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Autore: Nagem    16/05/2013    3 recensioni
Rockfield Studios, Maggio 1995.
E se dopo il famoso litigio tra i due fratelli durante la lavorazione di "(What's the story) Morning Glory?" Liam - e non Noel per una volta - avesse deciso di mollare tutto? Che ne sarebbe stato di lui? E di Noel? Gli Oasis avrebbero avuto lo stesso successo?
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Liam Gallagher, Noel Gallagher
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 16.

Londra, seconda metà del 1998

Svegliandosi dal suo irrequieto dormiveglia da insonne imbottito di psicofarmaci alle quattro del mattino – troppo tardi per prendere un’altra pillola – Noel vide davanti a sè, a mò di gigantesche, incombenti, pietre tombali, una fila di ricorrenze che a lui sembrarono intollerabili. Tre mesi dall’ultima tirata di coca. Tre mesi dal primo attacco di panico. Due mesi dal primo tranquillante. Un anno e tre mesi dal matrimonio con Meg. Tre anni e quattro mesi da quando Liam se n’era andato. Quattro anni e cinque mesi da quello speranzoso … beh, abbastanza speranzoso, sfolgorante Aprile, quando tutto era iniziato con la pubblicazione di Supersonic. E come se non bastasse, c’erano poi tutti gli impegni che lo attendevano: finire di ultimare i dettagli della raccolta The Masterplan con le mille decisioni da prendere, ricominciare con i vari impegni promozionali (di nuovo, il tour è finito solo sei mesi fa, cazzo), le interviste sempre tutte uguali … Noel si sentì già intollerabilmente stanco, senza forze.

“Se riuscissi a smettere anche di fumare, se solo riuscissi semplicemente, ragionevolmente, a troncare” pensò di lì a qualche ora, bevendo il primo thè della giornata e fumando la terza sigaretta (la quarta magari, contando quella fumata a letto verso le cinque) … se solo fosse riuscito a smettere di fumare, sicuramente la sua capacità polmonare che sembrava ridursi a quella di un annegato durante gli attacchi di panico, sarebbe migliorata. Cercò di ricordarsi gli impegni della giornata, gli sembrava di doversi incontrare con qualcuno a pranzo, probabilmente doveva trattarsi di un pranzo di lavoro e decisioni da prendere (lavoro e decisioni, lavoro e decisioni, quand’è che tutto ha smesso di essere divertente?) . Gli ansiolitici che il suo medico gli aveva prescritto per tenere a bada gli attacchi lo facevano sentire immerso in una nebbia che non si diradava mai. Gli sembrava che tutto fosse ovattato e che perfino i suoi pensieri fossero più lenti. Odiava quella sensazione, lo rendeva insicuro. Odiava starsene rintanato in una casa che non era quella in cui abitava di solito solo perché aveva sposato una stronza che non approvava la sua decisione di smettere con ogni tipo di droga, decisione presa dopo un mezzo infarto a cui peraltro lei, la stronza, aveva assistito. Cosa voleva? Che la volta successiva l’infarto gli venisse tutto intero? A Noel non sembrava un’ipotesi da scartare del tutto, per quanto inquietante potesse essere. Qual è la persona che manda degli spacciatori a casa di uno che sta cercando di smettere con quella merda? Non certo una moglie amorevole. Ma che cazzo avevo in mente quella sera? Fottuta segatura? Perchè l’ho sposata? Perché? Oh, certo, non era tutta questa gran tragedia dato che il divorzio esisteva da decenni, ma a Noel sembrava un’altra delle incombenze che gli affliggevano la vita.

Girellò per le stanze senza sapere bene che fare. Mise su un cd, poi lo cambiò, poi spense lo stereo e accese la televisione. Non riusciva più a seguire niente, gli era impossibile proprio concentrarsi. Ma la cosa più spaventosa di tutte era che non riusciva a comporre. Come se il talento si fosse improvvisamente volatilizzato. Niente più droga, niente più talento,  puf! Scomparsi insieme. Era vero che non aveva mai composto niente senza essere più o meno fatto ma Noel non riusciva a credere alla realtà di quella equazione. Semplicemente la sua mente si rifiutava di prendere in considerazione quell’orrenda ipotesi.

La sua musica trascendeva da qualsiasi tipo di sostanza chimica, Noel ne era certo. Ma allora perché non riusciva a tirare fuori niente di niente, il nulla più assoluto, quando era abituato a canzoni che quasi si componevano da sole? Fino a qualche tempo prima, tutto quello che lo circondava per lui si traduceva in musica. Una parola, un gesto, un’immagine … qualsiasi cosa, qualsiasi cosa, che per qualche motivo lo colpiva si frantumava in note che poi lui rimetteva insieme dando alla luce melodie infinite. Tutto era musica per lui. Per questo, per quanto stesse immobile, non stava mai fermo del tutto. Le mani in perenne movimento, la testa che si girava di scatto, gli occhi che guardavano in ogni direzione come se fossero alla ricerca di qualcosa: era come se ogni più piccola parte del suo corpo vibrasse per richiamare l’attenzione di note che vagavano nello spazio infinito, invisibili a tutti tranne che a lui. Noel non lo considerava solo un dono, ma anche un rifugio, un luogo incantato nel quale niente e nessuno poteva fargli del male. E in quel momento sembrava tutto finito. Era per quello che il panico lo attanagliava? Perché il suo dono-rifugio era scomparso? O era il contrario? Non riusciva più a sentire l’ispirazione che lo chiamava impaziente di farsi tradurre in musica perché il panico gli tappava le orecchie? Noel se lo chiedeva continuamente ma la sua testa non collaborava. Il suo cervello era come in panne.

Continuò a muoversi per tutto il giorno come se fosse in trance, fece qualche telefonata, lesse qualche riga di una rivista trovata per caso, uscì per fare un po’ di shopping (Chitarre e scarpe, roba di classe, mica vestiti come faceva sempre quella fighetta viziata di Liam) ma dovette tornare a casa di corsa perché ad un certo punto cominciò a venire giù il diluvio universale. Con una tazza di thè in mano Noel si rifugiò il più lontano possibile dalla signora delle pulizie (Ma come cazzo si chiama? Signora Pitter? Potter?). Qualsiasi faccenda stesse sbrigando, la signora faceva un chiasso infernale, Noel poteva sentire l’ululato dell’aspirapolvere, dei grandi scrosci d’acqua, perfino i gemiti di protesta dei mobili mentre venivano lucidati con l’apposita cera. Finalmente, verso le sei del pomeriggio, la signora se ne andò e allora la casa tornò di nuovo tranquilla e silenziosa. Così silenziosa che a Noel vennero i brividi. Sollevò velocemente la cornetta del telefono ma si accorse che la linea era muta, evenienza tutt’altro che insolita da quelle parti con quel tempaccio. Si attaccò allora al cellulare ma anche lì non c’era campo. A Noel sembrò una coincidenza sinistra. La casa buia, silenziosa, e lui isolato da tutti. No, cazzo, non di nuovo. Corse all’interruttore e accese la luce. Così va già meglio. Gli venne in mente di farsi un bagno caldo. Dovrebbe rilassarmi no? Aprì la porta di un bagno, quello più grande, con la vasca tonda incassata nel pavimento che gli ricordava quella di casa sua, la riempì di acqua calda, accese l’idromassaggio e si immerse lentamente, assaporando la dolce sensazione di tutto quel calore sul suo corpo. Gli sembrò che i nervi si distendessero realmente e sperò di far durare quel bagno almeno un’oretta, in modo da occupare … da ammazzare un’ora di quella serata.

Dopo un tempo che Noel non sarebbe stato capace di quantificare, gli sembrò di sentire degli scricchiolii. Immerso nell’acqua che era andata via via raffreddandosi, si disse che era normale sentire rumori in una casa vuota durante un temporale. Tentò di convincersi mentre sentì quello che poteva essere (ma senza dubbio non è) il rumore lontano del portone di casa che si apriva e poi si chiudeva. Fece scrosciare altra acqua calda e poi si adagiò nuovamente chiudendo gli occhi. Ma. O sono impazzito completamente, cosa probabilissima, o questi sono passi su per le scale si disse riaprendo gli occhi e mettendosi seduto. Era intorpidito dalla lunga immersione nell’acqua calda e nel vapore e così, cercando di tranquillizzare la sua mente che era già partita al galoppo, si prese in giro da solo, dicendo a voce alta: ”Beh, meglio così. Qualcuno è entrato in casa per rapinarmi ed assassinarmi. Fanculo a tutti. Rimarrò giovane per sempre!”. Ma il suo tentativo di sdrammatizzare fallì miseramente e prima di essere assalito dall’immagine di se stesso in versione cadavere si alzò mettendosi frettolosamente l’accappatoio e, compiendo quello che gli sembrò il più  enorme sforzo della sua vita, uscì dal bagno e fece il giro della casa. Nessuno. Ovviamente non c’era nessuno. Nessuno era mai entrato, nessuno aveva mai salito le scale.  In condizioni normali si sarebbe probabilmente fatto una risata (e una striscia) ma ormai, a sera inoltrata e in quello stato, ridere era l’ultima cosa che gli poteva venire in mente di fare.

Tornò in camera da letto per vestirsi. Aveva l’impressione che quei movimenti resi automatici dall’abitudine (aprire il cassetto-prendere la biancheria-infilarla-chiudere il cassetto-aprire l’armadio-prendere una maglietta e un paio di pantaloni-infilarli-chiudere l’armadio) fossero gli unici che fosse realmente in grado di compiere e cercò di concentrarsi su di essi. Cercò di concentrarcisi anche perché non voleva, non di nuovo, non in quel momento, rispondere al Suo richiamo. Lo chiamava, eccome se lo chiamava. Poteva sentirla chiaramente Noel, nella sua mente infestata ormai da mostri e demoni. La sentiva sussurare, gemere e poi quasi urlare. Le diede un’occhiata, così, di traverso, di sfuggita. E solo perché non riusciva ad ignorarla del tutto. Stava lì, come sempre ad aspettarlo. E lui avrebbe voluto, oh se avrebbe voluto, prenderla lì sul letto dove l’aveva lasciata quasi fosse un’amante e compiere altri gesti, anche quelli automatici ma infinitamente più dolci e poetici che infilarsi un paio di mutande. Ma era terrorizzato da quello che sapeva sarebbe successo. L’avrebbe accarezzata facendola vibrare ma dentro di sé non ci sarebbe stata nessuna vibrazione in risposta, dentro sarebbe stato tutto muto e silenzioso come la sua casa che non era proprio la sua in cui nessuno era entrato facendo scricchiolare i gradini, dentro sarebbe stato tutto morto come lui per un momento, un momento solo, aveva sperato che quel qualcuno che mai era entrato lo rendesse. Tutto muto, silenzioso e morto. Nessuna nuova creatura fatta di note e accordi e melodia sarebbe nata dall’incontro fra lui e la sua chitarra. Niente più luce, niente più calore.

Seduto sul pavimento, la schiena poggiata contro la parete, respirava convulsamente, cercando di far entrare più aria possibile nella gola che si era ridotta a una fessura. Sentiva il cuore battere all’impazzata con pulsazioni pesanti che a ogni battito sembravano sfondargli il petto. Era ricoperto da un sudore freddo che stillando goccia dopo goccia lungo la fronte e la schiena lo faceva rabbrividire e l’alternanza di quel freddo intenso e di vampate di calore lo stremava. Le mani e i piedi erano pezzi di ghiaccio ma, formicolando, gli bruciavano. Tremava e gli esercizi di respirazione e di visualizzazione che il suo medico gli aveva insegnato sembrava non dessero sollievo alcuno. La testa era pesante, aveva proprio la sensazione che il collo non riuscisse a tenerla sollevata, ma allo stesso tempo gli sembrava vuota, una sorta di buco nero che ingoiava tutto, la speranza, la gioia, l’amore, tutto quanto. Si sforzava di continuare a pensare, di ragionare, ma i pensieri gli si spezzavano a metà senza dargli pace. “Dura poco, ancora pochi minuti e poi sarà passato … sono pazzo, è per questo che succede, sono pazzo e mi dovranno ricoverare … devo respirare e pensare a qualcosa di bello … sto morendo … il cuore, il cuore non regge, questa volta non ne esco …” .

Ma il cuore resse come tutte le altre volte e mentre con una lentezza esasperante il suo corpo e la sua mente tornavano a uno stato di normalità, Noel si ritrovò spossato, sudato, con un bisogno disperato di dormire e con l’assoluta certezza che non ci sarebbe riuscito.

Manchester, Gennaio 1999

Aveva deciso di passare qualche giorno con sua madre, a Manchester. Generalmente era Peggy a spostarsi a Londra dato che per lui era difficile prendere un treno nel totale anonimato a cui avrebbe aspirato, ma quella volta sentiva il bisogno di rifugiarsi a casa sua, fra quelle pareti così familiari e sicure. A Peggy era sembrato un po’ strano dato che avevano appena passato un bel po’ di tempo insieme durante le festività e si era stupita non poco del fatto che si presentasse da solo e senza fare neanche cenno a Meg, ma non aveva ovviamente fatto domande. Dopotutto le mancava avere suo figlio a casa, le mancava avere a casa tutti e tre i suoi figli a dire il vero. Gli anni erano passati via velocemente e quei bambini erano diventati uomini in un tempo che a lei era parso infinitamente veloce. “Bisognerebbe farli da vecchi i figli, quando si è in pensione, in modo da potersene curare di più, in modo da godersi ogni loro momento”, pensava Peggy.

Le mancava avere un contatto diretto con Liam, le sarebbe piaciuto risentire la sua voce e avrebbe dato qualsiasi cosa per stringerlo in un abbraccio e guardarlo negli occhi. “Oh Santo Cielo Peggy, pensi a lui come se fosse morto. E’ vivo e vegeto, per carità!” rabbrividì mentre affettava le cipolle sul tagliere di legno “Bada a non tagliarti un dito piuttosto”. Doveva dargli tempo, solo quello. Aveva fatto bene ad affidarsi all’agenzia del caro signor Richardson, adesso sapeva esattamente dove si era trasferito, sapeva che lavorava, che viveva in un posto decente e che soprattutto stava bene. Non riusciva neanche a ripensare a quel periodo orrendo senza lettere. Settimane e settimane di silenzio assoluto, assordante, che erano state precedute da mesi di scialbi “Sto bene” a cui lei non aveva creduto neanche per un secondo. Aveva davvero dovuto fare appello a tutta la sua forza di volontà e alla Fede che non l’aveva mai abbandonata – e che tanto faceva arrabbiare i suoi figli – per non lasciarsi andare, per credere ostinatamente che non gli fosse successo niente e se anche qualcosa fosse accaduto realmente, si sarebbe comunque sistemato.

Aveva tentennato nel suo fermo proposito di aspettare che fosse lui a tornare, come le aveva espressamente chiesto, solo quando il signor Richardson le aveva messo in mano il suo indirizzo, e mentre Noel continuava a chiederle quando avrebbe voluto partire per Dalmeny, lei aveva pensato, solo per un secondo: ”Parto il prima possibile e vado a riprendermi il mio bambino”. Ma era stata proprio quella definizione, che le era salita alla mente in maniera del tutto spontanea, a farla desistere. Per la prima volta si era resa conto che il suo bambino non era più tale. E da un bel pezzo ormai. Il suo bambino si era costruito una vita assolutamente indipendente, era stato capace di lasciare tutto quello che conosceva e di abbandonare tutto quello che aveva sempre sognato per un salto nel buio. Naturalmente Peggy sapeva perfettamente che la sua era stata una scelta impulsiva, assolutamente non ponderata, ma alla prima difficoltà avrebbe potuto tornarsene a casa e invece aveva stretto i denti ed era andato avanti con quella testardaggine che Peggy riconosceva come propria. A che prezzo lei non avrebbe saputo dirlo, ma l’importanza del non aver ceduto, neanche quando avrebbe avuto tutte le ragioni per cercare la sua presenza come quando era stato ricoverato, le pareva lampante. Sapeva di averlo viziato, ma era stato un bambino e poi un ragazzino così terribilmente vivace, così difficile da seguire, che lei, costantemente indaffarata e stanca e piena di sensi di colpa, aveva optato per una dolcezza e una comprensione forse eccessive pur di compensare il poco tempo che aveva da dedicargli.

“Mamma, è tutto a posto?” le chiese Noel dopo aver notato gli occhi rossi di Peggy. “Oh tesoro, non ti avevo sentire scendere le scale. Sì, sì, è tutto a posto. Sono solo queste stupide cipolle”. Noel le lanciò un’occhiata dubbiosa, ma non aggiunse altro. Si sedette al tavolo della cucina e aprì il giornale alla pagina dello sport. “Ti ho sentito suonare prima”, lo sollecitò dolcemente Peggy, senza guardarlo, versando l’olio nella pentola. Neanche Noel alzò gli occhi e continuando a leggere rispose quasi con noncuranza: ”Sì, sto componendo qualcosa … ho un paio di canzoni quasi pronte”. Peggy lasciò cadere la cipolla appena affettata nell’olio bollente, che prese a sfrigolare. “Stai meglio”. Non era una domanda e non era un’affermazione. Lasciò la frase in sospeso, così che Noel potesse decidere liberamente se parlarne o meno. In apparenza freddo, cinico e sicuro di sé, Noel nascondeva un’anima delicata e fragile, tormentata e piena di dubbi, che con un niente si feriva e con un niente si chiudeva. E doveva ringraziare quell’abominio del padre per quel regalo, Peggy lo sapeva bene. “Non lo so come sto. Penso meglio, sì … ma non so … queste nuove sono canzoni strane, diverse da qualsiasi cosa abbia mai scritto finora. Un po’ tristi … anzi, veramente  sono proprio tetre” ridacchiò, sempre con quel tono leggero, quasi fosse lui a decidere se stesse male o no. Faceva parte della sua armatura, fingere di aprirsi in modo da accontentare gli altri senza però scoprirsi veramente. Continuando a cucinare Peggy gli rispose: “Sei più forte di quello che pensi, Noel”. Noel alzò la testa a guardare la madre, incredulo e quasi intimidito. Per una volta, non se la sentiva di darle ragione: una persona davvero forte non si deve attaccare agli ansiolitici anche solo per andare a pisciare, non viene travolta dal panico senza nessun motivo, non resta con la moglie solo per abitudine e perché è mentalmente troppo stanco per prendere qualsiasi tipo di iniziativa. Ma Peggy continuò: ”Hai le crepe, le cicatrici e le ferite aperte di chi la propria forza è stato costretto dagli eventi esterni ad usarla, ma ciò non toglie che sia tua, nessuno te l’ha data e non era scontato che tu l’avessi. Essere forti non significa solo aggredire la vita come leoni, esiste anche la forza piccola, quotidiana, quella che consente di andare avanti un pezzettino per volta, quella che ti fa essere abbastanza coraggioso da chiedere aiuto quando necessario”.

Un pezzettino per volta. Noel fu incantato da quella frase. Non avrebbe saputo dire il perché, ma quelle quattro paroline gli scivolarono dentro e lo fecero sentire al riparo. Un pezzettino per volta. Sì, poteva farcela ad affrontare tutto. Non tutto insieme, ma poteva provare ad aggiustare una piccola parte della sua vita per volta. Il suo viso dai tratti duri, marcati, restò impassibile, ma si alzò, cinse la madre con un braccio e la baciò sulla guancia. Peggy lo guardò sorridendo e chiedendosi silenziosamente: “Com’è possibile che fisicamente sia così simile a suo padre quando dentro è l’esatto opposto?”.

Londra, Maggio 1999

Mi ama per come sono, pacchetto completo. Senza volermi cambiare. E non c’è aspetto di me che non conosca, non c’è sfumatura di me che non accetti. Lei sa che fottuto incubo possa diventare quando mi lascio andare, ma lo stesso ha voluto condividere la sua vita con la mia. E sapere che mi accetta anche se sono nero per me è tutto. Sa talmente tante cose di me che se volesse potrebbe farmi tutto il male del mondo, ma quando la guardo mi sento infinitamente tranquillo perché so che non lo farebbe mai”.

Le rare volte che Noel era a casa a Manchester, Peggy aveva cura di lasciare le ultime lettere di Liam in bella mostra su un tavolo del suo saloncino. Lei e Noel avevano un tacito accordo: lei le lasciava lì, lui le leggeva, nessuno dei due ne parlava. E Noel aveva letto e  riletto talmente tante volte quelle poche righe in cui il fratello parlava del rapporto con quella ragazza di Dalmeny da impararle a memoria. Prima di tutto perché  era rimasto sbalordito dal fatto che Liam avesse la capacità di scrivere qualcosa di più profondo di “La mattina mi alzo, la sera vado a letto”. E poi perché l’avevano fatto riflettere. Lui e Meg non avevano niente di simile. Non l’avevano mai avuto, neanche agli inizi. Lui l’aveva amata, questo sì, ed era quasi certo che anche lei doveva averlo amato, ma … non erano mai arrivati a quella conoscenza e fiducia profonda che Liam descriveva.

Guardando sovrappensiero giusto Meg che usciva in tutta fretta da casa, il viso pallidissimo, i capelli spettinati e, incredibile!, senza trucco, Noel pensava onestamente che buona parte della responsabilità in quel senso toccava a lui. Non riusciva quasi mai a lasciarsi andare, le barriere protettive che aveva alzato intorno alla sua anima lo difendevano dalle aggressioni esterne ma lo tenevano anche prigioniero. Si sorprese a desiderare quella libertà che non si era mai permesso: essere libero di aprirsi, di concedersi, di farsi conoscere per quello che era realmente, in barba alla paura di essere ferito, umiliato, deriso per i suoi sentimenti. Ma quella magia non poteva essere compiuta da lui soltanto, doveva trovare la persona giusta. E quella persona non poteva essere Meg. Forse avrebbe potuto esserlo se lui fosse giunto a quelle conclusioni prima, ma ormai gli anni erano passati, loro erano cambiati e il tempo che avevano avuto era scaduto. Lui si era ripulito, lei continuava con il suo stile di vita sopra le righe, non condividevano più niente. Quando non era da qualche parte del mondo in tour, passavano giornate intere senza vedersi, lui chiuso nella sua stanza o in studio a lavorare, lei in giro a spendere i suoi soldi o in stato comatoso per la notte passata a far baldoria. Guardandola rincasare con una bustina della farmacia in mano e precipitarsi su per le scale Noel capì che erano davvero giunti al capolinea: dovevano divorziare, alternative non ce n’erano. Non aveva proprio più senso stare insieme. Dopo mesi passati a scappare da quella decisione che era sempre troppo stanco per prendere, Noel decise di agire subito.

Fece per salire il primo gradino quando la sentì urlare:”Noel! Corri, vieni su! Noel! Noel!”. Ma non gli diede neanche il tempo di salire e gli franò addosso continuando a urlare e agitandogli davanti al naso un bastoncino di plastica. “Guarda, guarda qui! Due linee, ce ne sono due! Oddio Noel, oddioooooo!”, “Ma che cazzo è? Due linee di cosa?”, “Ma sei ritardato o cosa? Non lo vedi? E’ un test di gravidanza scemo! Sono incinta!”.
Noel sentì il cuore farsi piccolo piccolo e poi cadergli nel petto. “Non prendevi la pillola?”, “Beh sì, ma con tutto quello che vomito quando sono ubriaca mi stupisce che non abbia fatto cilecca prima. Ma adesso cambio vita, niente alcool, niente droga, niente di niente, come te. Sei contento amore?”. Come faceva a lasciarla adesso che c’era un bambino in arrivo? “Sì Meg. Sono contento”.
 


Alzi la mano chi pensa che il Liam che scrive in quel modo non sia OOC.
*Deserto*
Lo so, lo so, ma voi non sapete che fatica immane sia fargli scrivere ‘ste benedette letterine (ndr: vedi 3° capitolo). Ma è l’ultima, giurin giurella.

Ma quante scale faccio fare, tra salire e scendere, a questi poveracci??? Uahahahaha!

Noel ebbe davvero un mezzo infarto, al seguito del quale decise di smettere con tutte le droghe. Iniziò a soffrire di attacchi di panico e del cosiddetto blocco dello scrittore (del compositore, nel suo caso, ah ah ah) e dovette aiutarsi con degli ansiolitici (regolarmente prescritti dal suo medico). Si trasferì in un’altra casa perché tutti quelli che conosceva si drogavano (ammappete che belle compagnie frequentavi Natalino!) e pare che la sempre simpaticissima Meg gli inviò gli spacciatori più di una volta.

Preparatevi al prossimo capitolo: è quello che non vedo l’ora di scrivere da quando ho iniziato a rompervi i maroni con questa fic!
  
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