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Autore: Sueisfine    05/12/2007    1 recensioni
Questa storia è nata per caso, spinta soprattutto dalla mia grandissima ed insaziabile passione per il gruppo musicale The Cure. Mi sono permessa di prendere spunto dalla storia del gruppo, accumulata attraverso interviste, libri, biografie autorizzate etc., negli anni che vanno dal 1981 in poi, per narrare un po' gli avvenimenti dal punto di vista di Robert Smith, leader del gruppo, e Simon Gallup, bassista.
Diverse situazioni sono frutto della mia ( bacata ) immaginazione, però ho cercato e cerco, nei limiti, di dare una certa contestualizzazione al tutto.
DISCLAIMER : Con questo mio racconto, ovviamente scritto e pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo né diffamare né fornire una rappresentazione veritiera dei fatti accaduti, ma semplicemente rivedere il tutto secondo una mia particolare ( condivisibile o meno ) prospettiva.
Buona lettura ;_;
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Chapter Eighteen

~ The Holy Hour

Al buio le cose assumono un diverso colore. Guardarle mutare è divertente.
Il buio ti nasconde. Il buio ti protegge. Puoi ridere, piangere, amare, danzare.
Il buio non ti chiederà mai perché.
Ogni cosa sembra infinita, nel buio. Senti che potrebbe durare per sempre.
Il buio ti scava dentro, ti spinge a toglierti le maschere del mattino. Scivola via te stesso, nel buio.
Ed è per questo che io, il buio, lo vivo. Non mi lascio afferrare, non permetto che mi possieda, non mi faccio vivere. Sono io che vivo lui. Ogni notte è una battaglia. Io e le ombre combattiamo fino all’alba.
Ma non c’è storia. Sono sempre io il più forte.

Accasciato sul sedile del guidatore, con la testa appoggiata al freddo vetro del finestrino, riflettevo. Annacquato dalla birra, riflettevo. Per quanto possibile. Attraverso le macchioline lasciate dalla pioggia fissavo il cielo, muto.
Non so quante miglia avessi fatto. Avevo accostato la macchina nei pressi del fiume, nascosto da un boschetto, nella ridente e pittoresca Guildford.
Guildford è sempre stata una cittadina tranquilla, senza troppe pretese. Mi rilassava aggirarmi da queste parti, era un po’ come ritornare a casa senza però ritornarci mai veramente. L’innegabile voglia di essere di nuovo bambino si fece sentire. Pulsava dentro ogni volta che vedevo un giardino fiorito, o un aquilone. Sarebbe stato bello tornare a quell’epoca in cui bastava un pezzo di tela legato ad un filo per renderti felice. Quell’epoca in cui non importava quanto alto il tuo aquilone volasse, né come volasse, né per quanto tempo volasse, né tantomeno di che colore fosse. Quell’epoca in cui la sola cosa che avesse valore era che il tuo aquilone stesse lì, sospeso. Che il tuo aquilone volasse, indipendentemente dagli altri secondari fattori. La mente del bambino è così splendente, pura e disinteressata che spesso ci fa spavento. Le nostre schermaglie di significati e significanti non servono, e riuscire a conservare anche un solo granello di quell’antica brillantezza sarebbe un immenso traguardo per l’uomo comune.
Ma, nonostante queste belle parole, il mio aquilone si perse inevitabilmente, tempo fa.
Trastullavo il mio ego in mezzo a quelle casette graziose, circondate da verde, tanto verde, casette silenziose, che aspettavano un’ennesima, asettica alba. Spento il motore, spenti i fari. Poi avevo iniziato a bere. Operazione ormai automatica, quella di aprire una lattina. Uno scatto metallico, la schiuma, il malto giù per la gola. Una. Due. Tre. Alla quarta mi appoggiai al finestrino. Alla quinta alzai gli occhi verso il cielo color inchiostro. Una sola stella riuscii ad individuare nel mio campo visivo, piccola e sperduta in quel brodo scuro, e questo un po’ mi stupì.
Iniziavo ad avere freddo, nonostante l’alcool in circolo.
‘Fantastico Robert. Sei fuori casa, ubriaco, in macchina da solo in un posto in cui non conosci praticamente nessuno, ed è metà dicembre. Cristo, una notte di metà dicembre e tu vuoi dormire in macchina. Geniale. Fantastico’.
Infilai la cassetta di Van Morrison nel mangianastri, e le tenere e strazianti note di Astral Weeks pervasero l’abitacolo. Mi accoccolai, cercando calore e conforto nel cappotto. Chiusi gli occhi. Che giornata assurda avevo passato. Al momento, a dire la verità, ricordavo ben poco della giornata appena trascorsa. Phil, lo specchio rotto, Lol che mi grida cose, Steve, il suo gin e la sua lsd, la macchina, la notte, il cartello di Guildford, Simon. I pugni di Simon. Le sue dita a stringere sul mio collo. I suoi occhi brucianti. Le sue parole che mi feriscono come dardi avvelenati. In mente avevo solo queste poche, confuse immagini, in un susseguirsi tutt’altro che logico. Ciò che avevo ancora negli occhi, e fermo in mente, era l’assurdità. Non sembrava neanche la mia vita, quella. Era come guardare un esilarante film, in cui il protagonista è un povero sfigato che non riesce mai in quello che fa. Lo vedi inciampare, goffo ed incredulo ogni volta, fallimento dopo fallimento. Un po’ deprimente forse, ma in fin dei conti è proprio la faccia afflitta del pavido eroe a provocare ilarità nello spettatore. E stai lì a rassicurarti, bello comodo nella tua poltroncina da cinema, mentre sgranocchi noncurante i tuoi popcorn, ‘Per fortuna non sono io quello lì’.
E invece – meraviglia delle meraviglie – quello lì sei proprio tu. Quello lì sono proprio io. Pagliaccio triste e deriso. Orribile scoperta, straziante e scomoda verità. Come un cappio spinato attorno al collo.
And I'm conquered in a car seat
Not a thing that I can do -
I may go crazy.

Presi carta e penna dal sedile accanto, su cui li avevo precedentemente buttati. Parole confuse caddero sul foglio, in più che discutibili risultati, tant’è che, pochi minuti dopo, fui costretto a lasciar perdere. Per il freddo stavo perdendo la sensibilità delle dita, non riuscivo a scrivere una parola.
Irritato, scesi dall’auto, con in mano sempre il blocco, infilandomi la penna nella tasca posteriore dei pantaloni e sbattendo con veemenza la portiera. Dovevo scaldarmi in qualche modo. Iniziai quindi a camminare, lentamente.
Osservavo il cielo, che mi sembrava ovattato – forse per il fatto che ero sbronzo ? Poi, preso da una qualche ignota fretta, accelerai il passo. But my heart keeps beating faster - And my feet can't keep still.
Distese buie e sconfinate, ma alla vista terribilmente intricate, mi si prostravano davanti, inchinandosi scure e soffici, come se fossi il re di quelle lande. L’erba si piegava dolcemente sotto le suole delle mie scarpe. Gli alberi ondeggiavano con leggerezza, danzando armoniosamente in balia del vento. Rumore d’acqua. Acqua che scroscia, zampilla e scorre lenta verso l’entroterra. Mi sentii pervadere da un vago sentimento di onnipotenza.
Sovrano incontrastato del buio, una sorta di piccolo monarca di terra e tenebre. Iniziai a correre, la mente intorpidita ma mai sazia di quel rumore acquoso che mi riempiva le orecchie. Mi fermai, aprii le braccia e respirai a fondo.
Aria che entra, aria che esce e che entra di nuovo e che esce di nuovo. Era l’aria più dolce e pura che avessi mai esperito da qualche tempo a questa parte. Le mie papille olfattive accantonarono per un po’ l’odore stantio delle stanze d’albergo e degli studi di registrazione. Niente birra, niente calzini, niente sudore, solo aria.
Una brezza leggera che ti spazza la fronte, aria che ti entra dentro gelida ma che ne esce cocente e rassicurante.
Preso dalla frenesia, mi fermai aprendo le braccia a quell’immensità, chiudendo gli occhi e roteando su me stesso un paio di volte, un pazzo ubriaco. Poi mi colsero le risa, inaspettate, improvvise, quasi isteriche, acute. Pensando al mio aquilone casualmente ritrovato, mi accasciai, gemente per il troppo ridere, chiedendomi cosa diavolo mi fosse preso e stringendo inconsapevolmente tra i pugni chiusi alcuni fili d’erba.
Aprii gli occhi. Prima fissando la cupezza del terreno, umido e scivoloso, che rivelava la vicina presenza del corso d’acqua, e poi sollevando lo sguardo su quella mostruosa costruzione che mi stava di fronte. Il mulino. Il mulino di Guildford.
Sembrava essersi materializzato lì per magia, come se io fossi destinato sin dall’inizio del mio viaggio ad imbattermi in esso.
L’avevo sempre ammirato da lontano, questo gigante alla guardia del fiume, ma non avevo mai azzardato un contatto fisico, quasi pervaso da una sorta di timore reverenziale.
Mi alzai, e con la curiosità tipica di un bambino ingenuo, mi avvicinai. Nessuna cautela, no. Toccai la superficie ruvida dei mattoni rossastri, come per assicurarmi che non fosse un mero prodotto della mia mente ebbra, e, con passo sicuro, sgusciai all’interno, rapito da quella strana e mistica apparizione. La sottile ed argentea falce di luna appesa nel petrolio del cielo illuminava candidamente il pavimento, timida e gentile, ed io mi innamorai. Mi innamorai del suo riflesso sulla pietra e sul legno, mi innamorai di quella luce pallida, mi innamorai della notte, del fiume e del mulino. Mi accomodai sotto la finestra, la schiena appoggiata alle fredde mura, e presi a scrivere. Scrissi per moltissimo tempo, tutto ciò che mi si affacciava alla mente trovava posto sotto la mia penna.
Segreti, urla silenziose che squarciano la mia pelle, ambizioni, storie, e la stessa immagine che mi perseguita da tempo immemore da qui all’eternità, paure, rabbia, tanta ed incontenibile rabbia, risate e polvere, giorni passati agognanti l’oblio, e lo specchio, la mia immagine pallida, e sangue, sangue ovunque, sui pavimenti lindi, sui muri, sui soffitti, tutto addosso, accecante, un dolore che si protende per sempre, un lunghissimo momento di agonia, il desiderio di sparire, sparire, sparire, sparire, sparire, dissolversi e sparire, forse fuggire ? E poi ritrovarsi di nuovo nello stesso punto, interminabile, la mente annebbiata, è follia a cui non puoi porre rimedio, e una canzone che mi rammenta che ora è la fine di tutto, il sottofondo di una marcia funebre verso l’inevitabile.
Quell’alito di ghiaccio che fa male al cuore, e agli occhi. Agli occhi, fa male al cuore, e agli occhi. Gli occhi.

Li chiusi per un attimo, ero esausto. La sbronza sembrava essersi svampita. Perché non avevo ancora mandato al diavolo tutti ? Ero enormemente stanco. Stanco di quella vita, stanco dei miei continui rigurgiti e ripensamenti, stanco di essere trattato e di trattarmi in questo modo. Avevano bisogno di me ?
O alla fine ero solo io ad aver bisogno di loro ?
Con questa vana e presumibilmente effimera speranza, mi addormentai. Noncurante dell’orario, noncurante del cielo grigio chiaro dietro cui il sole stava facendo capolino all’orizzonte, noncurante delle persone che avevo lasciato in balia di loro stesse, miglia e miglia lontano da me. Tronfio d’egoismo, mi addormentai.
Era freddo, l’aria pungente mi penetrava a forza nei pantaloni, quell’alito di ghiaccio, sei venuto a prendermi ? So che hai un nome, ma non riesco a ricordarlo. I miei occhi puntati su di te, ma cosa sei ? Non riesco a vedere, c’è solo torpore, ed è così freddo da far male al cuore, esatto, al cuore. Non ti vedo, ho freddo, cosa sei ? Chi sei ? Morirò ? No, non voltarti adesso, non ora. Io conosco questa sensazione, ci siamo già incontrati io e te, e se solo riuscissi a ricordare, a vederti per quello che realmente sei… E’ troppo freddo, non sopravviverò ancora, ti prego, non andare. Un nastro rosso tra i capelli, sono lunghi capelli scuri, la pelle lattiginosa e delicata, se lo penso intensamente riesco a toccarti e a sentire il tuo calore. E’ freddo, qui. E sento questa voce rauca che mi sgrida, perché ? Non volevo farti preoccupare, credimi, io ci tengo davvero a te, non voltarmi le spalle, ti prego, no, è ancora così freddo, e non riesco a ricordarmi nulla, qui, anche il mio sangue scorre gelato, quella luce, io l’avevo vista, ora dov’è ? Uno specchio. La mia immagine brilla malefica su quello specchio. E quegli occhi di ghiaccio che mi fissano. E’ lui. Ride di me. Il mio riflesso ride di me. Fare a pezzi il vetro non servirà a nulla, perché la sua risata mi rimbomba in testa, non vuole andarsene, squarcia la carne, puntella il mio cervello, in un crescendo di follia e desiderio, mi vuoi morto ? Mi vuoi morto ?!
Mi risvegliai improvvisamente, bianchiccio e con la fronte imperlata di sudore. La testa tra le mani, che mi pulsava irrimediabilmente, e piansi a lungo. Poi caddi in un tormentato e profondo sonno, dal quale mi risvegliai, acciaccato ed ancora più fiacco, il pomeriggio di quello stesso giorno che avevo visto appena accennato. Attorno a me ogni cosa era avvolta nel buio più totale.
Mi issai in piedi, barcollando ed in preda a tremiti improvvisi, causa freddo dicembrino, quindi raccattai le mie cose, tastando con la mano sulla fredda pietra del pavimento.
Con passo deciso mi affrettai verso la mia auto, ma fui colto dal terrore quando mi accorsi di non ricordare dove l’avessi lasciata. Tentai di forzare la mia mente a compiere il suo dovere, inutilmente. Spaventato, iniziai una ricerca affannata, con sottofondo di ruscello ed uccellini cinguettanti. Una pace surreale, a tratti inquietante. Ed ecco di nuovo il nostro eroe, sguardo avvilito, bocca aperta ed occhiaie, ansante tra gli alberi alla ricerca dell’oggetto perduto del suo desiderio e circondato da una cornice naturale pacifica e florida all’inverosimile. Una pesante coltre di stanchezza si fece strada tra le mie membra, rendendo il tutto ancora più orrendamente comico. Arrancavo stremato, scivolando ogni tanto tra i sassolini ed il terriccio umido. Finché eccola lì, proprio sul ciglio di un sentiero battuto che serpeggiava tra gli alberi. La mia macchina, lamiera color amaranto, mezzo di salvezza su quattro ruote.
Pescai le chiavi nelle tasche del cappotto, le dita congestionate, e mi introdussi dentro con enorme sforzo.
Abbandonai la testa contro il sedile di pelle color crema, ancora terrorizzato. Pensavo che l’essermi allontanato dall’oziosa e straziante routine avesse giovato al mio stato d’animo. Niente di più falso. Ora mi sembrava quasi di agognare il mio imminente ritorno alla fumosa city, alla moquette bruciacchiata dalle sigarette, all’aria irrespirabile e viziata degli studi, a Lol, a Phil, e anche a Simon, sì, e alla mia chitarra. Mi mancava la mia chitarra. E poi avevo un impellente bisogno di parlare, di esprimermi, non di tenermi tutto dentro, non ancora, non più. Stavo soffocando in tutto questo. La mia inesorabile discesa accelerava di ora in ora, e chi lo sa dove mi avrebbe portato di lì a poco, se non fossi fuggito ennesimamente, da codardo. La decisione di allontanarmi da quel luogo era già stata presa una manciata di minuti prima, quel luogo, quel mulino immerso nella campagna inglese che per me era stato fin troppo invasivo, ed il mio tentativo era proprio quello di tornare alla vita di sempre, come se nulla fosse mai accaduto. Rientrando a passo felpato nell’abitudine, troppo sconvolto per sopportare ancora quella pungente aria invernale, che odorava disgustosamente di pulizia, fresco e novità. Ora mi sarei concentrato sul mio lavoro, fiducioso nel fatto che la mia piccola e quasi insignificante assenza non avesse prodotto cambiamenti profondi nell’assetto attuale delle cose.
Ma, purtroppo, mi sbagliavo anche su questo.

Voglio che le stagioni mi consumino.
A te, Natura, m'arrendo, e la mia fame e tutta la mia sete: e ti piaccia nutrirmi, abbeverarmi.
Più nulla ormai m'illude.
Ridere al sole è ridere ai padri.
Ma io non voglio ridere a nulla.
E libera sia questa sventura.
  
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