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Autore: LouVelessy    22/05/2013    2 recensioni
Quando ti chiami Harry Styles, ma tutti ti chiamano "il cieco", perchè tutto quello che vedono di te è solo un paio di occhiali da sole ed un bastone che ti aiuta a muoverti, costretto ad ascoltare i loro commenti cattivi, è difficile mostrarsi per quello che sei realmente.
Quando ti chiami Louis Tomlinson, ma tutti ti chiamano "il Tommo", attenti ad evitarti quando incontrano il tuo sguardo, quasi impauriti da quello che potresti fargli solo perchè ti guardano, è facile lasciarli fare per evitare rogne.
Tutti indossano una maschera, e nessuno si mostra per quel che è.
Fidarsi è la cosa più difficile da fare. Sempre.
{ Harry è un ragazzo di 16 anni, ipovedente. Louis potrebbe essere definito per semplificazione un bullo. }
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Ogni anno scolastico che finisce, da un’estrema sensazione di libertà ad Harry, il riccio con gli occhiali da sole ed il bastone bianco. Libertà, in quanto non è più obbligato a frequentare l’istituto che più che insegnargli nozioni scolastiche, non fa altro che insegnargli come può essere dura la vita di un ipovedente.
Ma quando la scuola ricomincia, tutto ha di nuovo inizio, compresi gli insulti velati che qualcuno sussurra al suo passaggio, e che riesce a sentire benissimo, essendo il suo udito, per ovvie ragioni, più fino e sensibile rispetto a quello di un udente. Ricomincia a combattere con i luoghi comuni, con quelli che vogliono aiutarlo solo perché ad alcuni può persino riuscire a far pena – quando ha davvero poco a farlo penare, se tutti semplicemente la smettessero di trattarlo come un disagiato disadattato. Ricominciano le gomitate tra la folla, perché è difficile nei corridoi cercare di fare attenzione a dove si sbattono le braccia facendosi largo tra gli altri studenti. Ricomincia la normalità, che per un normale studente può essere chiamata vita quotidiana, ma che per Harry è definibile come lo strazio di tutti i giorni.

Oramai ha sedici anni, sei anni di buio quasi totale, eccezion fatta per determinati momenti in cui, grazie ad una specifica tonalità di luci – non troppo intense né troppo soffuse – riesce ancora a distinguere i contorni delle cose, sebbene non con precisione. Un misto di ricordi di quello che una volta riusciva a vedere, quello che effettivamente riesce a distinguere tra il buio, di percezione tattile ed immaginazione. Sedici anni, terzo anno di liceo. Niente di più difficile. Andando avanti, anno in anno, si era ripromesso che tutto sarebbe migliorato. Le persone crescono, i compagni di classe maturano, e avrebbero fatto l’abitudine alla presenza del riccio, tanto da non sorprendersi più nel vederlo tornare. Ed invece, ogni anno, il primo giorno di scuola, l’ondata di stupore che riusciva a percepire quasi a pelle era incredibile.

Accompagnato, come ogni giorno da tre anni a questa parte, dalla madre, fino all’ingresso principale con l’automobile, nonostante le macchine non potessero percorrere i vialetti interni dell’istituto, fece il suo ingresso da bravo non vedente, per la gioia di tutti, che l’accolsero con le solite occhiatine incuriosite, nonostante oramai avrebbero dovuto fare il callo a quello che succedeva all’arrivo di Harry. L’automobile rallentò proprio all’altezza della porta d’ingresso, quella che conduce direttamente ai corridoi per le classi, ed appena si arrestò del tutto, la porta del passeggero si aprì e ne venne fuori la figura del riccio. Pochi attimi, uno leggero movimento della mano ed il bastone bianco, sottile e pieghevole scattò, srotolandosi sotto le sue dita, pronto per essere utilizzato. Anne si chinò di lato per baciare la guancia del figlio, che fece uno scatto dal verso opposto, evitandola.

“Smettila.”

Freddo, il ragazzo, si alzò in piedi, sistemandogli gli occhiali da sole scuri che portava per ovvie ragioni. La luce del sole lo infastidiva. Nei luoghi aperti era costretto ad avere gli occhi chiusi, nonostante dovesse forzarsi a farlo. Al chiuso, gli piaceva tenerli aperti. Occhi verdi, intensi e bellissimi, non vuoti. Non aveva lo sguardo perso nel vuoto, mai. Secondo l’oculista che da sempre seguì il caso Styles, era una condizione positiva, in quanto non aveva perso quell’atteggiamento positivo che purtroppo i non vedenti, soprattutto coloro che alla nascita vedono, perdono con l’andare via della vista. Dimenticano quasi di avere degli occhi da mostrare, non potendoli più usare. Harry no. Harry li aveva, e gli piaceva aprirli, perché le persone gli parlavano in modo diverso quando aveva gli occhi aperti, puntati sui suoi interlocutori. Con il tempo l’aveva capito. Parlare con qualcuno che ha gli occhi chiusi rende tutti più nervosi, era questa la conclusione alla quale era arrivato. Sceso dall’auto, chiuse la portiera ed aspettò immobile che la madre rimettesse in moto e si allontanasse da lì. Era stato chiaro al riguardo, prima di mettersi in macchina per il primo giorno di scuola del terzo anno.

“Non puoi continuare ad accompagnarmi fin dentro la classe mamma… non ho bisogno di queste cose. Ci pensa miss. Sophie, è il suo compito no? La paghi per questo. Quindi da oggi le cose cambiano.”

Quando voleva imporsi su qualche cosa, quando voleva far rispettare il proprio punto di vista e il proprio volere, non c’era nulla che reggesse. Nonostante le difficoltà di fronte il quale la vita l’aveva messo da sempre, aveva imparato ad essere severo con gli altri. Non voleva approfittare della condizione in cui si trovava, e su certe cose proprio non transigeva. Come il bacetto della buona giornata, avendo adesso sedici anni. Ed Anne doveva semplicemente accettare la cosa, ed evitare di baciarlo una volta arrivati a scuola. Semplice.

Un sospiro profondo, di incoraggiamento a sé stesso, e cominciò a battere leggermente la punta stondata del bastone avanti ai suoi piedi, trovando così la strada giusta da percorrere, libera da ostacoli. Le gradinate di fronte all’entrata erano il luogo preferito per gli studenti dove passare il tempo prima dell’inizio delle lezioni, altra difficoltà aggiuntiva per Harry, che doveva farsi strada tra le persone oltre che salire i gradini. Fortunatamente chiacchieravano in gruppetto, facendosi così guidare dalle loro voci, evitandole per non rischiare di inciampare in qualcuno. Appena entrato nell’istituto, dalla segreteria, la prima porta a destra, sentì una voce familiare, chiara.

“Mai in ritardo, come sempre. Buon giorno Harry, come sono andate le vacanze?”

Un sorriso si allargò sul volto del riccio. “Non c’è male. Ho preso tanto sole, nuotato in mare nonostante le ansie di mia madre e ho finito tutti i compiti per le vacanze! E lei miss Sophie?”

L’insegnante di sostegno di Harry, che lo seguiva dall’inizio del liceo, aiutandolo a trovare le classi giuste, negli appunti e nello svolgimento di alcuni esami che richiedevano l’utilizzo della vista, come quello d’arte, era una donna giovane, che cominciò la sua carriera lavorativa proprio con il piccolo Styles.

“Non posso lamentarmi. Con cosa cominciamo l’anno?”

“Biologia. Non poteva cominciare meglio insomma!”

L’insegnante gli si affiancò, senza toccarlo in alcun modo, procedendo insieme a lui verso la sesta porta a sinistra. L’aula di biologia. Harry conosceva tutta la cartina dell’istituto a memoria. Avrebbe potuto muoversi tranquillamente da solo per le aule, se i corridoi fossero stati più sgomberi o quantomeno ordinati. Ed invece c’era sempre qualcuno o qualcosa nella quale inciampare, motivo per il quale aveva accettato di essere accompagnato da Miss Sophie, che il primo giorno di scuola del primo anno l’aveva afferrato saldamente per il braccio, gesto che infastidì parecchio Harry che non perse tempo nel chiarire le cose.

“So muovermi benissimo da solo” gli disse, scostandosi bruscamente da lei. “Che non ci vedo non significa che deve trasportarmi in giro come se fossi merce da scambio.”

Di comune accordo, sotto decisione di Harry accettata da una miss Sophie abbastanza imbarazzata, decisero che avrebbero camminato l’uno affianco all’altra, e che solo in caso di estrema necessità la donna l’avrebbe aiutato. Altrimenti la sua compagnia sarebbe bastata. Doveva essere gli occhi del riccio in caso di necessità. E solo in caso di necessità.

Arrivati in classe, i due posti in fondo all’aula erano per Harry e Sophie. Era così da sempre. Ogni classe aveva quel banchetto più lungo, non i soliti banchi singoli per ogni studente, permettendo così allo studente ipovedente di avere affianco la propria aiutante. Ad Harry spesso piaceva pensarla come una segretaria. Era un modo simpatico per sentirsi si diverso dagli altri, ma in maniera positiva ed allegra. Cose che contraddistinguevano il vero Harry. L’allegria e la positività.

Quando la classe si riempì, in pochi fecero realmente caso ad Harry. In classe era più facile far finta che non esistesse, a differenza di quello che succedeva in giro per scuola, tra i corridoi, la mensa ed i cortili. Lì tutto diventava più facile, sia osservarlo che parlare con il gruppo d’amici del povero Styles non vedente, o di prendersi gioco di lui. Quando si è in gruppo tutto è più semplice. In aula invece, ognuno seduto nel proprio banchetto, pensavano più che altro a stare attenti alle lezioni ed evitare guai con i professori. A qualcuno, il primo anno soprattutto, era scappato qualche commento ad alta voce, con annessa ora di punizione. Esperienza che aveva da un lato giovato alla condizione di Harry, dall’altro però agevolato coloro che in cortile riversavano su di lui sfottò e quant’altro, perché anche i professori difendevano il “povero cieco”. Senza sapere che al “povero cieco” non andava a genio che terzi lo difendessero. Avrebbe preferito farlo da solo, molto volentieri. Ma la gerarchia certe cose non le permette, ed il bullismo non è mai accettato a scuola, soprattutto quando è palese, in classe, avanti ad un docente. E certe cose Harry le capiva.

Le lezioni procedevano per la maggior parte della mattina, una dopo l’altra, fino all’ora di pranzo, ora che il riccio odiava più di quelle in classe, essendo l’unico momento in cui avrebbe davvero potuto avere un contatto con gli altri. Contatto che se per gli studenti normali significava momento d’aggregazione con gli altri, in cui conoscersi, stare con gli amici, per Harry significava solitudine. Non che non c’avesse mai provato. Qualcuno, di tanto in tanto, negli anni precedenti, gli si era avvicinato. Ma non bisogna vedere per rendersi conto di certe cose, come le risatine che sotto ai baffi qualcuno si lascia scappare, perché per chissà quale motivo trova divertente scambiare quattro chiacchiere con lui, oppure il disagio che qualcuno finge di non provare, eppure prova. Disagio per Harry comprensibile, in quanto nessuno è abituato a parlare con un non vedente, a meno che non lo abbia in giro per casa, o come amico. E come vuoi farti amico un non vedente se la primissima cosa che gli dici, dopo esserti presentato, è “com’è che si vive non vedendo?”. E’ da folli solo pensandolo.

Il pranzo, a differenza degli altri, lo portava da casa. Ben custodito nel proprio armadietto, il numero 251, il primo della terza fila a sinistra al secondo piano, confezionato direttamente dalla madre. Vassoio vuoto per Styles insomma. Vassoio vuoto e tavolo vuoto. Miss Sophie aveva provato, sempre il primo anno, a pranzare con lui, ma anche qui Harry era stato chiaro. Non aveva bisogno di compagnia. Lungimirante, in quanto pranzare con la sua insegnante di sostegno, per quanto si sforzasse a pensarla come una segretaria, non giovava di sicuro alla propria condizione. Tanto valeva far lo sfigato “normale”, e pranzare da solo. Almeno in quello era bravo, e non veniva etichettato come lo sfigato degli sfigati, che si porta la compagnia da casa. Ma uno semplice, come tutti gli altri che pranzano da soli non avendo amici.

Il tavolo di fianco all’ingresso era quello che prediligeva da due anni a questa parte, tavolo isolato essendo lontano dalle finestre ma vicino all’uscita. Facile da raggiunge, altrettanto facile da abbandonare. E gli capitava spesso anche questo, dover abbandonare il tavolo velocemente, senza dare molto nell’occhio. Quando ad esempio c’era una rissa in atto, cosa che non capitava spessissimo, ma capitava. Momento di panico in cui far finta che non stesse accadendo nulla ed evitare di rientrare non volendo nella mischia, era l’unica soluzione sensata per Harry. Non rientrava mai nei meccanismi “sociali” della scuola. In certe cose non voleva avere a che fare, non c’entrava molto con quello che succedeva agli altri. Aveva già i suoi problemi, e gli bastavano quelli. Essere inserito in una rissa non era per niente il modo giusto per farsi accettare dagli altri, né tantomeno quel qualche cosa in più che l’avrebbe mostrato come per nulla diverso dai compagni.

Ma quel giorno, il primo giorno di scuola del terzo anno di liceo, fu un giorno memorabile, perché qualcuno gli si sedette accanto, senza prestare troppa attenzione – come era successo con chi precedentemente c’aveva provato – a dove mettere i piedi, dove mettere le mani e quanto rumore fare. Anzi. Qualcuno con l’aria stanca, che non sembrò far quasi caso ad Harry, seguito dal rumore di un pacchetto di snack aperto, nonché di una bibita gassata.

“E’ sempre così qua?” la voce apparteneva ad una ragazza.

“Così come?” domandò Harry, continuando a mangiucchiare il sandwich preparatogli dalla madre, a testa bassa.

“Così… strano! Sembrano tutti attenti a quello che fanno gli altri. Ma che guardino a quello che fanno loro, per la miseria!” continuò ad armeggiare con quella bustina di snack, riempiendosi la bocca e masticando rumorosamente.

“Facci l’abitudine… succede sempre così, si.” Altro morso al panino. “Sei nuova?”

“Si, quarto anno per me, ma dovevo essere al quinto. L’anno scorso non è andata benissimo, mettiamola così… e questo posto lo odio già. Non ci volevo venire, ma fino a quando vivi sotto al nostro tetto fai quello che diciamo noi!” imitò probabilmente la voce di uno dei due genitori, dalla quale si sentì dire quelle stesse identiche parole. “Sono Bridget. E non fare strane battute su quel filmaccio da quattro soldi, tratto da quella carta straccia, perché ti disintegro.”

Harry alzò le mani in segno di resa, sogghignando. “Nessuna battuta, ho capito. Io sono Harry.” Era divertito, dal fare della ragazza e dal modo in cui aveva decisamente sorvolato i momenti imbarazzanti in cui parlando con le persone solitamente lo prendevano. Niente di niente. Era stato semplice quasi.

“Anche questa storia dei tavoli… cos’è? Ognuno ha il proprio? Se ti siedi al tavolo sbagliato, sei finito?”

“Più o meno si…” il riccio rimase vago. Sapeva, per esperienza sentendo le voci qua e là, che ogni gruppo si sedeva ad un tavolo, ma non era molto bravo con le predisposizioni. Non essendosi mai inoltrato più di di tanto per la sala mensa, era completamente ignaro di tutto ciò che c’era una volta superato il tavolo di fianco all’ingresso.

“Immagino quello sia il tavolo delle fighette. Tutte bionde e plasticose…” aggiunse, con un tono di disprezzo. “Che poi, cosa ci trovate voi maschi nelle donne tutte cosce? Mah. Poi ci sono i secchioni… tavolo che mi fa ribrezzo solo a pensarci. Parleranno di roba di scuola tutto il tempo… i risultati dei test, i compiti a casa…” e fece un verso che ricordava un conato di vomito. “Ah, poi laggiù c’è l’immancabile tavolo dei bulli… Fanno a gara a chi ha più tatuaggi? Tutti con quei cappellini in testa, sembrano tanti peni con annessi preservativi” Harry lì rise, non potendone fare a meno. Immaginava il genere di cappellino alla quale si riferiva la ragazza nel suo racconto, quelli senza visiera, da infilare semplicemente sulla testa. “Ah… La normalità, questa sconosciuta!” concluse.

Harry non sentiva gli occhi della ragazza addosso. Era come se non si fosse accorta di nulla, nonostante non portasse gli occhiali da sole e lo sguardo del riccio si fosse posato solo un paio di volte, di sfuggita, nella direzione di Bridget. Qualche cosa gli vibrò in tasca. Era il suo orologio “speciale”, dove memorizzava degli orari particolari, come quello di inizio delle lezioni, che l’avvisavano quando era ora di andare, evitandogli così la scena imbarazzante del dover premere il pulsante che a voce squillante permetteva all’apparecchio di comunicargli l’orario preciso. Cosa che dava sempre molto nell’occhio a coloro che gli stavano intorno.

“E’ ora di tornare in classe!” comunicò alla ragazza, facendo per alzarsi e sfilando dalla tasca posteriore dei jeans il bastone bianco, ripiegato su sé stesso, che senza perder tempo fece scattare, in modo da averlo pronto per potersi incamminare velocemente verso l’uscita.

“Già è ora? Manco il tempo di mangiare avete, in questa specie di carcere?” chiese semplicemente lei, alzandosi rumorosamente, così come quando s’era seduta, recuperando tutte le sue cose dal tavolo. “Lasci il vassoio con tutte le tue cose da gettare sul tavolo? Ah, dovresti stare nel tavolo con gli incivili allora!” lo canzonò, con un tono tipicamente ironico che Harry colse subito, cosa che lo colpì positivamente.
Solo Niall, ad eccezion fatta dei propri familiari – e nemmeno di tutti – riusciva a fargli battute leggere, senza dover incorrere in gaffes incredibili riguardo la cecità o roba simile, cosa che comunque divertiva Harry, soprattutto quando due secondi dopo c’era il completo gelo nonché imbarazzo da parte di chi la battuta l’aveva lanciata.

“Saresti così gentile da pensarci tu?” domandò per nulla imbarazzato, anzi, con un bel tocco di faccia tosta. Una sorta d’esame, per come aveva immaginato la scena. La risposta che Bridget gli avrebbe dato avrebbe chiarificato nella mente di Harry parecchie cose. Non aspettò neanche un attimo e picchiettando con la punta del bastone per terra, già rivolto verso l’uscita.

“Ma per nulla al mondo! Cos’è, le mani non ce le hai?” inacidita quasi nei confronti di Harry, che fu stupito per le parole usate dalla ragazza, ma al tempo stesso felice. Finalmente qualcuno che non lo trattava in maniera diversa. Quella ragazza, quella Bridget, era una forza. Si rigirò su sé stesso, recuperando il vassoio con una mano e raggiungendo i carrelli di fianco all’uscita, depositò il proprio sulla pila con gli altri, raggiungendo solo allora l’uscita.

“Che ragazzo coraggioso! Riporre il vassoio al proprio posto tutto da solo! Sei un eroe!” sentì la voce di Bridget urlare, gioiosa e chiaramente con l’intento di prenderlo in giro. Ma una presa in giro diversa da quella che tutti gli avevano riservato fino ad allora. Quelle cattive, che fondamentalmente hanno lo scopo di ridere alle tue spalle. No, era un che di costruttivo, di divertente anche per Harry, che sostituì la smorfia di sorpresa ad una grassa risata, sventolando un pugno sulla propria testa, con aria vittoriosa.











_______________________________________note_autore_______

Salve,
la storia procede. Voi che mi dite? Comincia a piacervi?
Sapete che i vostri commenti sono importanti :)
Inserendo la storia tra le seguite/preferite, vi avviso con un messaggio
quando posto un nuovo capitolo. Quindi, se volete essere avvisate,
fatelo pure :)
Grazie per le visualizzazioni e soprattutto grazie per l'interesse che mostrate :)
Un bacio, 
Giulia.


 

  
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