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Autore: King_Peter    15/05/2013    7 recensioni
[Attualmente inattiva per mancanza d'ispirazione]
Quattro ragazzi, diversi si ritrovano a dover salvare il mondo di Linphea da un'organizzazione che spadroneggia sulle sue terre e che si fa chiamare "Congrega della Morte".
Presto sangue e dolore bagneranno la terra. Loro sono gli unici a poter impedire lo scoppio di una violenta guerra.
La Congrega sta cercando i Quattro Elementi, grazie ai quali essi potranno attingere alla fonte diretta della vita e controllare la volontà e il sangue di ogni essere vivente di Linphea e degli altri sette mondi ad esso attigui.
L'uomo perderà il proprio libero arbitrio, verrà schiavizzato senza nemmeno accorgersene, compiendo gli ordini dei suoi oscuri padroni.
Scegliere di combattere o consegnarsi ai propri carnefici?
*Il sangue?
L'unico amico di cui ti puoi veramente fidare.
*
Genere: Avventura, Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Il Sangue?
L'unico amico di cui ti puoi veramente fidare...



  

2. Re e regina, su un’altra scacchiera 

*Richard*
Spirava una leggera brezza, come uno di quei venti che ti accarezza la pelle e ti lascia una sensazione di felicità nella bocca, come se ti fosse appena successo qualcosa di bello.
Forse era solo il cielo, penoso nei nostri confronti, o forse Dio che mandava quel vento, perchè quello che ci era successo non era affatto una cosa di cui essere felici.
 
* * *
 
Mi sentii un cerchio alla testa, la pelle pizzicare come se fosse venuta in contatto con l'elettricità.
Giravo il capo a destra e a sinistra, come se fossi nel mio letto, ma sentivo che le mie tempie si stavano scontrando, premevano, contro qualcosa di duro, troppo duro per essere un cuscino.
Aprii leggermente gli occhi, per quello che potei. Sbattei le palpebre, più di una volta, prima che si abituassero alla luminosità che ci circondava.
Era sera ed ero esattamente sotto un palo elettrico della luce. Non mi ricordavo come fossi finito lì e, anche se avessi voluto alzarmi, non ce l’avrei fatta: mi mancavano completamente le forze.
Sentivo una certa nausea salirmi su per la gola, ma la ricacciai indietro. Mossi le mani su quello che mi accorsi essere asfalto, per incontrare capelli morbidi, spumosi.
Mi voltai verso mia sorella Bianca, i suoi occhi chiari, il suo viso appoggiato alla strada. Nell’aria si sentiva un odore forte di benzina e di gomme bruciate. Potevo avvertire il calore che ci stava abbracciando, potevo ascoltare il rumore lontano delle sirene dei vigili del fuoco e della polizia.
Poi il buio.
 
* * *
 
Adesso ero su qualcosa di più comodo, per così dire. Sentivo delle voci che parlottavano intorno a me, discutevano, anche sommessamente.
Aprii gli occhi e fermai il senso di vomito che mi stava salendo su dallo stomaco, costringendomi a dire: “Do..dove s..sono?”
La mia voce interruppe i sussurri degli altri: suonava flebile come una fiamma al vento, una fiamma piccola, sola, destinata a spegnersi, a morire, suonava intrisa di sofferenza, suonava avvolta da disperazione.
Un uomo, un poliziotto credo, mi venne incontro. Mi accorsi che mi avevano attaccato una flebo al braccio e che, poco distante, su una barella, c’era anche mia sorella, addormentata, credo. I suoi occhi erano nascosti dietro un paio di occhiali da sole, anche se la notte era calata su di noi, i suoi lineamenti erano tozzi, squadrati, la sua bocca prosciugata, secca: non dimenticherò mai quel viso, mai.
Respiravo affannosamente.
Dalla sua espressione mi diceva che era successo qualcosa di terribile, di veramente brutto. Le sue labbra fecero per parlare, ma le parole gli morirono in bocca, vittime della sua sensazione di pena.
“Ehm…mi dispiace.” furono le sue parole, “Siete stati vittime di un incidente stradale e…”
S’interruppe, guardando mia sorella.
“Voi siete gli unici superstiti.” mi disse, “È un miracolo che voi siate vivi.” aggiunse, “I vostri genitori e il conducente dell’altra vettura sono…morti. Mi dispiace veramente tanto. sussurrò, come se avesse paura di farsi sentire da qualcuno.
Storsi la bocca in una smorfia di terrore, piatto. Quel terrore che ti prosciuga l’anima, che la fa diventare secca, arida.
La mia bocca, incapace di parlare, stava zitta, ma gli occhi lasciavano andare quel dolore amaro che adesso mi pervadeva, mi faceva sentire vuoto.
Guardai Bianca, lacrimando.
“Tua sorella sta bene.” mi rassicurò, “Sta solo riposando.”
La sua voce si affievolì nel vento, come semi sparsi e destinati a non germogliare, ma a morire, secchi, nella terra arida.
“Grazie.”sussurrai appena, stringendomi nel mio dolore, nella mia corazza che volevo non si distruggesse mai, che volevo mi accompagnasse per sempre, che attutisse i colpi mancini della vita.
Ci misero in ambulanza e sfrecciammo tra le vie buie e notturne della città, dove regnava la calma, lasciandoci alle spalle i rottami, ancora leggermente fumanti, delle auto che si erano scontrati.
 
* * *
 
Ci adagiarono sui tipici letti da ospedale, con le tipiche vestaglie da ospedale. Ci fecero mangiare le tipiche sbobbe da ospedale ed eravamo attaccati a macchine tipiche da ospedale.
Un paradiso, insomma.
“Ehi Bianca, tutto bene?” le chiesi, quando l’infermiera uscì dalla nostra camera, portandosi dietro la flebo usata.
Lei annuì, debolmente, non guardandomi negli occhi. Sapevo che stava piangendo, stava inghiottendo le lacrime pur di non farsi sembrare debole davanti agli altri.
“Sono morti, vero?” mi chiese, con una voce simile ad un rantolio cupo, oscuro.
Guardai le coperte che mi scaldavano, quella specie di molletta grigia attaccata al mio dito, quella flebo trasparente che si stava inoltrando nelle mie vene.
Non volevo dirglielo, ma la situazione che stavamo vivendo glielo avrebbe confermato comunque, con o senza di me.
“Si.” le dissi, sconsolato, abbassando lo sguardo.
Nessuna risposta, solo il silenzio dominava la stanza del reparto nella quale ci avevamo messi, con le pareti colorate di un grigio chiaro con qualche sfumatura tendente al bianco, luci basse, armadietti colmi di medicinali, porte scorrevoli e una piccola televisione su uno spazio ricavato nel muro.
Stavo per mettermi a dormire, se mai avrei chiuso occhio, quando lei si voltò verso di me, con gli occhi colmi di lacrime.
Aprì leggermente a bocca per dire qualcosa, ma poi ingoiò le parole, come se facessero male più delle armi.
“Non ricordo i loro volti.” mi confessò, con una voce che non era la sua, non l’avevo mai sentita così.
Per un attimo provai pena per lei, ma poi mi accorsi che nemmeno io ricordavo i loro occhi, i loro lineamenti, le loro capigliature.
“Anch’io.” confermai.
Per un attimo restammo lì a guardarci, come se ognuno volesse carpire le sensazioni dell’altro dai suoi occhi, dalle linee che percorrevano la fronte, sudata, leggermente ferita.
Potevo vedere la disperazione in lei, la paura, cosa che probabilmente lesse anche lei nei miei occhi. Le porsi la mano. Lei sembrò incerta, poi me la strinse.
Ci addormentammo così, con quelle mani unite che sembravano un ponte tra i nostri stati d’animo, un punto di equilibrio, ci addormentammo sotto lo sguardo benevolo della signora del cielo, la luna piena, feconda nel grembo del cielo trapuntato di stelle.
 
* * *

Ci dimisero dall’ospedale qualche giorno più tardi, giusto il tempo necessario per farci riprendere dallo choc che avevamo subito quella notte, quella maledetta notte.
La notizia era stata girata per tutti i telegiornali: si era parlato dello scontro tra le due auto, dei due ragazzi che si erano salvati per miracolo da quell’impatto mortale, sbalzati dalla macchina sulla quale viaggiavano da un’onda d’urto, poco prima che queste esplodessero in una nube nera.
Erano venuti dei giornalisti, si erano appostati davanti al St. Marie Hospital, ma non li facevano avvicinare, per fortuna.
Rivedere quella strada, quel lampione, quelle due carcasse di auto nello schermo di una televisione mi faceva sentire abbandonato, semplicemente. Quel ricordo mi percuoteva come una frusta, perfida, malvagia, sadica. Era come se mille aghi pungenti volessero entrare nella mia mente e pungerla, senza dire, ovvio, che questi procuravano un dolore immane, che feriva l’anima.
Potevo sentire che ciò che provavo io, era amplificato in Bianca, adesso vulnerabile, stanca di combattere.
Lasciammo l’ospedale con i servizi sociali. Una donna bionda ci era venuta a prendere e ci aveva fatto uscire da una porta secondaria, dal retro dell’ospedale e ci aveva fatto salire su un’auto con i vetri oscurati per impedire ai giornalisti di assalirci.
Mi chiedevo come la gente fosse ostinata per fare uno scoop, di come la gente bramasse la celebrità, di come riuscisse ad essere invadente nei confronti degli altri.
Per tutto il tragitto che facemmo, parlò solo la donna: dei suoi figli, che avevano la nostra stessa età, che scuola frequentassero, che sport praticassero.
Io non le prestavo attenzione, così come pure Bianca, immersa nei suoi pensieri, come se stesse scavando ancora nella sua memoria per avere un briciolo di ricordo riguardo ai nostri genitori, mentgre io osservavo il paesaggio che ci sfrecciava intorno, passando dai freddi grattacieli della città, alla calda e vegetazione della sua periferia.
L’auto si fermò e non mi accorsi nemmeno che era passata circa un’ora da quando avevamo lasciato l’ospedale. Scendemmo dalla macchina, trovandoci davanti a dei cancelli di ferro.
“Ed ecco a voi l’istituto St. Georgine, uno dei più prestigiosi della città. Ci sono tanti ragazzi come voi, non preoccupatevi, vi integrerete benissimo!”ci disse, dandoci una perfetta visione dei suoi denti, bianchi, “La direttrice Mc Leod vi aspetta dentro.” aggiunse.
Si diresse verso la portiera del posto passeggero, accanto al guidatore, un uomo vestito di nero dalla testa ai piedi e che quindi, indirettamente, sembrava di più un becchino che un autista.
“Arrivederci!” ci augurò, “E buona fortuna.” sussurrò poi, mentre entrava in macchina, che partì, poi, a tutto gas.
Eravamo lì, soli, con borse e valige che ci avevano detto essere le nostre, tra la polvere arida e i cancelli di ferro.
 
Varcammo l’entrata dell’istituto. Sembrava uno come gli altri, ma ci mettemmo ben poco a capire che, invece, era un orfanatrofio.
Ragazzi e ragazze ci guardavano come fossimo extraterrestri, quando ci dirigemmo verso l’ufficio della direttrice, superando statue disseminate in quello che era lo spazio aperto, le siepi curate e le colonne che formavano un portico stretto dal quale si accedeva all’orfanatrofio vero e proprio: pregiati tappeti rossi coprivano il pavimento, scaloni di legno, pavimento di parquet, quadri settecenteschi, ma anche termosifoni, postazioni internet e distributori automatici.
Ci trovavamo in un mix tra passato e presente.
Raggiungemmo l’ufficio della Mc Leod dopo un po’ di tempo, visto che nessuno si degnava di darci informazioni e bussammo.
La stanza avrebbe potuto essere quella di mia nonna: aveva pianta circolare, come se fosse una torre.
Due librerie stracolme di libri costeggiavano la parete destra, mentre alla sinistra vi era un armadio di legno scuro, riccamente intagliato.
Il tenue color confetto delle pareti si scontrava con il celeste acceso del soffitto.
Appesi vi erano anche tutte le lauree e i riconoscimenti della Mc Leod che stava seduta su una poltrona rossa e aveva in mano un gatto nero, come la notte.
La donna che ci venne ad aprire era lei: una stretta crocchia grigia teneva legati i capelli, mentre due occhi celesti, costeggiati di borse nere, ci scrutavano attenti. Aveva anche un gatto, persiano credo.
Ci diede il benvenuto e ci illustrò le regole dell’”istituto”, per poi accompagnarci alle nostre stanze.
Quando ce l’ebbe mostrate rimanemmo io e Bianca da soli, a guardarci negli occhi che dicevano “Dove cavolo siamo capitati!”
"Ehi, tutto ok?" le chiesi, guardandola in quegli occhi persi, che sfuggivano ai miei, alle sua mani evanescenti.
Annuì.
"Sicura?" continuai, insistendo.
"Ho detto che va tutto bene, chiaro?" sbottò, sbattendo la porta della sua stanza, lasciandomi lì, solo come un cane e assieme alle sue valige.

*Angolino dell'autore*
Salve a tutti coloro che mi seguono/recensiscono! :) Ho voluto integrare questo capitolo perchè credo che ci volesse, sono passato troppo velocemente e non mi sono soffermato sul loro passato...u.u
Poveri angioletti! xD
Allora, come vi sembra? Decente? Non avevo idee, quindi non bastonatemi se non vi ispira! xD Vi dico solo che l'ottavo capitolo è già scritto, devo soltanto rileggerlo! ^^
Alla prossima, fatemi sapere con una recensione! :P
Ah! Visto che non si possono lasciare due recensioni nello stesso capitolo, potete lasciare la vostra recensione all'adesso ultimo capitolo postato, cioè "Coraggio, determinazione e una buona dose di faccia tosta.", dove siete sicuri che non avete lasciato nulla.
Scusate questi fatti contorti, ma ci voleva, me lo sento.
King


**é*é*djdjd
  
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