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Autore: ChiiCat92    06/05/2013    6 recensioni
Tom e Bill Kaulitz sono gemelli, e questo, ancora prima degli Hunger Games, ha complicato la loro vita.
Contro Capitol City non c'è speranza, si cerca di morire nel modo più dignitoso possibile.
è questo che pensa Tom, quando ogni anno aspetta che il suo nome venga estratto durante la Mietitura...
Genere: Avventura, Suspence, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bill Kaulitz, Gustav Schäfer, Nuovo personaggio, Tom Kaulitz
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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25/04/2013

 

Prologo

 

Quando io e mio fratello nascemmo, fu subito chiaro a tutti che saremmo stati un problema.

Non perché fossimo dei bambini irrequieti e dessimo in qualche modo fastidio.

Da un certo punto di vista, non eravamo altro che due normalissimi bambini. Guardavamo il mondo con gli occhi spalancati, piangevamo se avevamo fame, ci piaceva dormire vicini, profumavamo di buono, facevamo versetti: insomma, niente di sorprendente, erano cose che che facevano tutti i bambini.

Quello che disturbava della nostra esistenza, era il fatto che fossimo gemelli.

Gemelli.

Un parolone che, fino a quel momento, era stato usato per le cucciolate di cani e gatti.

Ma una gravidanza del genere in un Essere Umano, a Panem non si era mai vista.

Per questo, quando venimmo al mondo, fu tutto un correre e scappare e un avvertire i Pacificatori.

Per una settimana dopo la nostra nascita, fummo tenuti lontani da nostra madre, e portati a Capitol City, per motivi che ancora oggi non ci sono chiari.

Nessuno avrebbe mai pensato che la nostra nascita avrebbe potuto sollevare un tale polverone.

Ma in un Distretto dove l'ingegneria genetica era la maggior fonte di sostentamento, e che creava tutti gli ibridi che si presentavano nell'Arena ogni anno, noi non potevamo essere altro che un esperimento riuscito male.

Soprattutto quando si venne a sapere che nostro padre lavorava sulla fertilità femminile. Che fossimo davvero quello che dicevano che fossimo?

Del periodo a Capitol City, comunque, per ovvie ragioni, noi non ricordiamo nulla, e quando proviamo ad aprire il discorso con qualcuno, immediatamente riceviamo risposte affrettate, che tendono a far scivolare l'argomento della conversazione su qualcos'altro.

Sono tutti bravi a cambiare discorso, quando si parla di noi.

Tom e Bill Kaulitz, i gemelli dei Distretto 10, gli unici gemelli del Distretto 10, anzi gli unici di tutta Panem.

All'inizio, non è stato così problematico convivere con la nostra diversità, forse perché entrambi eravamo abituati ad essere considerati come degli emarginati. D'altronde, nostro padre è un vincitore degli Hunger Games, e noi viviamo felici e contenti al Villaggio dei Vincitori, con tutti i confort, il cibo, e le comodità che da questo ne deriva.

Essere figli di qualcuno che ha ucciso ventitré ragazzi della sua età, di cui un suo concittadino, a sangue freddo e senza mostrare alcun sentimento, rendeva di per sé inavvicinabile.

Se poi, a tutto questo, si aggiunge l'essere delle specie di fenomeni da baraccone, allora il pacchetto “keep away” è bello e servito.

A me non dispiace che Bill sia mio fratello. E non mi dispiace di certo che sia il mio gemello.

Certo, a volte è davvero inquietante specchiarmi in lui. Lo guardo con la coda degli occhi, e rivedo me stesso.

Per i primi dodici anni delle nostre vite, abbiamo cercato di comportarci come se non ci importasse delle occhiate che ci lanciavano, del modo in cui ci trattavano, e anche dell'essere continuamente scambiati.

Ma essere letteralmente scampati alla prima Mietitura, ci ha profondamente cambiati.

Ricordo quel giorno come se fosse ieri.

Nessuno dimentica la prima Mietitura.

Nostra madre era così isterica quel giorno. Non faceva che girare per casa parlando da sola, entrando in una stanza, guardarsi intorno e poi uscirne, come se si fosse dimenticata perché ci fosse entrata.

Poi erano cominciati i preparativi.

Per prima cosa, ci costrinse a fare il bagno. A me e a Bill non piaceva fare il bagno, per nulla al mondo, avremmo preferito che ci ammazzassero, e a dodici anni ci sentivamo degli uomini vissuti, che potevano puzzare ed essere sporchi quanto volevano. Ma quel giorno, qualcosa negli occhi di nostra madre ci disse che dovevamo farlo, semplicemente. E non opponemmo resistenza.

Le fu difficile non aiutarci a vestirci, le vedevamo le mani fremere, quasi si stesse trattenendo.

Ricordo anche di aver scambiato uno sguardo con Bill, e di essermi sentito improvvisamente molto triste per la mamma, infinitamente triste.

Quando fummo pronti, trovammo nostro padre in attesa davanti alla porta di casa. Ci diede solo una pacca sulla spalla, prima di uscire.

Arrivati in piazza, fummo subito separati dalle ragazze, e infilati tra gli altri ragazzini di dodici anni; tutti nostri compagni di scuola, ma non conoscevamo nessuno.

Solo in quel momento, capii esattamente che cosa stesse succedendo. Ma non ebbi paura, non pensai a tutto quello che poteva capitarmi, a cosa avrei dovuto affrontare, al perché avrei dovuto farlo.

Pensai solo a Bill.

Sì, in quel momento pensai solo a lui.

Bill era decisamente diverso da me, anche se nessuno sembrava accorgersene.

Lo vedevo come una continuazione naturale del mio braccio, ma anche come una range zone in cui mi era impossibile entrare.

E quando lo vidi, piccolo e impettito nella camicia bianca, capii che non poteva, e non doveva, partecipare agli Hunger Games.

Qualsiasi cosa fosse successa, mi sarei imposto per salvarlo.

Questo pensai, mentre il primo nome, quello del Tributo femmina, veniva estratto. E sentii di avere il cuore in pace.

A dodici anni, decisi che sarei morto per mio fratello, e nessuna decisione poteva essere più sensata di quella.

Così, quando sentii “Kaulitz”, non aspettai neanche che dicessero chi dei due Kaulitz fosse, né rimasi sorpreso o me ne preoccupai, e mi feci avanti direttamente.

Successe tutto molto in fretta. Mentre mi avvicinavo al palco, sentii che veniva pronunciato il mio nome, e fui felice che non toccasse a Bill, fui felice che lui non dovesse addossarsi il peso della mia morte, perché la sorte aveva deciso che dovevo essere io il Tributo, non lui. E andava bene così, ero assurdamente felice.

Ma qualcuno, tra la folla, urlò, forte e chiaro, “Mi offro come Tributo!”. E come in un incubo vidi Georg che si sporgeva dalla fila e si offriva.

Georg era il mio migliore amico, o forse dovrei dire il nostro migliore amico.

Tra tutte le persone del Distretto, quel ragazzo di due anni più grande di noi, era stato l'unico che ci aveva trattato come persone, e non come ibridi usciti da uno dei laboratori disseminati qua e là.

Era stato sempre gentile, sempre affabile, e non aveva mai avuto problemi nel distinguerci. Per noi, era praticamente un miracolo, oltre che una specie di privilegio. Georg aveva deciso di accettare la nostra esistenza, di prenderne parte, e questo ci faceva sentire veramente speciali.

Quando decise di morire per me, non riuscì ad essere così coraggioso da tenermi in piedi.

Lo shock di vederlo avanzare a passo sicuro, nascosto dai suoi capelli castano ramati, a testa alta e con gli occhi verdi che brillavano, mi bloccò le corde vocali, e mi lasciò attonito.

Lo vidi salire sul palco, orgoglioso tra il silenzio mortifero degli abitanti del Distretto.

Poi il mio sguardo cadde sulla sua famiglia, perché avevo subito percepito l'odio cocente scagliato nella mia direzione.

Non ricordo cosa gli dissi, prima della partenza per Capitol City. Da quel momento, e fino alla sua morte, i miei ricordi si fanno confusi, e mi chiedo spesso se non abbia vissuto in una specie di sbronzo coma in quei lunghi giorni.

Georg morì, la prima settimana dei giochi. Ucciso a sangue freddo dalla ragazzina del suo stesso Distretto; mentre la difendeva da un Tributo del Distretto 1, lei ne aveva approfittato per trafiggerlo alle spalle.

Non c'è bisogno di dire che io e Bill festeggiammo selvaggiamente, quando il Tributo dell'1 le tagliò da parte a parte il collo, dissanguandola.

Quello che era stato il mio migliore amico, l'unica persona che aveva avuto il coraggio di sacrificarsi per me, tornò al Distretto in una bara di legno, pallido, emaciato, e morto.

Non riuscii neanche a piangere.

Da quel giorno, sia io che Bill andammo incontro ad un cambiamento inevitabile quanto drastico.

Le nostre personalità si definirono con precisione matematica, esasperandosi ai due opposti.

Bill si chiuse totalmente in se stesso, e si gettò a capofitto verso il nero: di nero si tinse i capelli, di nero si vestiva, di nero cominciò a truccare pesantemente gli occhi. Usciva raramente, e raramente lo si vedeva intrattenere rapporti con la gente. Perse quasi del tutto la voce, e la voglia di vivere.

Io divenni uno skater boy, lasciai crescere liberamente i miei capelli biondi, e cominciai ad indossare abiti larghi, che mi nascondessero il più possibile.

Mi unii ad una piccola gang di ragazzi di strada, mal visti dal Distretto, quelli che venivano definiti dalla nostra comunità “problematici” solo perché diversi.

I soldi di nostro padre ci permettevano di fare ciò che volevamo, e nessuno riusciva ad avvicinarsi abbastanza a noi da poterci fermare, o cambiare, o anche solo provare a fare una di queste due cose.

Comunque fosse, il nostro comportamento non sfociava mai in qualcosa di tanto eclatante da dover essere puniti dai Pacificatori, ma nonostante questo fummo più volte messi alla gogna, in piazza, davanti a tutto il Distretto, per il solo fatto di aver “guardato male” uno di loro.

L'unico posto dove ci sentivamo al sicuro, era nel silenzio che calava tra di noi ogni tanto, un silenzio speciale, attraversato dai nostri pensieri.

Succedeva al calar della sera, quando cominciavano ad accendersi le prime stelle.

Era diventato un po' il nostro appuntamento fisso, il momento della giornata che dedicavamo solo all'altro, togliendogli la maschera che aveva indossato per tutto il giorno.

Ci incontravamo alla recinzione, quella che separava il nostro Distretto da tutto il resto di Panem, oltre il Villaggio dei Vincitori, dove non c'erano più case, né asfalto, ma solo una lunga distesa di erba alta, che ti mangiava fino al petto se ti immergevi.

Lì ci nascondevamo agli occhi di tutti, finché non diventava abbastanza buio da costringerci a tornare a casa.

Al mercato del Distretto avevo trovato una chitarra. Non avevo idea di cosa fosse una chitarra finché non ne avevo vista una. Costava un occhio della testa, e non era neanche in buono stato, ma sentivo il bisogno di comprarla. Per settimane avevo rubato qualche soldo dalle tasche di mio padre per poter racimolare il necessario per averla. E quando finalmente ci ero riuscito, qualcuno l'aveva già comprata. Abbattuto, quella sera mi diressi al nostro posto segreto, rabbiosamente. Non avevo visto Bill per tutto il giorno, e volevo raccontargli l'accaduto. Quando arrivai, vidi che teneva tra le braccia la chitarra. L'aveva comprata per me.

“Suonala.” mi disse, e me la porse.

Non appena le mie dita toccarono il legno scuro e consumato della chitarra, capii che sarebbe stata la mia salvezza.

Per imparare, ci impiegai un po'. Nessuno mi aveva mai insegnato qualcosa di musica, d'altronde, in un Distretto che si occupava di allevamento e manipolazione genetica, a che cosa serviva la musica? Era più una cosa da Capitol City.

Però, quando cominciai ad essere più sicuro, Bill prese a cantare. La voce era ancora incerta, memore dei lunghi mesi trascorsi senza essere utilizzata, ma era bella, e si accompagnava alla mia chitarra in maniera così naturale da farmi quasi venire i brividi.

Ora che ci penso, la musica deve averci salvato la vita, perché ci costringeva a trascinarci lungo un'altra giornata solo per poter arrivare a quei pochi momenti che passavamo insieme alla sera.

Tutto diventava relativo, anche la nostra esistenza.

Gli Hunger Games, la morte di Georg, la sofferenza dell'essere degli emarginati, non aveva più senso niente; il mondo si scoloriva nelle note della chitarra e nei vocalizzi di Bill.

All'inizio, erano solo melodie canticchiate senza parole, perché lui non aveva niente da dire, o forse non sapeva dirlo. Ma a poco a poco cominciò ad unire parole alla musica. Tutto quello che gli passava per la mente, tutto quello che non aveva potuto dire a nessuno, usciva fuori sotto forma di canzoni che potevano durare delle ore, perché non mi stancavo mai di suonare, per me e per lui.

E non era neanche tanto brutto alzare gli occhi al cielo e vederlo buio come la pece e sapere che era il momento di andare. Anche quello divenne il nostro rito.

Io riponevo la chitarra nella sua custodia, e Bill mi aiutava a nasconderla nella fossa che avevamo scavato. Poi, di nuovo in silenzio, tornavamo a casa, con il cuore un po' più leggero.



The Corner

Ciao a tutti,
cominciandomi a sentire meglio,
ogni giorno che passa,
ho deciso di buttar giù questa storia.
Era un po' che volevo scrivere una FF ambientata negli Hunger Games,
all'incirca da un annetto (da quando ho scoperto il libro ahahah),
per cui, ho preso il mio Tom, il suo fratellino, i loro due amichetti,
e bim bum bam, eccoci a Panem.
Come avete visto, la storia è raccontata in prima persona da Tom,
spero che non sembri troppo femminile, data la mia influenza
(non so come pensa un maschio ahahahah).
Fatemi sapere cosa ne pensate :)
In linea di massima, la pubblicazione avverrà di giovedì,
come per tutte le altre storie!
Grazie a tutti,
Chii

 

   
 
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