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Autore: Shark Attack    15/05/2013    5 recensioni
Prendete una classica storia fantasy e buttatela via: il protagonista cade dalle nuvole e si ritrova a dover salvare il mondo come dice una profezia sbucata da chissà dove, giusto? No, non qui.
Lei è Savannah, lui è Nehroi: sono fratelli senza fissa dimora, senza passato, senza futuro ma con un presente che vogliono vivere a cavallo tra il loro mondo e il nostro seguendo solamente quattro regole: non ci si abbandona, si restituiscono i favori, non si prendono ordini e non si dimentica.
Sfidano antiche leggende, rubano amuleti e armi magiche di ogni genere per il solo fine di diventare più forti e usano i poteri per vivere da nababbi a NewYork. Il resto non conta. (... o almeno, così credono!)
[Grazie anticipate a chiunque vorrà essere così gentile da leggere e lasciare due parole di commento! ^-^]
Genere: Dark, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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31
Basta una Telefonata



La bianca, la pacifica, il palazzo dei palazzi, la casa del Creatore: erano tanti i nomi che erano stati rivolti a Tolakireth nel corso dei secoli, ognuno con una storia e un motivo, finendo per essere parte integrante della tradizione orale e della cultura del mondo magico.
Non importava il rango, lo status, lo stile di vita: negli occhi di tutti appariva solo distruzione e nei loro cuori qualcosa si frantumò inesorabilmente quando quel pezzo della loro storia smise i suoi splendenti panni.
«Come è stato possibile?»
Era questa la domanda che rimbombava nelle menti di tutti e scivolava quasi automaticamente fuori dalle loro labbra.
Capi, guardie, camerieri, gente di passaggio.
Quell'edificio parzialmente squarciato, con le pareti crollate che mostravano il giardino e la foresta che avevano sempre celato al mondo magico, era una vista straziante.
«Chi è stato?»
Era la domanda successiva, quella che forse nasceva ancora più spontaneamente nella folla che era accorsa dopo aver sentito il boato nelle regioni accanto.
Sembrava che un animale gigantesco avesse abbattuto la sua possente zampa e avesse dilaniato il palazzo come un castello di sabbia sulla spiaggia, rompendolo in due e lasciandoci un buco profondo nel mezzo.
«Dove sono i Capi?»
L'ultima domanda, la più diffusa.
Dove erano i Capi, perché non l'hanno impedito? E dove sono adesso, che stanno facendo?
Tolakireth è il simbolo dell'unione loro e delle regioni, perché non l'hanno protetta?
«Qualcuno deve pagare!»

Completamente circondato da decine di agenti di varie agenzie, si sentì come un topolino in trappola. Savannah era svenuta dopo tanti sforzi, ma nulla toglieva che quel gesto, per quanto ben giustificato, lasciava Nehroi completamente indifeso e solo in mezzo a fin troppi ed ingestibili nemici.
«Siete in arresto», disse un giovane poliziotto dai biondi capelli a spazzola.
«Siete completamente fottuti», corresse accanto a lui un collega più anziano, con la barba ispida e i capelli ingrigiti. Si avvicinò al brehkisth con fare trionfante, la pistola sempre puntata al suo viso, e gli intimò di voltarsi lentamente. «Mani bene in vista», aggiunse con voce seria e vibrante.
Nehroi sospirò abbattuto, sconsolato, sconfitto, e obbedì. Alzò le mani come ordinato e si voltò verso la parete rocciosa dando, non senza un brivido gelido e un'agitata sensazione di disagio, le spalle a quell'esercito umano.
I suoi occhi videro la striscia violacea che Savannah usava da anni per aprire un portale in quel punto, proprio lì, accanto alla loro casetta, la loro amata base. Come avevano fatto a trovarla? Si erano traditi in qualche modo, avevano lasciato indizi?
L'agente gli afferrò un polso, poi si udì un rumore metallico; Nehroi sentì la fredda manetta legarlo come una pesante catena, pendendo sui tendini e sulle vene pulsanti, dopo di ché gli venne afferrato anche il secondo polso e l'arresto fu completato.
Accanto a loro due un altro paio di agenti stavano facendo lo stesso procedimento con la svenuta Savannah, chinandosi sul suo corpo addormentato con cautela; un terzo poliziotto copriva loro le spalle puntando continuamente la pistola verso la sua testa.
Una volta ammanettata, il poliziotto di guardia infilò la pistola nel fodero sul fianco e aiutò i colleghi a sollevarla e a scuoterla per svegliarla.
«Lasciatela stare!», esclamò Nehroi con ferocia, quasi abbaiando loro.
Alcuni poliziotti, tra quelli barricati dietro le molte vetture parcheggiate attorno alla casetta, ridacchiarono divertiti, ma il brehkisth digrignò i denti e continuò a guardare in cagnesco gli agenti che reggevano sua sorella con mal grazia. «Non si sveglierà prima di dopodomani, smettetela!»
«Che cos'ha?», domandò l'agente che lo aveva ammanettato. La sua voce non era né divertita né preoccupata, era solamente interessato all'informazione. «È malata?»
«Troppi shock in poco tempo», si limitò a rispondere il ragazzo. «Forse dovrebbe visitarla un medico», aggiunse poi, sperando di proteggerla mettendola in un ospedale.
L'agente sembrò valutare attentamente quel suggerimento e si avvicinò a Savannah per scrutarla e decidere. Le toccò la fronte e le sentì il polso, poi scosse la testa e fece un cenno ai colleghi che la sorreggevano. «Portiamola in centrale e basta, riposerà in cella», disse risoluto.
Gli lessero i suoi diritti e il ragazzo annuì svogliatamente quando sentiva una parola dal suono carino.
Mentre veniva scortato nell'auto della polizia, però, Nehroi provò una strana sensazione: qualcosa nel suo petto si era incrinato vedendo che la loro casetta, nascosta e ben protetta dalla folta vegetazione di quel parco naturale, era stata completamente svuotata. Quella era la prima terra umana su cui avessero messo piede da bambini, accogliendo i loro corpicini bruciacchiati dal sole del deserto e provati dall'infanzia difficile, con la sua pace e i freschi rami verdeggianti. Quelli che gli scarponi dei poliziotti stavano pestando senza riguardo erano i primi fili d'erba che i Fein Anis, i Fratelli del Deserto, avessero mai visto e toccato; sotto quell'abete avevano riposato esausti e soddisfatti dopo il primo attraversamento del portale, contando le differenze tra il deserto in cui erano nati e cresciuti e quello strano mondo verde.
La casetta l'avevano costruita loro, con assi di legno provate dall'umidità ma rinforzate dalla magia nel corso degli anni, sullo stampo di quella casa in cui avevano vissuto con il nonno, come se non potessero fare a meno di ricordare le loro origini.
E adesso quella casetta, il loro tempio, era stata profanata da umani con le mani ricoperte da guanti blu che fotografavano ogni loro oggetto, lo prendevano e lo infilavano in buste di plastica numerate.
Gli premettero la testa verso il basso per farlo entrare in macchina e il loro piccolo rifugio svanì dalla vista di Nehroi.
Savannah venne adagiata sul sedile di un'altra volante, e il ragazzo per tutto il viaggio non fece altro che chiedersi se fosse caduta dopo la discesa dal sentiero di montagna.
Arrivarono in centrale dopo un'estenuante ora e mezza passata completamente in silenzio o ascoltando le inutili chiacchiere del poliziotto che guidava e del suo collega accanto, immersi nelle loro considerazioni sul derby che ci sarebbe stato di lì ad un paio di sere e sulle ultime novità politiche.
La centrale era la stessa dell'ultimo arresto e Nehroi si stupì quando se ne accorse. Guardò i poliziotti che lo avevano arrestato, che in realtà avevano la scritta “FBI” sui giubbotti antiproiettile, ma la risposta gli arrivò prima che formulasse la domanda.
«Bentornati», disse Stalsky uscendo da una vettura del corteo che era sceso dalla montagna dove c'era la casetta. «Ero impegnato a recuperare tutti i beni che avete trafugato per assistere alla vostra cattura... mi fa piacere rivedervi, ragazzi.»
Nehroi fece una smorfia e guardò altrove. «Commosso», borbottò. Scoccò un'altra occhiataccia ai poliziotti che stavano scortando sua sorella su per i gradini della centrale e non li perse di vista neanche per un istante con uno sguardo tanto attento da sembrare famelico.
«La metteremo in una cella e la lasceremo tranquilla finché non si sveglierà», lo informò Stalsky con una pacca sulla spalla. Nehroi lo guardò così male che sembrava volesse staccargli la mano a morsi e l'uomo ritirò subito il suo gesto. «Ad ogni modo vorrei fare quattro chiacchiere con te», disse serio. Indicò con un cenno della testa un agente dell'FBI alle loro spalle, quello che aveva ammanettato Nehroi, che li salutò alzando distrattamente una mano mentre parlava al cellulare.
«Mi doveva un favore da qualche mese, da un altro caso, così ho ottenuto l'esclusiva di un primo colloquio...»
Nehroi, che lo ascoltava appena e continuava a seguire sua sorella a distanza, sbuffò annoiato.
Stalsky annuì a sé stesso, come se in qualche modo se lo fosse aspettato, e condusse il ragazzo oltre le scrivanie dei poliziotti e dei detective della centrale, facendolo entrare nella stanzetta degli interrogatori in cui aveva parlato con Savannah quasi tre settimane prima.
Lo liberò per pochi istanti, prima di assicurarlo saldamente ad una sbarra sotto al tavolo, facendovi passare attorno la catena delle manette e rimettendogliele ai polsi, poi prese posto di fronte a lui e lo fissò.
Passarono qualche istante in silenzio.
Stalsky fissava Nehroi e Nehroi fissava le sue mani.
Il detective iniziò a tamburellare le dita sul tavolo ma al ragazzo non importò né sembrò accorgersene.
«Vedi?», disse l'uomo indicando il piano vuoto come se gli stesse facendo notare un'ovvietà. «Non ho nulla con me. Perché ancora, per quanto surreale sembri, non abbiamo nulla su di voi.»
Nehroi fece spallucce e non alzò gli occhi. Continuava a dare l'impressione di essere annoiato e ci fu qualcuno, oltre il vetro a specchio, che ne rise.
«Non sappiamo neanche i vostri nomi, se non quelli che avete inventato da bambini e dichiarato in giro. Tutti falsi, ovviamente, tanto che sono ormai molti quelli che vi chiamano Fantasmi.»
Nehroi ridacchiò debolmente ed alzò di qualche centimetro il suo sguardo stanco. «Non siamo ancora morti», sussurrò con voce roca, calcando in maniera inquietante quella parola, “ancora”.
Stalsky si aggiustò gli occhiali sottili con il dito medio e riprese a tamburellare turbato.
«Come ti chiami?», domandò dopo qualche istante.
«“Come non ti chiami” sarebbe più giusto.»
Il detective rimase interdetto per un istante, poi scosse la testa e sorrise. «Va bene. Come non ti chiami?», chiese decidendo di assecondarlo.
Nehroi rimase impassibile e non dimostrò alcuna vitalità. «Dì un nome», lo invitò con voce piatta.
«Martin.»
«Non mi chiamo Martin.»
Stalsky alzò gli occhi al cielo. «Jeremy», riprovò.
«Non mi chiamo Jeremy.»
Sbuffò spazientito. «Quanto andrà avanti questo gioco?»
«Quanti nomi conosci?»
Qualcuno dietro il vetro si mise a brontolare; Stalsky non poteva sentirli, ma avrebbe compreso benissimo perché anche lui iniziava ad essere innervosito da quel comportamento irriverente.
Si alzò in piedi e si appoggiò con entrambe le mani sul tavolo, allungandosi verso Nehroi con lo sguardo più serio che potesse avere. «Siete ricercati da una vita, avete trafugato decine e decine di antichi manufatti e persino moltissimi dipinti che i musei più sicuri del mondo – dal Louvre all'Hermitage, dal Tokyo National al Met - non sono evidentemente riusciti a proteggere da due ragazzini...»
«Non avete idea di quante cose non provengano da questo mondo», lo informò Nehroi in un brontolio annoiato, come se stesse facendo notare una cosa ad un bambino. Stalsky lo ignorò.
«Com'è possibile che abbiate messo a segno tanti colpi? Senza mani essere visti e registrati da qualche parte, per di più! Io mi trovo perfettamente d'accordo con la definizione di Fantasmi, quando riguardo le riprese delle telecamere di sorveglianza... ancora non capisco come abbiate fatto a sfuggirci al fast food il mese scorso, siete semplicemente scomparsi. Ma quest'ultima apparizione...», ridacchiò come se qualcuno avesse detto una battuta. «Stavolta vi siete superati. Siete piombati in mezzo a decine di agenti di polizia e dell'FBI, comparendo all'improvviso.»
Nehroi ridacchiò. «Siamo usciti dalla montagna», disse tranquillo.
Stalsky inspirò profondamente e socchiuse gli occhi per qualche istante. «Smettila», gli intimò alzando un dito robusto verso di lui. «Non è il momento di scherzare.»
«E chi scherza?»

Silar li aveva bloccati sulle scale, stavano salendo in tutta fretta per rintanarsi in una delle loro stanze.
Vederlo lì, stranamente tranquillo e rilassato dopo l'animata conversazione con Deiry, li aveva pietrificati e stupiti non poco.
«Non sei in giardino?», aveva chiesto Savannah con una nota di angoscia nella voce. Erano certi di averlo visto andare di là e di non averlo visti salire o entrare nell'ingresso... quante probabilità c'erano che li avesse anche origliati?
«Dovrei?», aveva domandato lui con garbo. «La mia stanza è su questo piano.»
Nehroi aveva schioccato la lingua sul palato e aveva salito uno scalino per far capire al futuro Capo che volevano andarsene e non rimanere lì in mezzo, ma Silar non si era mosso neanche di un millimetro, come se non lo avesse visto.
Il suo sguardo era su Savannah, come sempre.
«Che espressione cupa», aveva commentato.
«Quale?»
«La tua, sembra che stia progettando un assassinio.»
Savannah era rimasta interdetta e la sua bocca schiusa aveva incuriosito l'uomo.
«Oh», si era limitato a dire lui.
«No, ti sbagli!», si era precipitata la jiin in preda al panico. Aveva immediatamente iniziato a pescare nella sua mente agitata le parole adatte per dissuadere Silar dalla sua intuizione terribilmente corretta ma poi lo aveva visto scuotere la testa con fare quasi materno e decisamente tranquillo.
«La tua testa gira in modo molto interessante», le aveva detto serafico. Non c'era traccia dell'ostilità con cui l'aveva inondata in quei due giorni turbolenti. «Posso suggerire fuochi d'artificio e teatralità? Restano molto più impressi nella memoria e recapitano il messaggio con più efficienza, qualunque esso sia.»
I due fratelli avevano corrugato la fronte con molta perplessità, domandandosi entrambi e in contemporanea se avessero davvero udito bene.
«Ci stai...», aveva balbettato Savannah con vistosa incredulità. Non poteva essere vero.
Anche Nehroi aveva sentito la gola e la bocca farsi immediatamente più secche. «Ci vuoi aiutare?»
Silar aveva un sorriso a dir poco diabolico e sembrava dannatamente serio.

Un forte rumore metallico, squillante ma dal rimbombo sordo, le esplose nelle orecchie.
«Bella addormentata!», urlò qualcuno nelle vicinanze.
Savannah strizzò gli occhi e si portò le mani sulle tempie con un gemito. Ci mise un po' a mettere a fuoco le macchie di muffa sul soffitto e la lampada a neon che friggeva poco più in là, e ancor di più a mettersi seduta.
«Muoviti, non abbiamo tutto il giorno!», esclamò nuovamente quella voce fastidiosa, provocando ancora il suono che martellò nuovamente la testa della ragazza.
«Smettila!», sbraitò lei alzandosi di colpo e voltandosi verso quell'uomo odioso, sorprendendosi per un istante nel notare la sua divisa e le sbarre che la divideva da lui.
«Hey, carina, dormi come un ghiro da due giorni di fila! Non puoi aspettarti un trattamento da hotel di lusso, soprattutto una criminale del tuo calibro!»
Savannah lo mandò al diavolo e si premette nuovamente le dita sulle tempie. Due giorni, era passato molto tempo dall'ultima volta che ci aveva messo così tanto a riprendere le forze.
«Dov'è mio fratello?», domandò in un borbottio impastato.
Il poliziotto di guardia si grattò lo strato sottile di barba e sbuffò sonoramente. «Che palle che siete», si lamentò annoiato. Ficcò una mano in tasca e mosse le dita dell'altra per cercare la chiave giusta per aprire la cella. La fece sbattere un'ultima volta sulle sbarre, ottenendo un'altra occhiata furente da parte della jiin, poi la infilò nella serratura e la girò con uno scatto sordo. «Non sapete chiedere altro? E dov'è mia sorella, e dov'è mio fratello... siete così monotoni che c'è chi si chiede come abbiate potuto fare tanti reati... beh, io di sicuro.»
La afferrò per un braccio e la tirò su di peso. «Muoviti», le borbottò innervosito. «Non hai idea di quanta gente stia facendo la fila per sentire che hai da dire. Ah, solo una cosa: cerca di non dire baggianate come quell'idiota. Se provi a nominare anche tu terre dentro le montagne e cose magiche o maledizioni varie vi sbattiamo a vita in un manicomio.»

Savannah aveva soffiato dal naso, nervosamente, e aveva alzato una mano come per fermarlo. «È una trappola, vero? Un altro dei vostri giochetti da Capi? Non ci cascheremo, anzi ora ce ne andiamo e non è successo nulla... vero, Neh?»
La risata di Silar l'aveva bloccata ancora, inchiodandola un'altra volta su quello scalino che ormai iniziava ad avere la forma delle sue suole, e aveva scosso la testa con un gesto rassicurante.
Persino il suo sorriso si era addolcito, sebbene lo sguardo avesse ancora qualche tratto demoniaco. «Chiamiamolo uno scambio di favori. Voi fate un po' più di casino e io vi do' qualche suggerimento utile. Magari anche una mano.»
Nehroi aveva assottigliato lo sguardo come un leone pronto all'attacco. «Perché?», aveva domandato con voce bassa e vibrante.
Silar lo aveva guardato con superiorità. «Volete uscire vivi da qui o no?»

«Voglio fare la telefonata», disse ancor prima di sedersi.
Stalsky la guardò sorpreso e rimase con la bocca schiusa per qualche istante.
«La mia telefonata», insistette la jiin con sguardo fermo. Era la stessa sala interrogatori in cui l'avevano portata qualche settimana prima e la cosa la mise di cattivo umore in partenza.
«Ne ho diritto o sbaglio?», domandò sbrigativa.
«... ma certo», balbettò il detective dopo un po', voltandosi verso la vetrata a specchio e facendo un cenno con la testa.
Di fronte a Savannah poco dopo comparve un cellulare semplice, un modello decisamente fuori moda, con un piccolo display verdognolo. Stalsky uscì dalla sala interrogatori, indicandole il suo orologio da polso e comunicandole che aveva dieci minuti mentre chiudeva la porta; si spense anche la lampadina rossa della telecamera e Savannah sentì finalmente silenzio e tranquillità.
Alzò le mani verso il cellulare, facendo tintinnare le manette lucenti, e sfiorò con dita tremanti i grossi tasti di gomma appiccicaticcia. Non aveva mai memorizzato alcun numero telefonico in tutta la sua vita perché non aveva mai avuto nessuno da chiamare, ma in quel momento, dopo tutto quello che era successo, c'era una sola voce che voleva sentire.
Solo una voce, quella dell'unica persona a cui sentiva di dover chiedere scusa.
«Spero che non voglia ordinare una pizza a domicilio come il ragazzo... Ha composto il numero?», domandò Stalsky al collega del settore informatico avvicinandosi al suo schermo pieno di cifre e dati di ogni tipo.
Il ragazzo si sistemò meglio le enormi cuffie sulle orecchie, poi digitò qualche cosa sulla tastiera muovendo le dita ad una velocità incredibile e scosse la testa. «Ancora no, detective.»
Savannah afferrò il cellulare con due mani, saldamente, e chinò la testa fino ad appoggiarvisi sopra. «Phil», disse con un filo di voce all'apparecchio. «Trovalo, per favore.»
Il cellulare iniziò a suonare per segnalare la telefonata in corso. Suonava libero e Savannah sorrise un poco nella luce pallida del neon.
«Pronto?», domandò un uomo dall'altra parte della linea.
«Phil», salutò la jiin mentre uno strano calore le scaldava le guance. «Sono... sono io... ciao.»
L'umano dall'altra parte ridacchiò nervosamente. «“Ciao”?», ripeté ironico. «È il meglio che sai dire dopo il tuo uragano?»
Non era né gentile né paziente come suo solito, ma Savannah non si sarebbe aspettata niente di diverso. Nonostante ciò, sentì una spina colpirle il petto e farle male.
«Mi hanno arrestata... la polizia, ci hanno arrestati», disse lentamente. Non sapeva spiegarselo, ma il nuovo atteggiamento di Phil le stava facendo tornare la stanchezza che credeva di essersi tolta con tanto riposo.
«Lo so, Heim mi ha ordinato di fare la denuncia», commentò gelido lui. «Siete fortunati che non vi abbiano preso le guardie o sareste già sottoterra», aggiunse poi.
«Non ce l'avrebbero mai fatta», ridacchiò la jiin ricordando come li avevano superati, facendoli volare come foglie secche, e ignorando il fatto che in vent'anni di vita spericolata era stata arrestata solo due volte ma entrambe per colpa del consigliere.
Phil sembrò sospirare affranto. «Certo che no, sarebbe stata una caduta di stile dopo una così bella esibizione di forza... sono ancora tutti stupiti che siate riusciti a pianificare ed attuare tanto in una sola notte, voi due e basta.»
Savannah non fu tentata neanche per un attimo di rivelare che in realtà erano stati in tre a sistemare le guardie e a creare tutte quelle bombe, e che sarebbero finiti molto peggio se Silar avesse effettivamente attivato il suo incantesimo per fermarli. Erano ancora vivi e i patti vanno rispettati, a ognuno la sua parte di accordo.
«Dovevamo far penetrare un concetto», si limitò a dire, sentendosi improvvisamente stupida ed arrogante. Sapeva bene di avere esagerato, quella volta avevano combinato davvero un bel casino.
Sollevò meglio le mani, poggiando i gomiti sul tavolo freddo, e le manette tintinnarono ancora.
Phil ridacchiò ancora, più lugubre di prima. «Sarete soddisfatti, allora», disse con acida amarezza. «Il vostro concetto è... “penetrato” tanto da essere costato la vita di undici guardie, tre camerieri...»
«Non era previsto.»
Phil non la considerò. «Dell'anziano Prachis Kin», aggiunse con più fervore.
Savannah strinse le labbra ed abbassò lo sguardo. «Mi dispiace», mormorò. Era vero, sebbene avesse intuito che sarebbe stato lui la vittima della richiesta di Silar di creare tanta confusione.
«Come no», ribatté Phil con sprezzo. «E scommetto che ti dispiace anche per Deiry. O l'hai disprezzata tanto da non meritare neanche un falso cordoglio?»
La jiin trattenne per un istante il respiro, poi lo rilasciò. «Ha perso il bambino?», domandò con una nota di speranza. Non era sicura di averla colpita nel modo giusto prima di aver fatto crollare tutto il palazzo, era stata distratta dalla piega degli eventi e...
«Perso... il bambino?», ridacchiò sprezzante l'umano. «Ha perso la vita!»
Savannah si sentì pietrificata e respirò appena.
«È morta», mormorò a fatica non appena ebbe realizzato.
L'umano si passò una mano sul volto stanco e le sue spalle tremarono. «Congratulazioni», le disse freddamente.
I pensiero della jiin schizzarono subito verso il Capo di Haffireth e si sentì orribile. Non pensò al Goon in lacrime che la pregava di non fare del male alla sua bambina ma al Goon gentile e onesto che li aveva accolti il primo giorno e messi in guardia su cosa avrebbero scoperto da lì a poche ore, subendo gli stupidi capricci di una ragazzina con troppo potere in corpo e un caratteraccio indomabile.
Savannah si sentì orribile ed ebbe l'impressione che sarebbe svenuta di nuovo o che avrebbe vomitato, impossibile capire cosa stesse provando esattamente.
«E grazie anche per avermi rovinato completamente con Heim», aveva proseguito Phil senza aspettare che la ragazza si riprendesse. «Se l'avessi saputo prima...»
La jiin tirò un angolo della bocca in un sorriso spento e desiderò concludere la telefonata. «Non ci avresti mai portato a Tolakireth, uh?», disse invece. Non aveva ancora detto ciò che voleva.
«Decisamente, no.»
Savannah si stropicciò gli occhi, improvvisamente inumiditi, senza sapere che si fossero anche arrossati, come se un vento gelido e crudele stesse sferzando con forza sul suo viso. I polsi iniziavano a farle male per la strana posizione, parzialmente afflosciata sul tavolo, e anche i gomiti. Sentiva la testa pesante e frammenti di ricordi di ciò che era successo poco prima, tralasciando il riposo in cella, si susseguivano nella sua mente come schegge di vetro affilatissime in un vortice devastante.

«Credevate davvero di poter dire che Mayson sarebbe stato fuori dai vostri giochi minacciandolo di morte per una traduzione?»
Savannah aveva sollevato entrambe le sopracciglia, stupita. «Sapevi che ti stavamo origliando?», aveva domandato a voce mozza. Si era sentita come se Silar avesse preso la sua autostima a schiaffi.
«Per che razza di babbeo mi hai preso? Non offenderti, ma ho più esperienza di te in spionaggi e cose del genere», le aveva risposto l'uomo di Kyureth con uno sbuffo divertito e vagamente irritato. «Ad ogni modo vi conviene far capire a tutti che l'umano non è in combutta con voi, dato che è il primo a cui chiederanno spiegazioni ed informazioni non appena sarà tutto finito. Ha passato troppo tempo con voi per non sembrare sospetto e... beh, è solo un umano, non durerà neanche un minuto.»
Savannah aveva fatto spallucce, per sminuire la sua preoccupazione, ma la sua espressione si era fatta pensierosa. «Cosa possiamo fare? Dirlo esplicitamente sarà come ammettere il contrario.»
Nehroi aveva scacciato l'argomento con un cenno della mano, come se stesse scacciando una mosca o una zanzara. «Per questo basterà un po' di improvvisazione», aveva suggerito. «Direi che la sostanza del piano ruota attorno a Deiry e non a Mayson.»

«Volevo solo aiutarti, costringerlo a toglierti il controllo e lib...»
Sentì uno strano rumore dall'altra parte della cornetta, di qualcosa che viene sbattuto con forza, forse una porta o una finestra. Savannah si sistemò meglio il cellulare accanto all'orecchio e le manette tintinnarono ancora. Quanti minuti erano passati? Quanto tempo aveva ancora prima che Stalsky comparisse da quella brutta porta e chiudesse la chiamata?
Alzò lo sguardo con timore, come se parte di sé si aspettasse di vederlo già lì, in attesa, e si sentì lievemente sollevata nel non vedere nessuno.
«Non dire “liberarmi”», disse Phil con voce dura e sprezzante, distraendola da quei pensieri. «Non farlo. Ti avevo solamente chiesto di lasciarmi fuori dai vostri piani e invece mi hai rovinato!»
Il respiro di Savannah accelerò e le scappò un singhiozzo, stupendosene tanto da impaurirsi. «Io volevo solo...»
«Non avevi alcun diritto né dovere di... di aiutarmi o qualunque cosa volessi fare! Non te l'ho mai chiesto e non ti perdonerò mai per quest'iniziativa!»
Pessima improvvisazione, davvero pessima, e se lo era detta già nel momento esatto in cui l'aveva pronunciata su quel dannato palco.
La jiin sentì il naso pizzicare e le palpebre appesantirsi. Le sue dita tremavano e sapeva bene cosa stava per succedere, la ragazza riflessa di fronte a lei sembrava in procinto di una sola cosa.
«Phil...», pigolò con voce roca.
Passò qualche istante, qualche straziante ed inquietante istante in cui Savannah temette che l'umano avesse messo giù, prima di sentire di nuovo la sua voce.
«Perché mi hai chiamato?», domandò con stanchezza, con una voce tanto smorta da non sembrare sua.
La jiin soffocò un altro singhiozzo e si sentì incredibilmente stupida. Era tutto andato storto, tutto, tanto che sembrava non avessero avuto neanche un piano da seguire.
Non avrebbe dovuto uccidere Deiry, solo impartirle una lezione; non avrebbe voluto causare la morte del Capo Kin, le stava simpatico, ma era il prezzo da pagare a Silar per il suo aiuto; non avrebbe dovuto smascherare Phil, solo aiutarlo a ribellarsi a chi lo controllava, e nessuna guardia o cameriere avrebbe dovuto perdere la vita, non capiva perché le bombe avessero colpito anche l'ala in cui li aveva rinchiusi per sicurezza... e tutto solo per impedire a Nehroi di giurare per sempre fedeltà al corpo di guardia e per rimediare a quella stupida gravidanza.
E pensare che erano andati a Tolakireth solo per curiosità...

Quante bombe fare a testa, chi avrebbe costruito il palco, chi si sarebbe occupato degli intralci del personale, chi avrebbe sistemato le Stelle e tutto il resto: avevano passato poco più di un'ora in uno stato febbrile ed eccitato, pianificando ogni cosa e dettaglio alla perfezione.
Si stavano separando per iniziare il lavoro quando Savannah aveva sentito un'orribile sensazione attanagliarle lo stomaco. Aveva alzato lo sguardo su Nehroi, corrucciato quanto lei ma più convinto, già sulle scale, e su Silar, più esaltato che preoccupato.
«Hai visto?», le aveva detto avvicinandosi con un'espressione rassicurante sul viso. «Te l'avevo detto: tu ed io siamo uguali e questo lo conferma. È il potere, la magia che ci scorre nelle vene...»
Le si era avvicinato sempre di più, fino a fermarsi a pochi centimetri dal suo viso serio.
«Adesso vedrai poco meno di un assaggio di ciò che potremmo fare assieme.»
Savannah aveva sbuffato e spostato lo sguardo di lato, cercando di mostrarsi annoiata, ma parte di sé le aveva impedito di recitare al meglio e Silar lo aveva notato. Si era allungato verso di lei per cercare di baciarla e lei aveva tirato la testa indietro con uno scatto mentre i suoi occhi si infiammavano indispettiti. Aveva aperto la bocca per dirgliene quattro, ma Silar l'aveva fermata alzando una mano con solennità, ricordando Heim e la sua diplomazia nel calmare le acque.
«Un giorno capirai», aveva solamente detto. Poi si era voltato ed era andato con tranquillità verso la cucina, come se le avesse detto che il giorno dopo ci sarebbe stato il sole.
Savannah aveva sentito qualcosa di viscido scenderle nello stomaco e raggelarla. Aveva pensato a Toco, ringraziando gli spiriti che Silar fosse abbastanza paziente da offrirle aiuto ad un prezzo molto più irrisorio, o molto posticipato... ma anche consolandosi così, non si era sentita meglio.

«Volevo... volevo chiederti scusa», disse con voce spezzata da un altro singhiozzo.
Phil ridacchiò lugubre. «No, tu volevi solo chiedermi di tirarvi fuori di prigione come l'altra volta.»
Savannah appoggiò il cellulare sul tavolo e si asciugò gli occhi con i palmi delle mani, pulendoseli poi sui pantaloni. Riprese in mano il telefono, ma era di nuovo piena di lacrime. «Ti sbagli, volevo davvero chiederti scusa! Mi dispiace, Phil! Non lo meritavi e hai ragione tu, non avevo il diritto di...»
«Annah.»
Savannah se lo immaginò scuotere la testa desolato e stringere le labbra, in cerca delle parole giuste e calcolate da dire in quel momento. La sua piccola arma, l'arma di un consigliere umano in un mondo di jiin. Sorrise immaginandoselo così, come lo ricordava prima di quel disastro e degli occhi bassi e delle parole crudeli, mentre un paio di lacrime le inumidivano le labbra e le entravano salate in bocca.
«Non cercarmi mai più.»

«Che ti ha detto?», aveva domandato il fratello non appena Silar era scomparso dalla vista e dalle orecchie.
Savannah aveva alzato lo sguardo su Nehroi e gli aveva fatto capire con una sola occhiata quanto si sentisse a pezzi, e orribile.
«Te l'avevo detto. Il tuo piano fa davvero schifo.»

Stalsky entrò nel momento esatto in cui la ragazza lanciò il cellulare contro il muro e cacciò un urlo disperato che si sentì in tutto il distretto e anche negli edifici accanto. I pezzi di plastica e i circuiti scricchiolarono sotto le suole del poliziotto mentre si avvicinava ad una Savannah completamente afflosciata sul tavolo che singhiozzava senza controllo. Allungò una mano verso di lei, incerto se consolarla o intimarle di smetterla, ma non riuscì a fare nulla, pietrificato da un tale crollo.
La ragazza continuò a piangere come una bambina, fino a far comparire delle lacrime da sotto le sue braccia che bagnavano il tavolo come se vi ci fosse stato rovesciato sopra un bicchiere d'acqua, e il detective uscì in silenzio, abituato a quelle stesse scenate che vedeva già in casa con la figlia adolescente. Preferì lasciarla sfogare che cercare di calmarla e ricevere la stessa furia usata contro lo sfortunato telefonino...




*-*-*-*





Oh, che lacrimoni che vedo già all'orizzonte... ebbene sì, li vedo anche perché erano venuti pure a me quando ho scritto la scena, e anche adesso che l'ho riletta et aggiustata... Savannah che piange a dirotto? Cosa rara. Però effettivamente le sono scivolati tutto e tutti di mano u_u
Ah-ehm, ship angst in vista... ^^" Mentre scrivevo ho ascoltato a ripetizione Never say Never, canzone struggente dal titolo speranzoso ma che mi ha influenzata più per il continuo "don't let me goooo" che immaginavo durante la parte finale del capitolo e che ho cercato di far permeare nella telefonata :'(

La cosa più brutta è che devo fare la brava autrice e non posso spoilerare dicendo "e questa è finita" o "sì ma in realtà poi" xD
Non voletemene! *prende scudo*

Grazie infinite, come sempre ma ancora di più, alle mie donzelle che leggono e lasciano un pensierino! <3 E sì, anche a coloro che continuano a mettere la storia tra i preferiti/seguiti/ricordati! Grazie anche a voi per avermi dedicato un millesimo del vostro tempo selezionando la fic, dev'essere che vi ha ispirato non abbastanza da scrivermelo ma almeno da appuntarvela ^^"

Alla prossima, altro capitolo interessante ma meno pesante, promesso!
Ciao!

Shark
   
 
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