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Autore: miss potter    10/05/2013    3 recensioni
"Bisogna avere un pò di caos dentro per partorire una stella danzante." (1)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Chapter fourteen








Restai fermo, paralizzato da capo a piedi, le braccia strette lungo i fianchi e lo sguardo assorto, lontano, ficcato nell’oscurità fumosa di quel vicolo, immobile per non so dire quanto tempo prima che la luce fioca di un paio di fari di un auto di passaggio, riflessi sui vetri rotti di un caseggiato vicino, mi restituisse la facoltà di respirare.
La notte mi stava scivolando di fianco silenziosa come un rettile velenoso che cambia la sua pelle, portando via con sé, insieme ai fischi lontani delle sirene, tutta l’angoscia e lasciandomi le mille sensazioni che quell’incontro ai limiti del sovrannaturale impresse dietro gli occhi e dentro ogni singola cellula delle mie membra, leggermente infreddolite per la stasi.
Avevo rischiato la vita, solo, uno stolto avventuriero in quella selva di mattoni e asfalto dove bestie di ogni specie e dimensione avrebbero potuto saltarmi addosso da un momento all’altro, ferirmi a morte, cancellando ogni traccia della mia esistenza su questa valle di lacrime come si fa col misero cadavere di una zanzara schiacciata tra i palmi delle mani. Fin troppo facile.
Ma, come più volte mi era capitato nella vita, mi comportai semplicemente come mi ero sempre comportato in simili circostanze: mantenendo la calma, almeno apparentemente, guardando pericolo e morte negli occhi come fossero amici di vecchia data che, quando meno te l’aspetti, ti vengono a trovare entrandoti in casa senza neanche chiedere permesso.
Ci ero abituato, alle sorprese, e il mio corpo reagì alla stessa maniera di sempre: un leggero palpito iniziale, la straordinaria e preoccupante immobilità della mano all’estremità del braccio offeso, la totale ed appagante insensibilità all’arto inferiore destro e la schifosa, corroborante voglia di averne ancora, di sentire di più di tutti coloro che alla vita ci stanno attaccati come minuscole zecche affamate, la testa affondata nel sangue.
Ritrovai la stessa identica sensazione parecchie volte, in vita mia. Prima in Afghanistan dove ero medico la mattina, suturando e amputando, salvando e aggiustando ossa, per quanto di aggiustare vite si potesse parlare allora, per poi al pomeriggio essere messo a stroncarle, le vite, sparando ai ribelli come ai civili dai volti terrorizzati nascosti sotto i chador pieni di polvere color ambra. E poi, oh, poi. E poi negli occhi di giada di un pazzo di cui avevo fatto il madornale errore di innamorarmi e, chissà se per destino o per semplice smania di farmi del male, non ne avevo ancora abbastanza, di quel cervello speciale, deliziosamente folle, di quel corpo sinuoso suppurante veleno da ogni vena in rilievo, da ogni vertebra flessuosa insieme alle compagne, terribilmente sensibili sotto il giusto tocco, di quella voce – Dio, quella voce – e le labbra… Sarebbero potute tranquillamente essere il giaciglio per il mio corpo morente al cui capezzale avrei riunito tutti i suoni e i gemiti e le invocazioni collezionati a suon di morsi e notti d’amore clandestino per imprimerli nella memoria ripercorrendone ogni istante e suggendone alla fonte, attimo dopo attimo, centimetro di pelle dopo centimetro, un bacio alla volta.
Il problema di certa gente, gente come me e come forse, temo, qualcuno di voi, è che si lascia investire dagli eventi come farebbe qualsiasi pazzoide o suicida sul ciglio di un’autostrada, o sui binari della metro. Basterebbe un passo e, beh, andrebbe tutto a posto. Ed è così che questo tipo di persone si leva di torno, pensando di cancellarsi di dosso tutti gli sbagli del passato come con un orrendo tatuaggio fatto da ubriachi, o nel bel mezzo di una storia d’amore finita poi a insulti e valige lanciate dalle finestre.
E il mio problema è sempre stato questo, fondamentalmente: l’impossibilità di non fare niente per migliorare una situazione già precaria di per sé e, anzi, quasi combattere per vederla peggiorare e godere nel mentre, come il più solo tra gli uomini davanti ad un filmino hard di quarta categoria farebbe.
Chiamatelo masochismo, o semplice mediocrità, ma il mio problema, sostanzialmente, è che forse non ci ho mai pensato alla possibilità di guarirmi da me stesso e dai problemi auto inflitti con un destino che favorevole non lo è stato mai fino alla fine, con me e con tutti coloro che mi sono orbitati intorno.
Dunque credo fosse per questo che quella sera arrivai ad avere quella conversazione con Sebastian, in quel vicolo, di notte, senza testimoni né un briciolo di paura e amor proprio.
La verità? La verità era che non mi faceva paura e che non me ne avrebbe fatta mai, non lui, non in quel momento. Il suo sguardo ribolliva di dolore verdognolo, chimico, un continuo agitarsi di molecole legate male ed altamente instabili, facilmente esplosive, tendenti alla scissione. Mortali.
Eppure non riusciva a disintegrarmi, quello sguardo corrosivo. Forse, forse perché in quello sguardo mi ci riconoscevo, almeno un po’, perché due acidi si combinano perfettamente tra loro, fondendo i loro diversi gradi di acidità e raggiungendo un certo equilibrio, prima o poi.
E se proprio di chimica si deve parlare, con Sebastian scoccò una scintilla, un’idea malsana il cui destino sarebbe stato quello di estinguersi al prossimo sorgere del sole, come una stella cadente bella e fragile, come una vaporosa crisalide che sboccia e illumina il cielo notturno della sua caducità per un istante prima di schiantarsi al suolo e morire soffocata dai suoi stessi vapori, dalla speranza che, davvero, da qualche parte, avrebbe potuto godere di un destino diverso.
Mi stavo bruciando.

Tornai indietro all’albergo camminando lentamente, le mani in tasca, facendomi inghiottire dalla notte senz’astri che, come una spessa coperta in maglie di ferro, gravava su di me e su tutti quei pensieri graffiando le pareti del mio cranio.
Una volta arrivato, superai gli sguardi perversamente incuriositi, alcuni molli, altri fin troppo svegli delle poche persone che ritrovai sedute sui divanetti lucidi della reception tra fiumi d’alcol, carte da gioco e formose biondine a gambe accavallate che, con lo sguardo ammiccante, accarezzavano le cosce dei loro accompagnati facendomi l’occhiolino.
Presi l’ascensore e salii al mio piano, scuotendo la testa alla mia immagine riflessa nello specchio all’interno, una maschera pallida di stanchezza sotto gli occhi e un groviglio di nervi a pezzi. La profonda penombra bluastra che mi accolse allo scorrere delle porte automatiche era ferita da una solitaria cicatrice di luce dorata proveniente dalla porta, tenuta socchiusa, dove ormai buttavo l’occhio anche senza il permesso del mio cervello, in un arco riflesso spontaneo di cui avrei dovuto parlare ad Ella, un giorno o l’altro.
Ma non credo fosse malattia, la mia, quando nel mio momentaneo tepore mentale e senza pensarci due volte decisi di prendere a sinistra invece che tornarmene in camera mia, da mia moglie, e chiederle scusa per il mio deplorevole comportamento.
Ero solo… preoccupato. Magari, chissà, aveva semplicemente dimenticato la porta aperta. Di questi tempi non si è al sicuro da niente e da nessuno, nemmeno da se stessi. O, semplicemente, avevo bisogno di lui, e basta.
“Sh-Sherlock?” balbettai sottovoce, incerto, facendo forza coi polpastrelli sul legno lucido della porta, ed entrai chiudendomela poi alle spalle. “Sherlock, ci sei?”
La faccia sprofondata nei palmi delle mani e i gomiti puntellati sulle ginocchia, abbracciato dalla solita luce soffusa della solita lampada in ingresso, se ne stava seduto su una delle poltroncine in salotto davanti a un tavolino di vetro dalle gambe basse sul quale erano sparsi disordinatamente vari fogli di carta stropicciati e diversi oggetti la cui natura, data la mia postazione, non riuscii a distinguere in modo dettagliato.
Azzardai un paio di passi, trascinandomi abbastanza vicino da poter sentire il suo respiro appesantito sgusciargli fuori dalle mani, portandomi così a pochi metri da quella sagoma scura e avviluppata su se stessa nella posizione di un uomo a cui sono state strappate di dosso tutte le motivazioni per continuare a vivere, a sperare.
“Sher, stai be…”
“Vuoi scopare?”
Borbottò questa domanda con voce arrochita e quasi incomprensibile, le labbra premute contro i palmi, e ci mancò poco, davvero poco che stramazzassi al suolo come un cane dopo aver mangiato un boccone avvelenato, soffocato dalla mia stessa saliva.
Pregai di aver capito male, che fosse soltanto un brutto scherzo della spossatezza, o l’ennesimo, più che comprensibile incubo.
“Cos’hai detto?” mormorai senza fiato, sbattendo un paio di volte le palpebre.
Sherlock sollevò il capo, lentamente, prendendo un profondo respiro e trafiggendomi con uno sguardo grigio, no, color acciaio misto ad un azzurro metallico vagamente inquietante ed appena accennato intorno a due infinitamente profondi buchi neri che andavano pian piano allargandosi, ingoiando ogni possibile bagliore cromatico e tutta la sagacia di cui erano sempre stati i degni ambasciatori.
“Vuoi scopare, John?” ripeté dunque con voce piatta, stantia, e sembrò che mi potesse vedere attraverso perché quell’espressione persa, alienata, non era certo quella dell’uomo per cui ero folle d’amore. Non lo conoscevo, costui.
Mi limitai a far cadere la mascella, gli occhi sbarrati, perché l’unica alternativa sarebbe stata quella di parlare, dire qualcosa, o di prenderlo direttamente a pugni ma al momento sembravo averne perso la facoltà insieme alla forza di fare qualsiasi cosa, anche di sostenere quel soffocante contatto visivo che, così, mi stava stordendo. Avrei voluto distogliere gli occhi dai suoi, scurissimi e ridotti a due tagli netti al centro di un viso scavato, esangue, niente a che vedere con quello luminoso e leggermente rosato sulle guance del bellissimo ragazzo dagli enormi occhi verdazzurro che conoscevo, con la genialità che gli danzava addosso a ritmo di una altrettanto sfavillante arroganza.
Ma non c’era niente di arrogante, in lui, lì e così, adagiato come uno straccio maltrattato su quella poltrona nella semioscurità di una lugubre stanza d’albergo, i primi tre bottoni della camicia slacciati e una manica, la sinistra, arrotolata fino al gomito.
E fu così che la vidi. Vidi la siringa, ancora attaccata al braccio, con l’ago infilato sotto la pelle e lo stantuffo abbassato. Fu così che, in un batter d’occhio, sentii di aver fallito su ogni fronte.
Dovette accorgersi dello spostamento della mia attenzione dal suo viso al corpo estraneo perché cercò di nasconderlo piegando il braccio al petto, inutilmente.
Stupido, stupido idiota, incosciente.
Così t’ammazzi.
Non l’avresti tenuta aperta quella dannata porta se non mi volessi qui.

Stai chiedendo aiuto.
Lascia che ti salvi.

Avrei voluto, dovuto dirglielo, questo, sputarglielo in quella faccia da schiaffi e poi raccogliere tutto il coraggio e schiaffeggiarlo davvero, una volta per tutte, perché non era il mio amore, il mio aiuto ciò che avrebbe meritato in quel momento, ma niente più che uno manrovescio. Ma, come al solito, tutto quello che riuscii a fare fu aggiungere il tutto all’infinito elenco di cose che avrei dovuto dirgli e che non gli avrei detto mai per chissà quale remora nei suoi confronti, o nei miei. Ma tante cose, a Sherlock Holmes, non era necessario dirle affinché le sapesse.
“Che cazzo stai facendo?”
Guardò ancora per un po’ me, poi la scatoletta lucida e rettangolare in marocchino aperta sul tavolo, ed infine la siringa che estrasse senza la dovuta delicatezza, gettandola via sorridendo, abulico, come se non gli importasse delle conseguenze, di una possibile necrosi tessutale a cui tutte le iniezioni sottocutanee possono portare se l’ago non è perfettamente sterile. Poi si portò l’interno del gomito alla bocca leccandone in punta di lingua la cicatrice, piccola e violacea, come un animale ferito fa nella solitudine della sua tana umida.
“Formula bruta: C17H21NO4. Massa molecolare: trecentotre virgola trentasei. Temperatura di fusione: novantotto. Temperatura di ebollizione: centottantasette. Blando anestetico e vasocostrittore che a livello del sistema nervoso centrale blocca il recupero di dopamina nel terminale presinaptico una volta che questa è stata rilasciata. Agisce sulla funzionalità delle proteine di trasporto impedendo che riassorbano la dopamina all'interno del neurone. Risultato: aumento della quantità di dopamina a livello delle terminazioni sinaptiche dei neuroni dopaminergici del sistema nervoso centrale e nelle sinapsi fra le terminazioni dei neuroni che proiettano dall'area tegmentale ventrale, dei neuroni del nucleo accubens e della corteccia prefrontale mediale, portando al fenomeno della tolleranza inversa che aumenta la quantità di recettori per la dopamina postsinaptici. Effetti: distorsione cognitiva e delle capacità recettive, accentuazione della reattività fisica e mentale, riduzione dello stimolo di addormentarsi, della fame e della sete, euforia, maggiore socievolezza e facilità di relazione, infaticabilità e, per la tua gioia, incremento della libido. Abbiamo circa… un quarto d’ora.”
Non so se fossi più intontito da quel fiume di termini scientifici, che purtroppo conoscevo alla perfezione, sputati a velocità supersonica o per l’ultima parte di tale argomentazione. Quella della proposta sessuale, per capirci.
“No” rantolai intontito e scossi la testa, non credendo alle mie orecchie e, soprattutto, ai miei occhi.
In risposta ricevetti l’abituale sorriso sghembo che aveva la doppia controindicazione per me di farmi perdere la testa e prudere le mani allo stesso tempo, insieme all’atteggiamento che seguiva sempre quel genere di smorfia. Abnegazione totale.
Incredibile come la droga sconvolga completamente le abilità della persona asservita, assoggettandola o, peggio, dilatandone le potenzialità e facendone strumento di tortura per gli altri. Mi stavo accingendo a conoscere il lato oscuro che mi aveva sempre tenuto nascosto col quale, a suo tempo, avrei imparato a convivere.
S’alzò barcollando e non feci in tempo a mettere d’accordo forza di volontà e muscolatura che mi fu già addosso. Mi strattonò per un braccio facendomi voltare e atterrare seduto sulla poltrona da lui precedentemente occupata dove m’intrappolò tra le sue braccia, appoggiando le mani sui braccioli e bloccandomi così ogni possibile via di fuga
“No?” sussurrò con voce fioca, ammaliante, una minaccia al sapore di miele, i denti scoperti e lo sguardo di mercurio liquido colato nel mio, agghiacciato.
Il suo respiro, bollente, si andò ad infrangere aggressivo sulle mie labbra, tenute mezze aperte per lo sgomento.
“Sherlock, smettila.”
“Mi stai rifiutando, John?”
Avvicinò il viso al mio, sfiorandomi il labbro superiore col suo, l’arco di Cupido teso e impaziente, deviando poi però verso il mio orecchio sul quale cominciò a scaricare una serie di mugolii volontariamente provocatori intervallati da proposte oscene uscite, forse, dal vaso di Pandora di una qualche recondita stanza segreta nel suo Palazzo Mentale di cui avevo rinvenuto la chiave, tenuta nascosta troppo a lungo nella polvere degli affetti rubati e della convinzione che l’essere umani sia la condanna più insopportabile di tutte, l’ergastolo delle menti brillanti. E i minuti passavano.
Mi lasciai sfuggire un lamento di puro dolore quando mi morse il lobo di un orecchio, baciandone poi la conchiglia arrossata per poi finire con le labbra sospiranti ed umettate pressate contro l’incavo del mio collo, sulla giugulare pulsante di adrenalina.
“Non stai bene, Sherlock…” boccheggiai afferrandolo per le spalle nel tentativo di allontanarlo, invano.
Lo sentii stringersi di più a me, respirare a fondo, come se mi stesse annusando, e trasalii quando mi costrinse a riallacciare lo sguardo al suo, languido ed indagatore.
“Chi è?” chiese, impetuoso.
“Chi è chi?”
“Il figlio di puttana che ti ha fumato hashish addosso.”
Ero troppo preso da quel respiro accelerato, da quelle pupille spropositatamente dilatate, cuori di occhi incattiviti da chissà che sospetto o paura per rendermi pienamente conto che nel frattempo si era inginocchiato tra le mie gambe portando le dita affusolate e scosse dai tremori dell’eccitazione sulla mia cintura, con la quale iniziò ad armeggiare in un impudente concerto metallico.
“Ha-hashish?”
“John,” sospirò, sorridendomi mestamente dal basso “so riconoscere a naso centoquarantadue varietà diverse di tabacco e, da tossico, altrettante modalità di taglio. Chi è?”
Quando feci accorrere le mani sul suo viso, i pollici ad accarezzare dapprima gli zigomi e poi le labbra turgide, interruppe quel suo trafficare di dita e di sguardi appiccicosi per un istante che mi parve durare secoli.
“Non ne puoi proprio fare a meno, vero?” gli sorrisi, strofinandogli il labbro inferiore col polpastrello.
Dovevo placarlo ma, inconsciamente, lo stavo provocando. Il fatto era che non sapevo come muovermi, anche se avessi potuto farlo, o cosa dire per tirarmi fuori da quella situazione parossistica. E il gravoso peso del suo capo, premuto contro il mio ventre, non aiutava per niente.
Alzò lievemente un sopracciglio, gli occhi traslucidi incatenati ai miei, e rispose alla mia carezza lambendo con la lingua la punta del mio pollice.
“Di cosa?”
“Di avere sempre e comunque la situazione sotto controllo.”
Mi morsi l’interno di una guancia quando i suoi denti si strinsero attorno al dito che gli avevo appoggiato sul labbro, avvolgendolo subito nell’abbraccio tra lingua e palato quasi come a chiedermi scusa di tutto il male fisico, e non, che mi stava infliggendo. Non era perdono, però, ciò che bramava, ciò che in ogni caso avrebbe avuto sempre da parte mia. Non ne potevo fare a meno.
“Il mondo mi parla, John” mugolò, chiudendo gli occhi. “Ogni cosa, ogni persona mi parla. È un costante enigma, tutto, ed è meglio della mia dose al sette percento. Ma vedere il rompicapo ovunque, beh, ha i suoi costi.(15)
“Che vita triste.”
Si staccò da me allontanando con un gesto brusco del viso la mia mano e mi spalancò nuovamente gli occhi addosso con tutta la serietà che riuscì a rinvenire.
“Come ho detto, ha i suoi costi. Il nome, John.”
“Non ti riguarda.”
“Risposta sbagliata, dottore” gemette, fintamente amareggiato, scendendo con la bocca sorridente sul mio interno coscia e strusciandocisi contro. “Prova ancora, magari sarai più fortunato.”
“Sherlock…”
Affondargli le dita della stessa mano che aveva scacciato nei capelli e tirargli con malagrazia la testa indietro, lontano dal mio grembo, oltre a fargli emettere un lamento strozzato incrementò ancor di più la curva del suo sorriso sadico e il dilatamento delle pupille in cui l’azzurro si era confuso col nero più cupo, riducendosi a una mera e sottilissima cornice decorativa di quel quadro d’orrore e depravazione che mi stava togliendo la forza di reagire, di ribellarmi, demolendomi organo ad organo.
“Mi stai facendo male, John” rise sottovoce, guardandomi dal sotto in su, e si morse maliziosamente il labbro inferiore senza staccarmi gli occhi di dosso neanche per un attimo.
Avrei potuto alzarmi e scappare via se non fosse stato per le sue braccia magre ma vigorose che, con tutta la loro forza, premevano sulle mie cosce tenendole divaricate e in balia di una situazione che cominciava ad andarmi stretta.
Gli accarezzai la testa, grattandogli dolcemente la nuca e passando le dita tra i boccoli morbidi nella speranza che si rilassasse e che la smettesse di bombardarmi il cervello di immagini totalmente fuori luogo per quel contesto e per il mio attuale stato psicofisico, ma riuscii solo a strappargli qualche inutile mugolio d’apprezzamento così somigliante ad una sessione di fusa degne del miglior felino domestico annoiato.
“Sherlock, ascoltami” tentai al limite dell’esasperazione, massaggiandogli la cervicale.
“Dimmelo.”
“No…”
Con un ringhio e un rapido scatto della testa si liberò facilmente dalla mia presa, e nonostante qualche capello bruno che mi rimase tra le dita non sembrò provare tutto questo dolore, almeno apparentemente. Le sue dita si precipitarono ingorde sulla cinghia di metallo già allentata, facendola saltare via insieme al bottone dei pantaloni e a quel punto, per non soccombere, non mi restò altro se non rispolverare le vecchie tecniche di lotta imparate nell’esercito, cercando di non pensare al fatto che probabilmente avrei rischiato di slogargli un polso.
Lo afferrai per un braccio prima che compisse l’irreparabile, o che io ci prendessi troppo gusto, e lo feci girare portandolo così a sedere nell’esiguo spazio tra le mie gambe aperte, il dorso contro il mio torace e l’altro braccio dietro la schiena, perfettamente immobilizzato.
“Violento,” sogghignò, adagiando la nuca sulla mia spalla in un gesto di assoluta sottomissione. “Mi piace.”
Strinsi maggiormente il suo polso nel pugno, bloccando l’altro braccio sul petto in una morsa dalla quale avrebbe potuto divincolarsi solo lussandosi una spalla. Gemette alto per il vigore della mia stretta e sapevo che proprio bene non gli stavo facendo, ma non c’era altro modo per tentare di ripescare, da qualche parte nel suo inconscio sedato, lo Sherlock assopito, quello vero, brillante ma corroso dalla chimica che lui stesso diceva di ammirare e che lo stava uccidendo, grammo dopo grammo.
“Shh, calmo.”
“Ti prego, John” miagolò cercando di divincolarsi, ridotto alla stregua di un bambino capriccioso che supplica la madre per avere di più, di più di tutto e subito.
Fece forza sul braccio bloccato sul torace portandosi dietro anche la mia mano che si appoggiò sull’addome in una languida richiesta di proseguire oltre, indipendente, come su un sentiero tracciato percorso più e più volte dove ogni volta era migliore della precedente.
Lo accontentai, accarezzandogli la pancia cauto e resistendo alle sue dita che spingevano affinché mi avventurassi più in basso, tra le gambe che aveva divaricato in sordida preghiera, usufruendo di tutto lo spazio possibile.
“Dio…” sussurrai, appoggiandogli le labbra nel triangolo di pelle sensibile dietro l’orecchio e sollevandogli la camicia. “Perché deve andare sempre a finire così, eh ragazzino?”
Lo vidi sorridere, leccandosi le labbra, e socchiudere gli occhi mentre con la mano guidava la mia nella sua esplorazione sotto la stoffa, badando però a tenersi a debita distanza dal limitare dei pantaloni.
In protesta, con un leggero colpo di reni si spinse col fondoschiena contro di me schiacciandomi ancora di più contro la poltrona e, peggio, stimolando le zone che sapeva essere in quel momento più sensibili del mio corpo.
“Così come, John?” ridacchiò, continuando quel debole massaggio a ritmo della mia mano.
Gli baciai la mandibola saturandomi il naso del suo profumo intenso, sempre fresco, il palmo avido dei suoi addominali contratti, e mentalmente lo maledissi.
“Così che si scopa per dimenticare, Sher… Ogni cazzo di volta.”
“Beh, potremmo essere degli alcolizzati. Ci è andata piuttosto bene.”
Mi lasciai andare in un gemito quasi impercettibile, poco meno di un guaito, appagato dalle spinte sempre più profonde dettate da un paio d’anche incredibilmente mobili ed elastiche, e ovviamente il messaggio arrivò forte e chiaro all’orecchio in cui si riversò, agendo come una favilla scoccata in un barile imbottito di polvere da sparo.
Rise basso quando affondai le unghie nella pelle del suo addome ed abbandonai la fronte sulla sua spalla, inerme, denudato di tutto il coraggio per impormi contro un mulino a vento di domande e di risposte inesistenti, un gigante arrabbiato fatto di accuse, di bugie trascinate per troppo tempo, così tanto che quasi paiono verità, la più dolce e rassicurante di tutte quelle possibili.
Sospirai, ma non capitolai, non ancora.
“Se per bene intendi un cocainomane tanto strafottente quanto geniale e un medico masochista che non sa come curarlo e di cui sta diventando totalmente dipendente, beh… allora siamo messi da Dio.”
“Brutta cosa, la dipendenza” mormorò. “È un’esperienza unica, straordinaria… almeno finché non t’uccide. Un po’ come la vita.”
“Tu mi stai uccidendo.”
“Perché sono la tua vita?”
Una crepa, l’ennesima e la più grossa di tutte, si andò a sommare al resto delle spaccature sulle pareti incrinate di un cuore il cui battito, al ritmo di quelle carezze così sconvenienti, andava ammansendosi, prolungando il dolore frattura dopo frattura pompandolo ovunque scorresse sangue. E mi sentivo al ciglio di quel mio decesso, la morte stretta addosso e una notte, una sola, per convincerla a darmi la possibilità di risorgere dalle ceneri che mi aveva soffiato addosso.
“Perché sei la mia vita.”
I movimenti del suo bacino improvvisamente si placarono, come se i muscoli gli si fossero atrofizzati di colpo sotto il potere di chissà che incantesimo, rilassandosi, quasi sciogliendosi sotto la carezza che continuava a avvolgere senza malizia il suo addome nudo e, in uno slancio di improvvisa e forse malriposta fiducia, gli liberai il polso da dietro la schiena andando ad affondare  la mano così libera nella selva oscura dei suoi capelli, annodandomi i boccoli d’ebano intorno alle dita e stimolando il cuoio capelluto sensibile sotto i polpastrelli.
Ruotò di poco il capo facendo scontrare le nostre fronti mantenendo però gli occhi chiusi, in contemplazione silenziosa dei suoi eserciti di ombre nemiche con cui probabilmente stava giocando a scacchi, immerso nel buio invalicabile dietro a quelle palpebre mobili e tumide.
“Mi dispiace, John” mugolò, fattosi tutto d’improvviso più fragile di un pulcino lasciato all’addiaccio, il peso delle lacrime a soffocargli la voce.
“Per cosa?”
“Per Mary. Sono stato così cattivo con lei…”
“Oh, no…” dissi, stringendolo di più come avrei fatto con un bambino sconsolato, perso. “Tu non sei cattivo. Sei solo… arrabbiato.”
“Ma lei è buona, e gentile. Lei ti ama.”
Silenzio. Un silenzio che durò un sospiro.
“Non chiedermi di amarla più di quanto ami te” gemetti, anch’io con gli occhi carichi di amarezza e sale. “Non farmi… scegliere.”
Lo sentii scuotere piano la testa ed espirare, forte della convinzione che forse in me avrebbe potuto ancora trovare qualcosa di non legato a lui, di non soggiogato a tutto quel grossolano errore di carne e tormento.
“Ma tu hai già scelto, John. Hai scelto di dipendere da proiettili e adrenalina da quando il giuramento di Ippocrate te lo sei giocato al tavolo dei sentimenti. Importarsene non è mai un vantaggio…”
“Dio, sta’ zitto…” sussurrai tra i denti, colpito e affondato, strusciando la fronte sulla sua come la chiglia di una barca dilaniata dalla tempesta arrivata finalmente in porto. “Tu non sei questo. Tu non sei…”
“Una spia drogata che non sa cosa sia l’amore?”
“No. Tu lo sai cos’è, oh, se lo sai…”
“Come fai a dirlo?”
“Altrimenti non mi avresti fottuto mente e corpo insieme, dal primo giorno, solo esistendo.”
E solo come due anime destinate all’eternità possono fare, aprimmo in contemporanea gli occhi, soccombendo l’uno dell’elettricità d’arcobaleno sprigionata dall’altro, e finalmente realizzai che, in tutta quella storia, avrei fallito solamente se gli avessi staccato la spina, se ci avessi lasciati in balia del nostro buio. Ma eravamo due lucciole in un barattolo di vetro, sì, e tutto era luce e riflesso, tutto stelle e galassie e occhi di cristallo verde sopra la testa e ali e ossigeno rarefatto… Stupefacente.
“Il sesso non può guarire, tesoro. E neanche la cocaina…” mormorai quando lo sentii tremare appena, ed accostai le labbra alle sue. “Solo l’amore può.”
Accettò quel bacio come fosse l’unica cima di salvezza tra se stesso e il baratro, l’ennesima dose, solo più sana e appagante, un piacere che non dura un quarto d’ora lasciandoti poi a contorcere nella polvere del pavimento tra i più atroci supplizi, le mani nei capelli mentre gridi che ne vuoi ancora, e intanto la testa scoppia e un colabrodo, che una volta era un corpo, che si sgretola come una carcassa lasciata a marcire al sole, una statua di gesso secco svuotata di tutta la vita di cui si è fatta dura imitazione.
Non è dipendenza, almeno non una di quelle che ammazzano. È sì adrenalina, sangue e chimica, ma soprattutto semplice bisogno, bisogno di sapere che non sei solo perché esiste qualcuno venuto al mondo un giorno per amarti, nel bene e nel male, accettando ogni difetto ed adorando ogni minima qualità. Ed è per queste persone che vale la pena vivere, morire, salvare e lasciarsi salvare.
“Lascia che raccolga i tuoi pezzi, Sherlock.”
“John…”
“Shh… Dormi, amore.”
Fondemmo i respiri, un ponte sicuro sul quale appoggiare e far passare parole di conforto, dolci ninne nanne e poesie di baci e sfioramenti di cui, forse, la mattina seguente non sarebbe rimasto nulla se non il dolce sapore sulle labbra e i brividi ancora vivi e frizzanti sotto la pelle.
Lo cullai tra le mie braccia, accarezzandogli la testa come faceva mia madre per farmi addormentare, da bambino. Dormi, amore.
Lo vidi rilassarsi, assopirsi così, in braccio, come un orfano con cui il mondo è stato troppo meschino.
“Lasciati guarire” furono le mie ultime parole, soffiate direttamente sulla sua bocca, mentre anch’io cadevo tra le braccia di Morfeo trionfatore sulla morte, e così tutte quelle ombre smisero di vorticare e di pungerci l’anima con le loro spade di sensi di colpa, coagulandosi in un’unica, pacifica notte senza sogni.

Mi risvegliai con buona parte delle ossa anchilosate, in posizione fetale sulla poltrona ed entrambe le gambe doloranti, una voce familiare e fievole nelle orecchie che mi sibilavano e una mano aguzza che mi scuoteva per una spalla.
Quando riaprii gli occhi, mi trovai di fronte un volto cereo, segnato da rughe profonde sulla fronte e intorno agli occhi, due pozzi grigiastri traboccanti di pungente inquietudine.
“Mycroft…” rantolai, la cui immagine mi appariva ancora annebbiata.
“John, svegliati…” disse quest’ultimo in tono greve, supplichevole.
Non l’avevo mai visto così sconvolto.
“Dov’è Sherlock? Co-come sta?”
Idiota.
“Non c’è tempo. È Mary…”
Il cuore mi saltò di un battito, seguito dal mio respiro che mi si solidificò in gola.
“È stata rapita.” 






Note:
(15) citazione da "Elementary" (di cui mi sto riscoprendo accanita fan)




Author's Corner:

Domando perdono... *si prostra autoflagellandosi con la tastiera*
Questo capitolo è semplicemente TREMENDO. Non è assolutamente uscito fuori come pensavo, a cominciare dal fatto che avevo giurato a me stessa che sarebbe stato l'ultimo. Ho cercato di inserire un minimo di dialogo serio tra John e Sherlock, il che poteva avvenire solo in questo contesto in quanto John come al solito è un imbecille patentato e Sherlock un tossico senza un briciolo di cervello per le cose veramente importanti. Entrambi non ci capiscono più niente e sono molto autobiografici per la sottoscritta perchè sono completamente nel pallone right now e questa storia mi porterà alla soglia dell'alcolismo, ne sono certa... XD
Non ho altro da aggiungere, solo siate clementi e pazienti per il prossimo capitolo in cui mi atterrò molto di più al canon di quanto abbia fatto finora. *parte un applauso concitato*

miss potter (che vi adora)
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p.s. Ovviamente tutto il vaneggiamento di Sherlock sulla cocaina è brutalmente stato scopiazzato dalla sottoscritta da Wiki. Odio la chimica. 





  
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