documentario? –
- Sì, ininterrottamente. E al momento mi sembra che non ne verrò mai a capo. –
- Sei un perfezionista, eh? –
Lo ero e lui non aveva mai apprezzato particolarmente la mia tendenza a dedicarmi anima e corpo ad un progetto finché non ne fossi totalmente soddisfatto. Giorni e giorni chiuso ad occuparmi solo di quello, isolato dal resto del mondo. La chiamava ossessione, non perfezionismo. Per cui mi sentii quasi sollevato dall’ignaro sorriso che mi aveva rivolto e annuii gentilmente.
- Devi farmelo vedere, comunque! Magari a casa, con più calma. –
Chiacchierammo per tutta la partita di Artifact e di cosa volessi esprimere e rappresentare attraverso la sua realizzazione. Gli raccontai nei dettagli della brutta esperienza con la EMI e in generale di quanto poco pulito fosse il mondo delle case discografiche. Parlai della mia ancor nebulosa aspirazione a produrre, un giorno, i miei stessi album e quelli di artisti emergenti. Non so se quanto dicevo gli interessasse davvero o servisse a distrarmi dal gioco, sta di fatto che persi miseramente.
- Immagino tu voglia la rivincita..! – sghignazzò compiaciuto, radunando le carte.
Guardai l’orologio: - Credo che dovresti dormire… L’ha detto anche tua sorella che –
- Non vado in terza elementare e mi rifiuto di dormire prima delle nove! –
Lasciai andare un lungo respiro, rassegnato: - Vada per la rivincita, poi vedremo se piangerai come un bambino di terza elementare… -
Gli lanciai il mio subdolo sguardo di sfida e lui ridacchiò soddisfatto, riprendendo a mescolare le carte.
- E… lui? L’hai sentito? – buttò là, come se niente fosse, senza neppure distogliere l’attenzione da quanto stava facendo.
- No, non direi, no. – risposi prontamente, seppur colto di sorpresa.
- Non vorrei che fosse perché passi troppo tempo qui in ospedale… - continuò piatto, gli occhi ancor puntati sulle carte.
- Cosa? No, no, assolutamente. È così e basta, non dipende da niente… è solo un periodo di pausa, te l’ho detto. –
Alzò lo sguardo su di me, tenendo il mazzo fermo tra le mani.
- Non hai voglia di parlare del presente, eh? – scrollai le spalle, tirando le labbra nella classica espressione di chi glissa su qualcosa – Uhm… di certo non puoi negarmi la telenovela sul tuo passato! – esclamò, prendendo a dare le carte.
Sapevo che sarebbe arrivato quel momento e sapevo che avrei dovuto affrontarlo con qualcosa di già preparato. Il 2005 era stato un anno d’inferno, pieno di problemi, ostacoli, fardelli, quasi come se una difficoltà chiamasse un inghippo, un’indecisione portasse irrimediabilmente ad un errore. L’inizio del tour con la band, i suoi ritmi lavorativi sempre più massacranti, la scoperta della malattia di James, piombata dal cielo con un tonfo inarrestabile, l’assedio via via più intollerabile da parte dei paparazzi… la distanza fra noi, che cresceva ogni giorno di più, prendeva forma e accumulava peso, si ingigantiva ad ogni appuntamento saltato, ogni telefonata mancata, ogni e-mail rimasta senza risposta. E l’alcol, l’unico rimedio che Colin conosceva per placare il proprio dolore, mettere a tacere il proprio io insoddisfatto, nascondere ciò che non voleva vedere. Un vizio che si portava dietro fin dall’adolescenza, da quel che mi aveva raccontato in Marocco, a cui fin dall’inizio avevo dovuto far fronte, ma che col tempo se lo stava divorando; gli dava l’illusione di stare bene, di essere invincibile, scevro da ogni preoccupazione, e nel frattempo lo consumava, letteralmente.
Annus horribilis, insomma, concluso in bellezza con il collasso che si era procurato in Florida, durante l’ennesima nottata brava al termine delle riprese di Miami Vice. Birra, vino, whiskey, vodka, droghe di ogni tipo, donne, sconosciute, prostitute, qualsiasi cosa era buona. Per fortuna Eamon si trovava lì con lui in quei giorni ed io stesso ero in città, non poi così casualmente. Insomma, un anno strapieno di sciagure, con un culmine adeguatissimo ai prodromi. Un’escalation di eventi tanto negativi quanto specifici, non potevo raccontarli a Colin così come stavano. La sera prima, raggiungendo il punto della storia in cui mi ero fermato, mi ero subito reso conto che avrei dovuto almeno in parte modificare i fatti del seguito, sfumarne un po’ i contorni. Seppure in modo generico, Colin doveva pure aver saputo qualcosa del suo passato/futuro o comunque qualcuno gliene avrebbe parlato più approfonditamente. Non era il caso di rischiare proprio in quel momento.
Ma la novità improvvisa della notte da passare insieme mi aveva colpito e agitato così tanto che avevo velocemente dimenticato tutto. E così ero rimasto per chissà quanto tempo steso in camera mia a fissare il soffitto, al buio, riflettendo su cosa avrei dovuto fare, cosa avrei dovuto dire, invece di trovare una soluzione accettabile per il giorno dopo.

E ora sei qui, tutto eccitato al pensiero di trascorrere le prossime ore con lui e senza la minima idea di cosa raccontargli. Manco fossi alle medie. Deficiente cronico.
- Non ti va di giocare in silenzio? – tentai
- Certo che no! – brontolò accigliato – A meno che la conclusione mielosa di ieri non si prolunghi in un continuo da romanzo rosa… -
- Ah, proprio no! Su quello puoi stare tranquillo… -
- Ahi ahi ahi! Tono tra il sarcastico e il rassegnato, promette nubi all’orizzonte? –
- Un uragano. Bello e buono. – tirai corto, avvicinando il busto al tavolino e giocando la mia prima carta.
Colin giocò a sua volta la propria, si abbandonò all’indietro sullo schienale della sedia e mi fissò, senza dire una parola. Aspettava la mia mossa successiva, non per forza quella legata alla partita. Allontanai gli occhi dal suo sguardo tenace, inspirando e rassegnandomi al fatto che in qualche modo mi sarei dovuto arrangiare.
- Hai presente quel “Solo tu ed io” tanto promettente prima di Natale? – Colin annuì convinto – Ecco, l’epifania se lo portò via insieme all’albero e a tutti i regali…- la sua espressione si trasformò immediatamente –  Fu un anno difficile, quello, va detto. Cominciò subito male, con le pessime recensioni di Alexander… Invece di ritrovarci agli Oscar, come avevamo sperato e presagito fin dall’inizio, ricevemmo solo bastonate da quasi ogni fronte. Lui non avrà avuto un ruolo tanto importante, ma la delusione fu generale e lo coinvolse parecchio. -  se l’era sentita tutta addosso, eccome, la responsabilità di quel fallimento, una responsabilità che non era sua. Ma il senso di colpa, la tremenda botta di realtà che l’aveva catapultato da tanta probabile gloria ad un inarrestabile vortice di critiche lo aveva reso vulnerabile, lo schiacciava, lo faceva vergognare. Aveva parlato di voler mollare tutto e per mesi avevo cercato di fargli capire che non aveva nessun motivo per sentirsi così. Ma è difficile a volte ragionare con chi vuole solo accantonare le questioni, spiegare le cose a chi si tappa le orecchie. – Si buttò allora in questo nuovo progetto, un film con cui si augurava di poter recuperare e accrescere la propria popolarità – era già al culmine, in realtà, e il set di Miami Vice era stato uno strazio per lui, un vero e proprio pedinamento della stampa scandalistica che attendeva con la bava alla bocca qualsiasi sua mossa, preferibilmente avventata o sopra le righe; ore di appostamenti, pur di ottenere uno scatto che alimentasse le voci sul divo incontrollabile e irresistibile del momento-, ma ben presto le difficoltà di lavorazione si moltiplicarono e le riprese si trascinarono tra varie interruzioni per lunghissimi mesi. E poi, purtroppo, ebbe dei problemi con la bambina. –
Aleggiava da qualche tempo il sentore che James avesse qualcosa che non andava. Per quanto lo sviluppo di ogni bambino vari individualmente, era diventato innegabile, ad un certo punto, che lui non rispettasse per niente i parametri. Cominciarono le prime visite, i primi pareri poco rassicuranti, le prime prese di coscienza che un qualche disordine ci fosse. Dopo l’estate, alla fine, la diagnosi sulla sindrome e le prospettive di quella che sarebbe stata la sua esistenza disagiata.
Con gli anni, per la verità, le cose erano andate meglio del previsto. Era indiscutibile che il bambino avesse delle difficoltà, delle grandi limitazioni, rispetto ai suoi coetanei, ma non era triste, non era malato, era solo speciale. Se c’è una cosa che James non porta nella tua vita è la malinconia; lui è felice, sempre, anche quando non penseresti mai che potrebbe esserlo. E riesce a rendere felici tutte le persone che roteano nella sua orbita. James è in assoluto il fulcro, la linfa, la grande risorsa di Colin; è il suo orgoglio.
Ma all’epoca le previsioni erano tutt’altro che rosee e fu un duro colpo, un’altra responsabilità che per qualche motivo Colin sentì di doversi assumere. Ancora senso di colpa.

- Che tipo di problemi? – mi sentii domandare
- Ecco… - ecco! E ora..? – problemi del tipo, sai… Non…La madre della bimba non gliela lasciava vedere abbastanza – pessima scusa, perdonami Kim – Diceva che il suo stile di vita non giovava alla piccola. – Colin aggrottò la fronte, ma rimase in silenzio – In tutto questo io ero impegnatissimo con l’uscita del nuovo album. Il secondo, sai, quello con la tua amica From Yesterday, The Kill… - sorrise e annuì – e nutrivo molte aspettative, era un disco diverso e più grandioso, dal mio punto di vista, rispetto al precedente. E poi partirono i viaggi di promozione e soprattutto il tour! Ero pompatissimo, non puoi immaginare! – forse dovevo avere un aspetto anche troppo entusiasta, ma era sempre piacevole ricordare quel periodo – Ed ero anche sereno, perché stupidamente illuso che le cose con lui andassero bene, che avessimo raggiunto una sorta di, non ti dico classica e sicura relazione, ma almeno un certo equilibrio tutto nostro all’interno del quale muoverci agevolmente. – rimasi assorto per qualche secondo, per poi scuotere il capo e riprendere – Ma per lui non era così. Per lui non dovevo essere che un’ulteriore complicazione alla sua già problematica vita. E un metodo elementare per svagarsi e fingere di stare bene è quello di fare lo stronzo e scoparsi qualunque essere a due zampe capace di respirare. Con un bel seno, ovviamente; un bel seno è l’ideale per farmi sentire inadeguato. – non fu volontario, ma lasciai che il mio tono diventasse  via via più acido – Certo non si può dire di lui che non sia sempre stato un uomo corretto e galante. Una notte, per mettere fine ai dubbi che ultimamente mi assillavano, mi chiamò, palesemente ubriaco fino al midollo, il respiro corto e la chiara presenza di una qualche poco di buono vicina a lui, per informarmi che “no, Jay, non ce la faccio, è meglio godersi la vita senza rinunciare a niente”. –
Scrollai le spalle, guardando Colin come se davvero non stessi parlando di lui, come se quel che dicevo non avesse più alcun potere di farmi male. Lui, le labbra dischiuse, lo sguardo sgomento, era pietrificato.
Volevi la tua storia? Eccola.

- Chi lo sa, forse se gli fossi stato più vicino, gli avessi dedicato più tempo, materialmente… forse se avessi capito che mi stava allontanando perché non sapeva più dove sbattere la testa… forse… Ma sai cosa? In più di un’occasione lui ha combinato casini, e io, come un idiota, mi sono incolpato dicendomi “Jared, ma se…”. E invece no! C’è voluto tempo, ho dovuto morire dentro, sai? Ma l’ho capito. Sa essere uno stronzo. Punto. Io non avrei potuto farci niente comunque. -  
Mi ero innervosito, stupidamente. Mi faceva sempre quell’effetto ripensare ai guai del passato dopo che era successo di Alicja. Era come se ogni problema, anche anteriore, lo ricollegassi a lei, come se ciascun torto che Colin mi aveva fatto, ciascun piccolo pezzo di dignità che ogni volta mi aveva portato via, andassero ad accumularsi nel dolore più grande che mi aveva provocato. Ero più sereno nel ripercorrere i suoi sbagli, prima; negli ultimi anni, ogni ricordo negativo mi faceva infuriare. Mi calmai e mi schiarii la voce.
- Sta a te tirare. – dissi piano, indicando il piano da gioco.
Mentre parlavo, non avevamo interrotto la manche, che stava ormai volgendo al termine, anche se Colin era rimasto immobile negli ultimi minuti.
- Sì, scusami. – si riprese, abbassando gli occhi sulle carte e scegliendo quella da giocare.
Il filmino porno!
Ecco, cosa mi era sfuggito di quel periodo del cavolo, il filmino porno! Un’illuminazione istantanea! Ora c’era veramente tutto!
Il video hard più famoso del 2005, sicuramente ancora nella top 10 delle prestazioni amatoriali rubate ai vip. L’aveva girato tre anni prima, in realtà, ma la furbona che si faceva all’epoca aveva scelto quel momento, quando Colin era salito sulla cresta dell’onda, per divulgarlo sul web.

Ora che ci penso i suoi ricordi dovrebbero essersi arrestati più o meno al periodo in cui frequentava proprio la scaltra coniglietta. Chissà se l’ha già girato, nel suo cervello, il filmato… Casomai più in là glielo chiedo.
Comunque sia, almeno per quel fatto non me l’ero presa. Per quanto le persone dicano, lo trovai allora, e lo trovo ancora, un filmato piuttosto triste e degradante.
Se davvero fosse quello l’ascendente sessuale che Colin esercita su di me e quella la sua abilità media, probabilmente non starei qui a lagnarmi dei miei problemi, dato che sarei riuscito a liberarmi di lui molto, ma molto tempo fa.
Qualcuno, però, che a modo suo aveva apprezzato tantissimo il video, lo conoscevo bene. Mio fratello, ovviamente. Santo cielo, non saprei dire perché, ma lo trovava incredibilmente spassoso. Per mesi e mesi aveva riso a crepapelle e, a chiunque gli domandasse quale fosse il suo film preferito, rispondeva serio e compiaciuto “il porno di Colin Farrell”. Tutto questo aveva avuto tragicamente fine il pomeriggio in cui era rincasato senza preavviso e si era ritrovato nel bel mezzo di una riproduzione dal vivo sul divano del salotto. Era stato imbarazzante, ma se non altro lo aveva zittito per sempre.
Mi venne da ridere nel ripensare a tutto quel caos e, nel silenzio, Colin mi guardò incerto. Riuscii a rimanere serio, non era quello un argomento di cui potessimo parlare, troppo specifico, la casualità non avrebbe retto.

- Del resto – ricominciai da dove mi ero interrotto – non è che avermi vicino lo aiutasse più di tanto. Durante i nostri ultimi incontri non era neppure tanto lucido. Sì, perché devi sapere che il tocco finale in questo incantevole quadro erano le droghe. Aveva provato qualcosa, occasionalmente, come fanno tutti; non sono certo qui a dirti di essere sempre stato un santo. Un paio d’anni prima aveva avuto dei problemi alla schiena, così aveva cominciato ad assumere degli antidolorifici. – si era fatto male, due volte, mentre giravamo in Tailandia e ne aveva avuto seriamente bisogno - Dalla dipendenza farmacologica all’uso frequente di pasticche e cocaina il passo è breve, lo sai anche da solo. –
- Un cliché piuttosto triste… - intervenne.
- Sai, non credo che la celebrità c’entrasse qualcosa in tutto questo… Non è il tipo di persona che cambia e si crede chissà chi solo perché è sbarcata ad Hollywood, che deve darsi un tono, provare gli eccessi ad ogni costo. Penso che si portasse già tutto dentro. – incontrai di sfuggita i suoi occhi scuri, per poi concentrarmi su una macchiolina verde sul tavolino – Penso che fosse infelice e fragile già da molto prima, anche se a vederlo era l’ultima impressione che avrebbe potuto trasmettere. Frequentare un ambiente come il nostro, un vero vespaio di insidie, una sorta di spirale dove ogni vizio è amplificato, ogni imperfezione cresce e si trasforma in qualcosa di più grande a velocità raddoppiata, probabilmente non ha che favorito e affrettato il suo percorso. Sta di fatto che almeno quando eravamo insieme non sentiva il bisogno di sballarsi. – buttai giù la mia ultima carta e tornai a rivolgermi direttamente a lui - Anzi, sentiva il bisogno di mantenere salda ogni sua capacità cognitiva. Erano rare, ormai, le occasioni in cui riuscivamo a rubarci un po’ di tempo solo per noi; un paio di giorni, a volte un paio d’ore. Ma in quei pochi, preziosi momenti, avevo ancora la possibilità di avere lui, di sentire lui, di stare con lui. Ero assurdamente capace di passare sopra tutte le sue mancanze e di assaporare il fatto che con me non gli servisse altro, che gli bastassi io, che fossi l’unico in grado di farlo essere in pace con sé stesso. Ero più forte io di ogni droga, – evitai di nominare l’alcol, vero protagonista della sua rovina, per non avvicinarmi troppo alla storia di sé che già conosceva. Gli antidolorifici e le altre schifezze ben più pesanti che assumeva erano un problema, sì, ma non ne avrebbe nemmeno fatto uso se fosse stato capace di rimanere sobrio - almeno fino ad un certo punto. L’ultimissima volta che l’avevo visto era così fatto – e ubriaco -  da scaraventarmi contro un soprammobile di cristallo, un fantino di finissima lavorazione, che mi schivò di poco per poi frantumarsi a terra in mille pezzi. Subito dopo si abbandonò sul tappeto in lacrime, strillando insulti e suppliche insieme, finché, addormentato, o svenuto, non si mosse fino alla mattina. Rimasi accanto a lui tutta la notte, occhi sempre aperti, immobile, se non per un leggero tremore, per assicurarmi che stesse bene. – feci una piccola pausa, mordicchiandomi l’unghia del pollice destro. Quasi un senso di compatimento che andava a sostituire il panico di quella notte, scolpita irrimediabilmente nei miei ricordi. Colin, le braccia rigidamente stese sui braccioli della sedia, aspettava, visibilmente attonito.- Poi me ne andai senza una parola e né io né lui ci facemmo sentire per un bel po’. Eppure, nonostante tutto, quando tra le varie tappe per la band mi furono proposte tre serate a M – mi bloccai appena in tempo ed ebbi la prontezza di spirito di fingere di grattarmi una guancia – Memphis, dove lui stava finendo di girare le ultime scene del suddetto film, non riuscii a tirarmi indietro. Non l’avevo neanche avvertito, non ero sicuro di come avrei gestito la cosa; probabilmente avevo in testa di fargli una sorpresa, sperando risultasse gradita, dato che non ci eravamo lasciati nel migliore dei modi. Ma ci pensò lui a farmela, la sorpresa. – Colin corrugò la fronte – Un…incidente… - pensa velocemente, Jared, spremi le meningi – mentre faceva il giro dei locali notturni, sbandò con la macchina. Si ridusse piuttosto male e fu trasportato di corsa in ospedale. Sotto l’effetto di molteplici sostanze stupefacenti, s’intende. –
Nessun incidente, il suo cuore aveva semplicemente smesso di battere. Per fortuna Eamon si trovava lì con lui e mi aveva avvertito subito. Non si aspettava che fossi tanto vicino, ma mi aveva confidato, in seguito, di esser stato molto sollevato di non aver passato quel terribile momento da solo. Erano state ore d’inferno. Il medico che gli aveva salvato la vita, spulciando le sue analisi, ci aveva confessato candidamente di non aver mai visto un tasso alcolico tanto elevato né un fisico tanto giovane devastato a tal punto.
 A 29 anni, si trascinava dietro i segni di eccessi normalmente così radicati  soltanto nei settantenni.

- E andò tutto bene? – mi chiese Colin – Si riprese? –
- Sì, si riprese. Ma per miracolo, su questo furono tutti molto chiari, sia con lui che con noi. Non ci f –
- Ti vide quando si svegliò? Era contento? –
Era quasi dolce il modo in cui si sentiva partecipe. Gli sorrisi, lasciando andare un po’ della tensione che mi aveva mio malgrado attanagliato fino a quel momento.
- Molto contento, sì! Parlammo. Volle parlare, un sacco… -abbassai lo sguardo, intrattenendomi con le maglie sgranate dei miei jeans – Buttò fuori un’enormità di cose, alcune che avevo immaginato, alcune che avrei voluto sentire, alcune che andavano oltre ogni mia aspettativa. – sentii l’angolo delle labbra che si incurvava nel tenero ricordo di quel suo liberarsi, l’espressione mortificata ma convinta, le mani saldamente aggrappate al mio braccio, perché non mi spostassi di un centimetro – Toccare il fondo gli aprì gli occhi, gli mostrò che per tanto tempo aveva solo umiliato sé stesso e chi gli voleva bene, respingendo ogni tentativo di comunicazione, di aiuto, di supporto. Fu uno shock tremendo, ma capì tutto e lo capì bene. – focalizzai la mia attenzione su Colin, sullo strano ibrido di sé che avevo davanti, incastrato tra il passato e il futuro, i dubbi e le certezze, cercando vanamente qualche traccia di quel Colin di cui gli stavo raccontando – Ed ebbe la forza di cambiarsi! Di comprendere su chi e su cosa potesse appoggiarsi, per chi e per cosa valesse la pena lottare. Lo ripulirono ben bene durante il ricovero, pensa che lo specialista che lo seguiva si disse sconcertato dalla quantità e dalla varietà di sostanze che lui gli elencò di aver assunto. E poi si fece un mesetto di – tentennai, mentre lo guardavo, non volendo ancora far collimare troppo la mia storia con quella che conosceva – ritiro… -
Colin aggrottò le sopracciglia: - riabilitazione, vuoi dire? –
- No, ritiro! Una sorta di ritiro spirituale, sì… in Tibet, ecco. – Jared, ma come ti vengono certe stronzate?! – Metodi sperimentali, il risultato è più o meno quello delle cliniche riabilitative occidentali, insomma… – aggiunsi, in seguito ad una sua occhiata piuttosto perplessa.
Sembrò non darci ulteriormente peso, ma continuò a scrutarmi, pensoso, le pupille che vagavano lentamente su di me. Mi pareva quasi che mi lasciasse dei segni addosso e provai un certo disagio. Tossii appena.
- Beh, abbiamo finito, qui – indicai col mento il piano da gioco – vuoi contare tu per vedere chi ha vinto? –
Spostò rapidamente lo sguardo sulle carte e, radunandole in unico mazzo, ridacchiò: - Non credo ce ne sia bisogno… Mi sa che non era la tua serata, Leto! –
Non saprei assolutamente dire il perché, forse il tono della sua voce, il riso spontaneo e rilassato, l’accomodante ironia che gli sprizzava dagli occhi, qualcosa mi fece sentire bene, sciolse ogni mio muscolo contratto, allentò la rigidità che mi sosteneva.
Mi accorsi all’improvviso di aver avuto freddo per tutto il tempo, ma in un istante i brividi cessarono.

- Mi rifarò, non temere! Torniamo a letto, ora? – roteò gli occhi, fingendosi infastidito, ma poi annuì, con il sorriso sulle labbra. Si vedeva che era stanco. – Vieni, ti do una mano! –
- Macché, non mi serve affatto! – mi fermò, ancor prima che potessi alzarmi.
- Colin… - soffiai, abbandonando le braccia sul tavolino, sconsolato -  Ti ho visto vomitare, ruttare, collassare ubriaco sul pavimento, bestemmiare… una volta anche farti la pipì addosso! Tutte in quest’ordine, in ordine sparso e anche reiterato. Credi che mi costi una qualche fatica sorreggerti per dieci metri, pochi giorni dopo che ti hanno fatto un buco in testa? –
Mi fissò con gli occhi spalancati per qualche secondo, poi, forse un po’ in imbarazzo, masticò un poco convinto “d’accordo, allora”. Si tirò su in piedi da solo e mi passò un braccio intorno al collo; lo sorressi fino al letto, dove si sdraiò piuttosto agilmente, allungando e stirandosi le gambe.
Quando, d’istinto, gli rimboccai le lenzuola sul petto, mi rivolse un’espressione a metà tra lo sbigottito e il divertito.

- Grazie, mammina! –
Sbuffai e replicai con una pernacchia, cosa che lo rese ancor più di buon umore.
In effetti avrei potuto tenermele per me certe accortezze.
Spostai una sedia oltre il comodino e ne avvicinai una al letto, sedendomi.

- Che fai, adesso mi canti anche una ninnananna? - domandò con piglio sbarazzino
- Come se non l’avessi mai fatto..! –
Cazzo, come te la sei fatta uscire questa?!
Colin mi rimandò un’occhiata quasi sconcertata.
C’è un nome per quelli come te, Jared: decerebrati.
- Non…non a te, ovviamente… ai tuoi bambini! – cercai di rimediare, ma con la voce un po’ traballante – Lo adorano…che canti per loro, intendo… -
Era vero. James certe volte si agitava moltissimo, dal niente, e solo con qualche trucco collaudato col tempo era possibile calmarlo. Quando c’ero io, lo prendevo in braccio e lo cullavo pian piano, girando in circolo e sussurrando una melodia pacata. Henry invece impazziva per la chitarra. Ogniqualvolta la tirassi fuori, mi saltellava intorno tutto emozionato, smaniando per strimpellare le corde e impegnandosi per imparare tutte le canzoni che mi sentiva canticchiare.
- Sì, certo… Sei molto gentile, sono sicuro che impazziscano per te… - tirò via, piatto. Deglutii, mentre Colin continuava a guardarmi, come esaminandomi. – Jared, tu canti le ninnananne a lui? –
- Come?! – mi sentii completamente avvampare – No! Ch –
- Oh mio dio! – esclamò ad alta voce, sollevandosi sui gomiti – Ma cos’è? Una sorta di gioco erotico perverso? – cercai di interromperlo, ma non si fermò, del tutto perso per la sua tangente – Cioè, gli canti? Oddio, non posso nemmeno immaginare la scena! –
- Non è che gli canti le ninnananne, stupido! – sbottai – Solo…dopo l’inicidente, a volte, non riusciva a dormire, a rilassarsi… E allora è capitato che… non so, che mi stendessi al buio, con lui, e intonassi qualcosa per farlo stare tranquillo, ecco… -
- Gli canti le canzoncine per il sonno, ti rendi conto? – continuò imperterrito, per poi lasciarsi scivolare nella posizione supina precedente e coprirsi il volto con le mani – Sei veramente un tesoro! – mi disse infine, sghignazzando.
- Colin, mi lasci in pace?! – sbuffai
- D’accordo, d’accordo, scusa… Ma dicevo sul serio! E poi, vedessi, sei rosso dalle punte dei capelli alle unghie dei piedi! –
Effettivamente sentivo caldo. Lo guardai male, sbuffando di nuovo.
- Va bene, dai, mi sono calmato… - inspirò e mi guardò, sorridendo – Ma non devi cantarmi nulla, tranquillo, non ho intenzione di dormire. –
- Che vuol dire “non ho intenzione di dormire”? Abbiamo giocato, abbiamo parlato, mi hai preso in giro… ma adesso è arrivata l’ora. –
- Ma io non dormo! – rispose contrariato – L’hai portato il film che ti ho chiesto oggi? Lo guardiamo? – m’incalzò speranzoso.
- È tardi, Colin, e hai avuto una giornataccia… Lo vedi che ti si chiudono gli occhi? –
- Ti prego, Jared, non voglio dormire. – bisbigliò alla fine, con espressione mesta.
- Si può sapere cos’hai? Non ti senti bene, per caso? – mi curvai istintivamente verso di lui, allarmato.
- No, sto bene…è che… - rimase qualche secondo in silenzio, rimuginando – Faccio un sogno. – mi disse poi – Da due notti. E anche ieri pomeriggio, quando mi sono appisolato. –
Si zittì nuovamente, allontanando lo sguardo dal mio e chiaramente riflettendo su qualcosa.
- Un brutto sogno? –
- No, è un sogno, e basta. Ma non mi va di rifarlo, mi fa sentire…strano…turbato. –  mi limitai a corrugare la fronte e aspettai – A un certo punto, all’improvviso, mentre sto sognando qualcos’altro, qualcosa di normale, mi ritrovo in uno spazio grandissimo, completamente vuoto, tutto grigio. Non ci sono pareti, soffitti, pavimenti, è solo uno…spazio. Io cammino, un po’ incerto, non so bene dove mettere i piedi, come mantenere l’equilibrio…non sono sicuro di dove dovrei andare o cosa dovrei fare. Sto lì, e mi guardo intorno. Poi a un certo punto, poco distante, vedo la mia casa, a Dublino, e automaticamente so che là dentro ci sono i miei, tutti quanti. E allora – smise di aggrovigliarsi le dita ed iniziò a mimare la scena – comincio subito ad andare verso di loro, anche se sono tentennante, perché non so come sia la strada. Il tempo di muovere due passi e appare un’ombra chiara. Non si fa sentire, non produce alcun rumore, la scorgo appena con la coda dell’occhio. Io mi giro e la seguo, senza nemmeno pensare. – continuò, assumendo un tono smarrito e spalancando gli occhi, quasi imbambolato – Faccio fatica a starle dietro, va veloce e il percorso è accidentato. Mentre la inseguo mi ritrovo a pensare a perché mai lo stia facendo, la mia famiglia è nella direzione opposta; con loro so che sarei al sicuro, quest’ombra non so neppure chi sia. Perché la inseguo? Eppure continuo, sempre più rapidamente, finché non mi accorgo che ormai sto correndo! – esclamò, ora concitato – Sono perfettamente in equilibrio, sono forte, non ho più paura e voglio raggiungere l’ombra, la voglio vedere. Voglio capire. – si fermò tutt’a un tratto, interrompendo l’enfasi del racconto, tornando ad assumere l’espressione sconsolata di poco prima – Ma non l’ho raggiunta mai, in nessun sogno. Sta lì a un passo, ma non riesco a vederla. -
Avevo trattenuto il respiro. Per un sacco di tempo, almeno dall’attimo in cui mi ero riconosciuto in quell’ombra, quella che importunava le notti di Colin. Avevo trattenuto il respiro per dei minuti; mi chiesi come fosse possibile che non fossi ancora soffocato. Lo lasciai andare.
- Oggi ne ho parlato con lo strizzacervelli, ma l’interpretazione era piuttosto elementare, insomma. C’è qualcosa che mi sfugge, nella mia vita, è ovvio. Ma mi sembra il minimo, no? – allargò le braccia –  È solo che a livello cosciente non mi disturba affatto. Appena chiudo gli occhi, invece, se non acchiappo quella stramaledettissima ombra, non ho pace. – disse, quasi sdegnato, battendo un pugno sul materasso.  
Avrei potuto e dovuto replicare in molti modi. Ma dissi solo: - Bene, allora direi di guardarci il film! –
Colin, mi guardò, colto di sorpresa, poi sorrise e acconsentì. Mi alzai, scoprendo un certo tremore lungo le gambe, diretto verso il mio borsone, abbandonato sul secondo lettino.
- Che film hai scelto? – lo sentii chiedere, mentre tiravo fuori il dvd e mi guardavo intorno alla ricerca del portatile.
- Platoon! Un giorno, chiacchierando fra un ciak e l’altro, mi hai confessato di aver visto JFK, The Doors, Nato il 4 Luglio, ma non Platoon. – spiegai, intento ad accendere il pc e preparare tutto - Hai accettato di spaccarti il culo per Oliver Stone senza aver visionato la sua migliore creatura… - gli lanciai la custodia del dvd e lui prese ad esaminarla – Poco dopo la fine delle riprese ce lo guardammo insieme e ti è piaciuto tantissimo! È un capolavoro, Platoon. –
- Fammi capire… – mormorò, alzando gli occhi dalla custodia e scrutandomi dubbioso – proponi ad un ricoverato in stato semi-confusionale uno spossante e crudissimo film di guerra che denuncia uno degli aspetti più bassi e spregevoli della natura umana? –
Mi bloccai a pochi metri da lui, il portatile già pronto tra le mani, assalito improvvisamente dalla possibile inadeguatezza della mia scelta.
Poi Colin scoppiò a ridere, ammiccando compiaciuto. Alzai gli occhi al cielo, segretamente sollevato.
Gli sistemai un cuscino sulle ginocchia e ci poggiai sopra il computer, riprendendo posto sulla mia sedia.

- Pronto? Vado? –
- Signor sì, Signore! –
Avviai il film, passai alla versione schermo intero e mi sistemai comodamente contro lo schienale. L’angolazione non era delle migliori, così mi spostai un po’ indietro e appoggiai il gomito sul bordo del materasso.
- Ma ci vedi? – annuii tranquillamente. Colin spostò lo sguardo da me al pc, poi di nuovo a me, poco convinto – No che non ci vedi bene da lì! –
- Sì che ci vedo! E poi lo conosco a memoria questo film, non ti preoccupare. –
Le note iniziali della colonna sonora lasciarono posto alle prime battute, il visino svampitello di un giovanissimo Charlie Sheen invase lo schermo.
- Senti, non posso stare qui disteso come un pascià, con te arroccato su una seggiolina! Non mi godo il film! – si lamentò d’un tratto, l’aria contrariata.
- Io sto bene, poss-
- Vieni qui! – esclamò, indicando il suo stesso letto – Mi sposto un po’ più in qua e c’entriamo bene tutti e due, ecco! –
- No! – quasi urlai, con decisamente troppo impeto – Non ce n’è bisogno, davvero, va benissimo così. – cercai di correggere il tiro.
- Guarda,  - continuò imperterrito, scivolando verso l’altro estremo del letto – ci stiamo perfettamente! E ci vediamo in santa pace il film. – sorrise, guardandomi  beato.
C’era un limite a tutto ed io avevo raggiunto il mio. Mi ero fregato con la storia riadattata della mia vita, con l’accettare di fargli la notte, non mi sarei infilato in un letto con lui a vedere un film. Avevo ancora una dignità, io.
- Che c’è? La smetti di fissarmi con quella faccia? Non ti ho minacciato con un coltello, ti ho solo proposto di portare il tuo bel culetto qui… - incrociò le braccia sul petto, poi sbuffò – Dai, ti prometto che non ti molesterò in alcun modo! – sghignazzò
Ridi, ridi…non c’è proprio nulla da ridere!
- Su, ti prego… per chi mi hai preso? Dici di essere il mio migliore amico ma pensi che rimarrei due ore qui in panciolle mentre a te viene l’artrosi? – poi, risoluto - Ho voglia di vedere questo cazzo di Platoon, ti vuoi muovere?! –
Se avessi continuato a rifiutare, senza alcun apparente motivo, avrei solo peggiorato la situazione. Così, celando al meglio il mio turbamento e inveendo silenziosamente contro me stesso con la schiera di insulti che sapevo di meritare, mi sdraiai accanto a lui, la schiena poggiata allo schienale rialzato, le gambe dritte e accavallate, le braccia conserte, facendo attenzione a non entrare in contatto con nessunissima parte del suo corpo.
Un paletto di legno sarebbe stato molto più caldo e sciolto di me.

- Jared? –
- Sì? –
- Puoi rimettere indietro? Mi sono perso tutto… -
Allungai il braccio verso il pc, molto cautamente, mandai indietro la scena e mi risistemai composto, sempre molto cautamente. Colin si accomodò appena, sfiorandomi la coscia con l’anca, e io, lesto come un’anguilla, mi spostai verso l’esterno.
Neanche un minuto dopo, quando ormai pensavo che peggio di così non potesse andare, sentii di nuovo la sua voce intrufolarsi tra le parole poco gentili che continuavo ad indirizzare a me stesso.

- Jared? –
- Uhm? –
- Potresti spegnere la luce? –
Potresti prendere un cappio ed appenderti direttamente al soffitto?
Avrei voluto piangere, davvero. Sentivo le lacrime di stizza pungermi l’interno degli occhi. Come diavolo avevo fatto a ritrovarmi in una simile situazione?
Respirai, il più discretamente possibile, per mantenere il controllo.

- Dov’è l’interruttore? –
- Alla tua sinistra, ci arrivi senza doverti alzare. – sorrise.
Era tranquillissimo e rilassato, lui. Mi sporsi leggermente dal letto, notai l’interruttore, lo spensi e tornai nella posizione precedente, rigido come un repubblicano al gay pride.
- Grazie! –
- Prego. –
Finalmente cessò ogni movimento, ogni suono. Il che, a un certo punto, mi sembrò anche peggio, perché il cuore mi batteva così forte e a un ritmo così spaventosamente implacabile che quasi temetti potesse sentirlo anche lui.
Non me ne resi conto, ma trascorsi diverso tempo solo a trattenere il movimento di ogni muscolo, a controllare la respirazione e il battito cardiaco, a cercare di riassumere in che modo, esattamente fossi riuscito ad incastrarmi tanto a fondo in quella situazione, perché quando buttai l’occhio sul minutaggio del film, era passata quasi mezzora.
Ero stato così distratto che, non solo non avevo seguito un secondo della trama, ma non avevo neanche notato che stranamente Colin non aveva mai fiatato. Lui, il classico tipo snervante che, mentre guardi un film, specialmente d’azione, si relaziona direttamente coi personaggi, incitandoli a fare o a non fare una determinata mossa.
Mi voltai, con accorta nonchalance, verso di lui. Dormiva, come un bambino. Le palpebre calate, le labbra non perfettamente sigillate, il respiro piatto e regolare.
Non sapevo cosa fare. Non sapevo neppure cosa fosse opportuno fare in casi come quelli. Chi ci pensa mai a come dovresti comportarti nel caso in cui il tuo compagno si scordi completamente di te e ti si addormenti serafico accanto, mentre tu perdi tutte le inibizioni dell’ultima settimana e ti senti improvvisamente svuotare, distrutto?
Mi girai sul fianco e rimasi a guardarlo, immobile e silenzioso. Lo vedevo appena, i guizzi azzurrognoli provenienti dallo schermo gli illuminavano il volto ad intervalli irregolari.
Piano piano avvicinai una mano al suo braccio, abbandonato lungo il corpo, e presi coraggio fino al punto di sfiorargli il polso con le dita. Poi, colto da un’audacia sempre più incosciente, allungai il collo verso la sua spalla, sistemando la testa a pochi centimetri da lui.
Inspirai il suo odore e mi sentii a casa. Avevo vagabondato per tutta la vita, ancora a quarant’anni mi spostavo continuamente da un posto all’altro. Ma in quell’istante compresi, veramente, cosa intendono le persone con la parola “casa”. Vergognosamente smielato, ma concretamente reale.
Poi, Colin bofonchiò qualcosa nel sonno e, nel modo più naturale possibile, piegò il capo verso di me, appoggiando la tempia sinistra sulla mia fronte. Rimasi di sasso, per qualche secondo, ma dopo, irrimediabilmente, mi ritrovai a sorridere.
Mi prendeva in giro, lui, sempre. Diceva che, quando dormivo, diventavo un “accoccolatore seriale”, non restavo mai dalla mia parte del letto. Ma più di una volta mi ero accorto che d’istinto anche lui mi cercava, di notte, si avvicinava. Come adesso. 
Magari voleva dire qualcosa, no? Magari si sarebbe svegliato, la mattina, e sarebbe stato di nuovo lui. Magari mi avrebbe guardato nel suo modo e io l’avrei saputo subito.
O magari niente, niente di niente, come sarebbe stato più probabile.
Riprese a farsi sentire il solito, insistente morso allo stomaco, quella costante sensazione di inadeguatezza e agitazione, quella percezione negativa che mi assillava. Improvvisamente mi resi conto di quanto fossi ridicolo, di quanto imbarazzante fosse quello a cui mi stavo sottoponendo.
Mi disincastrai lentamente, ma con fermezza; rimasi seduto, con i piedi poggiati a terra e spensi il portatile. Mi alzai, lo rimisi sul comodino e andai direttamente a stendermi sull’altro letto, senza nemmeno dare un ultimo sguardo a Colin.
Mi raggomitolai, dandogli la schiena, e chiusi subito gli occhi.



I fari delle auto, in lontananza, rischiaravano il lungo viale buio che conduceva all’ospdale. Centinaia di auto, centinaia di vite, di destini ed io me ne stavo ad osservarli da debita distanza, protetto dal vetro spesso della finestra. Déjà vu.
Colin soffriva d’insonnia, non riusciva mai a riposare abbastanza. Tranne che quando eravamo insieme, così diceva. Per anni e anni, in qualche albergo di lusso, a casa mia, a casa sua, a Los Angeles, a Dublino, a New York, a Parigi, a Londra, a Toronto, a Berlino, in Africa, in Asia, in Sudamerica… per anni avevamo strappato tempo al tempo, avevamo corso come dei pazzi per conciliare l’inconciliabile. Ci trovavamo, ci illudevamo di entrarci dentro abbastanza per sopperire alle dilanianti delusioni che ci infliggevamo.
E poi lui dormiva. Io invece me ne restavo di fronte alla finestra, a volte in piedi, a volte seduto,  scrutando fuori, osservando tutti i minimi particolari, spiandoli, in modo quasi ossessivo. E di tanto in tanto mi giravo a guardare lui, che dormiva.
C’era un forte contrasto tra il caos del fuori e la quiete del dentro. Il fuori cambiava, scorreva, era vivo, proprio perché mutevole. Dentro, noi ce ne stavamo lì, perennemente immobili; passavano i mesi, gli anni ed eravamo sempre gli stessi. Più infelici, forse. Il fuori era bello, era fresco, era la libertà. Il fuori metteva una gran paura; mi sentivo sicuro nel mio dentro, imprigionato ma al riparo. Un po’ come un leone che, abituato alla cattività, teme di lasciare la gabbia.
Un potente rombo di motore, forse la sgommata di una grossa moto. Mi voltai verso Colin, sempre tranquillamente addormentato. Déjà vu.
Feci due passi verso di lui. Avevo aperto la finestra, in quegli ultimi mesi. Non ero ancora fuori, ma già distinguevo il profumo brioso dell’aria, già ero pronto a confondermi con uno di quei confusionari dettagli che ero solito rimirare. Non potevo tornare dentro, perché il dentro non c’era più. Ero solo ed ero bloccato sull'infisso, né dentro né fuori. Ero terrorizzato. E arrabbiato.
Raggiunsi il letto e mi appoggiai ai due sostegni metallici laterali, una mano da un lato e una dall’altro, chino sopra Colin. Si trovava ancora nella stessa identica posizione in cui l’avevo lasciato, solo leggermente più scomposto. Ma non aveva più i tratti distesi; stava faticando, si stava sforzando per qualcosa. Forse sognava, forse era quel sogno. Ripassai con le dita i suoi lineamenti, a pochi centimetri dalla pelle, senza mai sfiorarlo. Le sopracciglia, il naso, le labbra, il muscolo teso del collo… Non era necessario che lo toccassi.
Cosa pensare del sogno? C’era qualcosa di mio così radicato in lui che spingeva per uscire. Si faceva sentire, voleva essere scoperto. Non poteva ricostruire sé stesso senza una parte così rilevante? Era positivo, certo, ma niente affatto rincuorante. Lui correva e correva ed io ce la mettevo tutta per andare piano, per aspettarlo, ma la verità è che non dipendeva da nessuno di noi due. Potevo soltanto sperare per il meglio e restare lì, continuare ad affacciarmi nel suo inconscio e augurarmi che lui non si sarebbe stancato di inseguirmi.
Allontanai la mano sinistra dal suo volto e la riappoggiai sulla barra metallica. Mi chinai ancora di più su di lui, arrivando così vicino da percepire il calore del suo respiro. Era fermo, ma sapevo che si stava contorcendo, agitando; un debole raggio lunare tradiva gli spasmi delle sue palpebre, i riflessi involontari delle labbra. Segni che avevo imparato a riconoscere tanti anni prima, quando ogni notte era una battaglia, ogni ora di astinenza una prova di coraggio.
Combatteva, come allora.

- Memories… - mi sorpresi a sussurrare - may be beautiful and yet... – poi riuscii a richiamare alla mente quella vecchia, sfocata melodia - what's too painful to remember, we simply choose to forget... So it's the laughter we will remember, whenever we remember – mi fermai qualche secondo, la voce zoppicante - the way we were.- piegai la testa di lato, per avere una visuale più nitida del suo profilo e ripresi a scandire le note, basse e lente. – If we had the chance to do it all again, tell me would we? Could we? – sorrisi appena, tra me, aveva già un’espressione più serena – Misty watercolor memories of the way we were. –
Lo guardai ancora, mi passai la punta della lingua sulle labbra secche e annullai la brevissima distanza che mi divideva dalle sue. Un tocco leggero, delicato, l’assaggio di un ricordo.
Un bacio fugace, ma intenso.
Come un’ombra.


Le parole che Jared canticchia a Colin provengono da uno stralcio di "The Way We Were", che vi linko qui sotto e vi consiglio caldamente di ascoltare, perché merita, assolutamente. Per il resto, mi auguro che siate ancora sveglie! A presto!!!

http://www.youtube.com/watch?v=uBPQT2Ia8fU
  
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