Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: Shark Attack    24/05/2013    4 recensioni
Prendete una classica storia fantasy e buttatela via: il protagonista cade dalle nuvole e si ritrova a dover salvare il mondo come dice una profezia sbucata da chissà dove, giusto? No, non qui.
Lei è Savannah, lui è Nehroi: sono fratelli senza fissa dimora, senza passato, senza futuro ma con un presente che vogliono vivere a cavallo tra il loro mondo e il nostro seguendo solamente quattro regole: non ci si abbandona, si restituiscono i favori, non si prendono ordini e non si dimentica.
Sfidano antiche leggende, rubano amuleti e armi magiche di ogni genere per il solo fine di diventare più forti e usano i poteri per vivere da nababbi a NewYork. Il resto non conta. (... o almeno, così credono!)
[Grazie anticipate a chiunque vorrà essere così gentile da leggere e lasciare due parole di commento! ^-^]
Genere: Dark, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A



32
Muri e Pareti



Stalsky si avvicinò di nuovo al collega informatico e vide che contraeva nervosamente le dita. Masticava una gomma muovendo le mascelle in maniera serrata e rumorosamente ritmica, e il detective non lo interpretò come un buon segno.
«Cosa succede?», gli chiese preoccupato.
Il ragazzo sbuffò e gli indicò il monitor: un planisfero costantemente scansionato da due righe verdi, una verticale e una orizzontale, che si intersecavano in silenzio.
«Hai localizzato la telefonata?»
«Non ho scoperto neanche che numero abbia fatto! Sembra che non abbia premuto alcun tasto la ma la telefonata è partita ed è impossibile localizzarla! Vede? Nessun puntino rosso...»
Stalsky si guardò attorno con nervosismo e scacciò le occhiate curiose dei colleghi, soprattutto quelle degli agenti dell'FBI, che non attendevano altro che mettere le mani su quei due delinquenti.
«La registrazione, almeno, si sente bene?»
Il tecnico informatico ridacchiò per un istante, poi premette due tasti e sullo schermo comparve il grafico di una traccia audio. Si sfilò le grandi cuffie e gliele fece indossare. «Ascolti lei», gli disse con un tono vagamente provocatorio, ma anche frustrato.
Stalsky corrugò la fronte e tese le orecchie, senza riuscire a sentire nient'altro che un fastidioso rumore di sottofondo. Guardò il ragazzo e ricevette spallucce come unica risposta.
«La telefonata c'è stata anche se non sappiamo chi ha chiamato, è tanto impossibile localizzare l'altro telefono che sembra sia su un altro pianeta e la registrazione è vuota», riassunse desolato.
Stalsky sentì l'aria uscire definitivamente dai polmoni. Sgranò gli occhi ma si ricordò di tutti i colleghi che non aspettavano altro che una sua resa per sfilargli il caso di mano e cercò di darsi un contegno.
Strinse i pugni e sentì montare sotto pelle la rabbia per aver dovuto rilasciare i due fratelli poche settimane prima perché non aveva niente su di loro e perché quel poco che aveva si era dissolto in un istante. Non avrebbe permesso niente di simile, non sarebbe diventato lo zimbello ufficiale del distretto.
Tornò con passi pesanti nella sala interrogatori e trovò Savannah perfettamente a posto e posata, senza occhi rossi né una minima parte dell'aria sconvolta che aveva fino a pochi istanti prima, seduta per bene ad un tavolo asciutto e pulito. Sembrava che non fosse assolutamente successo nulla. Persino il cellulare era di nuovo intatto ed assemblato sul tavolo, sebbene le manette stessero ancora legando saldamente la ragazza per i polsi. Ancora una volta era tutto assolutamente impossibile.
Stalsky prese in mano il telefono e constatò che non c'era un solo millimetro incrinato o che mostrasse le spaccature che il lancio contro il muro avevano provocato fino a frantumarlo in mille pezzi.
Guardò Savannah con ammirazione ed inquietudine.
Aveva lo sguardo basso ed annoiato come quello del fratello, come se neanche lei avesse capito cosa stesse facendo lì e, in fondo, non le importasse più di tanto.
«Ma voi chi diavolo siete?»

«Due demoni egoisti, mostri senza cuore!»
«Calmatevi, Hartis, non vi fa bene alla pressione...»
Si sollevò dalla poltroncina con uno scatto e molte ossa scricchiolarono nel suo fragile e vecchio corpo. «Al diavolo la pressione! Quei due non sono persone normali! Nessuna creatura di nessun mondo riuscirebbe a progettare nulla di più diabolico!»
Olus sospirò sconsolato e lanciò un'occhiata alla moglie, dall'altro lato della stanza, intenta a scrivere una lettera lunghissima ai loro figli per rassicurarli sull'accaduto.
Il Capo di Bastreth guardò con la coda dell'occhio la collega di Feinreth, cercando di mascherare la sua apprensione, e la vide ancora depressa e assente.
«Tu sapevi qualcosa?», domandò più che altro per farle dire almeno una parola e sottrarla al suo mutismo autlesionista.
Decra posò entrambe le mani sul pancione e si afflosciò come se volesse addormentarvici sopra. «No», borbottò da sotto i capelli arruffati.
Hartis ritrovò l'autocontrollo solo vedendo l'abbattimento di quella donna che i ragazzi li aveva visti crescere, anche se a distanza, e che aveva scampato per un soffio il pericolo di perdere il suo nascituro. Le sue labbra si incresparono in una rete di rughe sottili mentre rifletteva su quelle e tante altre cose.
«Credi che abbiano fatto tutto da soli?», ritentò Olus, per nulla soddisfatto di quell'unica sillaba ottenuta.
Helea sollevò la penna e smise di scrivere il suo papiro. «Che intendi, amore?», domandò agitandosi all'istante. Anche Hartis e Decra lo fissarono con uno sguardo interrogativo e Olus si rallegrò solamente di aver risvegliato l'attenzione del Capo di Feinreth.
«Insomma...», esordì titubante, messo alle strette da tanti sguardi inquisitori e femminili.
«Saranno stati anche in due ma solo Savannah ha i poteri, giusto? Possibile che abbia spostato quelle pietre pesantissime, neutralizzato tutta quella gente e le guardie, creato tante bombe... e non sembrava neanche molto affaticata. E dove ha trovato la forza di reagire alla voragine di Chawia? Ho visto il solco nel terreno, io non credo che avrei avuto tanto sangue freddo da evitarlo con successo...»
«Oh caro, solo perché tu non sei abituato ad una vita da fuorilegge», lo consolò Helea con un sorriso dolce.
Olus scosse la testa e si portò una mano sulla fronte. «No, non capisci, devi avere il tempo di immaginare e la forza di creare... è complicato. E in un istante, nel panico e durante una fuga, lo è ancora di più.»
«Hanno detto che ha pure aperto un portale», aggiunge Hartis con meno ira dell'ultima volta che aveva aperto bocca. «In effetti non mi stupirei se qualcuno entrasse da quella porta e ci dicesse che è schiattata per lo sforzo. Ah!», ridacchiò.
«Non è divertente», sibilò gelidamente Decra, guardandola storto.
Hartis soffiò dal naso come un gatto infastidito e restituì il veleno nello sguardo. «Per me sì. Dopo tutto quello che ci ha fatto non c'è altra soluzione.»
Decra stava per rispondere quando l'anziana alzò una mano ossuta e la frenò con la consueta diplomazia dei Capi. «Riflettici, Algia, riflettici bene: ammettiamo che un giorno ritorni ad Ataklur, d'accordo? Bene, brava, è ancora viva. E poi? Non possiamo di certo lasciarla girovagare liberamente come se non fosse un pericolo pubblico che ha attentato alle vite di tutti quanti e che ha distrutto il simbolo dell'unità tra jiin! O sbaglio?»
Decra si mordicchiò un labbro e anche Olus comprese che il ragionamento della vecchia, a dispetto della sua pelle, non faceva una piega.
«Quindi non può rimanere in libertà, siamo d'accordo. Il che significa che bisognerà catturarla e incarcerarla, giusto? E poi? Anche se dovessimo effettivamente riuscirci, la lasceremmo in una cella finché non riesce a fuggire? O finché la popolazione non inizia a chiedere che venga giustamente punita? Già li sento, oh sì, una sola voce da Easreth a Lagireth, da Haffireth all'inesistente Ogklur, un coro che attraversa tutte le regioni e le valli e le vette per chiedere la sua testa.»
Decra si alzò in piedi e lasciò la stanza. I suoi passi svanirono rapidamente nel corridoio e Hartis, Olus ed Helea rimasero lì da soli e in silenzio.
L'uomo si alzò prima che una delle due potesse ribattere qualcosa e sparì anche lui oltre la porta, inseguendo la collega. Attraversò uno dei pochi corridoi rimasti intatti, nell'ala del palazzo che le bombe non avevano devastato, e saltò giù oltre le scale, aiutandosi con la magia per atterrare in maniera semplice ed indolore per le sue giunture. Decra era in mezzo alle macerie, nel corridoio scavato tra il maledetto palco e quello spazio contro la parete in cui si erano ritrovati tutti i Capi quell'infausto giorno. Quando Olus la raggiunse, era inginocchiata accanto al sangue secco ed incrostato di Deiry.
Piangeva in silenzio cancellando ogni lacrima prima che cadesse a terra.

«Lo sai che il male non esiste ma lo si crea?»
«Malvagi non si nasce di certo», rispose la donna con un sorriso cordiale.
Savannah annuì. «Lo si diventa», concluse. «Io sono malvagia.»
La dottoressa Blanch strinse le dita attorno all'elegante penna dorata ed accavallò le gambe. Appuntò brevemente qualcosa sulla sua cartellina e sorrise ancora alla sua giovane paziente. «Non è vero», le disse pacatamente.
Savannah sospirò e gettò le braccia all'indietro, stiracchiandosi sulla sedia di legno, con assi separate in cui si infilavano le ossa; una sedia color cioccolato, dura come pietra. La tuta arancione le tirò sul cavallo dei pantaloni e le scoprì le caviglie, così smise si allungare gli arti e si rimise composta. «Perché non lo credi?», domandò mentre si sistemava sullo schienale di legno.
«Hai solo rubato degli oggetti in rovine o musei. Non è un bel comportamento ma non hai fatto nulla di irreparabile, no?»
Gli occhi viola di Savannah rimasero fissi su un elefantino di vetro rosa esposto su uno scaffale poco distante. «Quindi si è malvagi solo se si uccide qualcuno?»
La dottoressa schiuse leggermente le labbra, perplessa per un'uscita del genere. «Sì», disse dopo averci pensato un po'. «Direi proprio di sì.»
La jiin annuì ed incrociò le braccia dietro la testa con fare annoiato. Piegò una gamba e la sollevò al petto, cingendola con un braccio. «Allora sono proprio malvagia.»
La penna grattò sulla cartellina e per qualche istante fu il solo rumore in quel piccolo ufficio del carcere femminile di massima sicurezza. «E chi hai ucciso?», domandò la dottoressa con cautela.
Quella ragazza era il caso più interessante che le fosse capitato dopo mesi di serial killer senza cuore né cervello, affogato in laghi di sangue senza fine.
Savannah e suo fratello, anche lui in cura da lei, erano più fantasiosi e divertenti: parlavano di altre terre, di magia, di complotti, di combattimenti degni di una saga fantasy o di un film. A volte erano storie così coinvolgenti e dettagliate da sembrare persino vere.
«Giusto la settimana scorsa ho causato la morte di sedici persone, credo.»
«Non ne sei sicura? Magari non sei stata tu», la incalzò la dottoressa Blanch con i suoi soliti modi gentili e tranquilli, che non si sarebbero guastati forse neanche durante un maremoto.
Savannah alzò un dito senza districare le mani dai suoi capelli neri che le cadevano spettinati ed arruffati sulle spalle. «Non sono sicura sul numero, sull'averli uccisi sì», precisò con serietà.
La dottoressa strinse le labbra, lievemente piccata, ed annuì. «Perché li hai uccisi?», domandò poi, annotando qualcos'altro sulla cartellina che reggeva sulle gambe accavallate con forza crescente.
«Dovevo solo far abortire una ragazza ma... la situazione ci è sfuggita di mano.»
Melissa Blanch corrugò la fronte di fronte ad una risposta del genere. Era abituata a sentire di tutto su ogni crimine che si potesse anche solo immaginare, ma le risultava piuttosto difficile comprendere come potessero esserci stati sedici morti durante un aborto.
Le circostanze dell'evento la incuriosivano non poco, ma preferì rimanere nel lato psicologico del suo lavoro senza lasciarsi trascinare dalla fantasia galoppante di una mente evidentemente disturbata.
«È vero che avete rubato voi tutti quei manufatti antichi, i reperti archeologici e i dipinti?», domandò quindi.
«Sì, certo.»
«Cosa vi ha spinti a farlo, non vivevate bene lo stesso?»
Savannah sospirò. «Sono necessari.»
«Perché?»
«Perché sono speciali.»
La dottoressa si interruppe ed annotò qualcos'altro sulla cartellina. Si sistemò la ciocca di capelli rossastri più lunga dietro l'orecchio e si accarezzò gli altri, molto più corti. «Speciali», ripeté.
«Hanno tutti proprietà magiche interessanti, roba che voi umani non potete usare... ma neanche capire. Ci servivano e li abbiamo presi», concluse la ragazza con semplicità. «Sai dove li tengono ora?»
Un vistoso orologio dall'aria pesante e dalle rifiniture argentee che troneggiava sulla scrivania della dottoressa suonò per un po' di volte, rintoccando le ore con elettronica solennità e nessuno parlò finché non finì.
Poi la donna inspirò profondamente e si tolse di dosso la tensione scrollando le spalle intorpidite.
«Alcuni sono stati restituiti ai loro musei», disse, «Il resto non lo so... e comunque, anche se lo sapessi, non potrei dirtelo.»
Savannah imprecò irritata e si chinò in avanti con aria pensierosa, poggiando una guancia sul pugno. «Questa non ci voleva, perderemo un sacco di tempo per riprenderceli...», rimuginò.
La dottoressa si portò una mano alla bocca e ridacchiò lievemente, come se non dovesse ma non ne potesse fare a meno. «Non sono vostri», le fece notare.
«Sì invece, li abbiamo presi noi!», protestò la jiin con fervore e convinzione.
«Ma... d'accordo, come vuoi. Allora, a rigor di “logica”, adesso sono della polizia, giusto?»
Savannah ci pensò su per qualche istante e poi annuì. «Giusto», affermò, «Ma ce li riprenderemo e saranno di nuovo nostri.»
La dottoressa tamburellò la penna sulla cartellina, indecisa su cosa scriverci. La premette contro il cartoncino e la punta rientrò con uno scatto, dandole l'ispirazione per dire ciò che aveva in mente.
«Credi davvero di riuscire a farcela? La polizia ti ha arrestata già due volte e il deposito è molto sorvegliato. Senza considerare che... beh, sei in un carcere di massima sicurezza.»
Savannah si rigirò tra le dita una lunga ciocca di capelli e le sorrise serafica illuminando i suoi occhioni viola.
«Oh», esclamò la dottoressa annuendo a sé stessa come se avesse tralasciato una cosa ovvia. «Dimenticavo che tu sei una strega.»
Il sorriso della ragazza si trasformò in una smorfia offesa e gli occhi si ridussero a due fessure. «Jiin», scandì irritata. «Non strega. Non faccio quelle cose con le bacchette e i calderoni.»
La donna sollevò rapidamente i fogli della sua cartelletta e li scorse con gli occhi in un fruscio, cercando qualcosa con urgenza. «Sì, mi avevi già spiegato una cosa del genere...»
«Con quegli inutili cappelli a punta e i rospi», proseguiva intanto la ragazza sputando tutto ciò che si ricordava sugli stereotipi classici di quelle credenze umane. «E non ho mai capito perché le scope dovrebbero far volare!»
«Non tutte le streghe sono così», tentò la dottoressa riemergendo dalla sua cartellina dopo aver ritrovato lo schema che si era fatta elaborando le definizioni e le informazioni raccolte nel corso delle sedute.
Savannah la guardò con superiorità ed incrociò le braccia al petto. «Ne hai conosciute molte, immagino», disse seccata.
La dottoressa Blanch si trattenne faticosamente dall'alzare gli occhi al cielo e cliccò di nuovo la penna facendo uscire la punta scura. La avvicinò al foglio, in attesa, e alzò lo sguardo verso la ragazza. «No», ammise con il suo solito sorriso, tanto largo, luminoso e falso da far tornare in mente a Savannah l'odio per Helea. «Tu invece sì, dico bene? Perché tu sei una...», sbirciò un attimo sulla cartellina, «Una jiin.»
«Lei mi crede pazza.»
La penna non scrisse nulla ma oscillò.
«Credo che tu abbia un po' di confusione in testa», disse misurando le parole con cura.
Savannah fischiò una breve e desolante melodia. «Finalmente!», esclamò poi con vitalità. «Credevo che avrebbe smesso di trattarmi come una deficiente spostata solo alla fine della mia permanenza qui... era ora, sul serio.»
La dottoressa increspò le labbra e cambiò l'accavallatura delle gambe, stringendole fino a sentire una vena pulsare. «Non volevo certo... che intendi con “fine della permanenza”?», domandò incuriosita.
Dopo averla sentita parlare con tanta sicurezza sulla volontà di prendere di nuovo possesso degli oggetti sequestrati, vantando un diritto piuttosto traballante ed infantile, e dopo aver ricevuto l'informazione ufficiale che erano stati effettivamente lei e suo fratello a rubarli precedentemente, non poteva lasciarsi sfuggire un'affermazione del genere.
Savannah fece spallucce e si voltò verso il calendario appeso alla parete. Sotto al gattino nero che sonnecchiava era segnato il mese di Novembre e la jiin contò sulle dita muovendo in silenzio le labbra. «Tra non molto», disse poi soddisfatta e forse sollevata.
La dottoressa sospirò e scribacchiò qualcosa sulla schizofrenia e sui deliri che stava ascoltando da quasi due ore. Guardò fuori dalla finestra, dove la pioggia non smetteva neanche per un minuto di cadere incessantemente ingrigendo tutti i palazzi attorno al carcere, e schioccò la lingua sul palato.
«Come va con gli antipsicotici?», domandò infine, la domanda di routine che non poteva mancare, seduta dopo seduta.
Savannah sorrise a trentadue denti e la dottoressa ebbe una fugace visione delle pasticche che cadevano ancora una volta nello sciacquone dei bagni femminili.

La ricostruzione non poteva avere inizio fino al completo spostamento dei detriti, avevano stabilito i Capi uniti in una voce sola, ma per ogni pietra che riuscivano a portare fuori ed impilare assieme alle altre, ce n'era sempre un'altra che cadeva.
Moltissimi furono i cittadini di ogni regione che accorsero per dare una mano, soprattutto jiin arancioni e rossi in grado di rendere più stabile la struttura in attesa del rifacimento e jiin di livello inferiore o brehmisth occupati in ogni genere di faccende, dall'ordine alla messa in sicurezza oggetti e persone.
I Capi erano tornati alle proprie regioni per redigere i mandati di cattura dei Fein Anis e per tornare a gestire le quotidiane mansioni che spettavano loro.
A Kyureth erano in corso i Giorni del Dolore, quelli che seguivano per tradizione la dipartita di un Capo Reggente. Ogni abitante della regione si vestiva a lutto, con gli abiti più bianchi e puliti che possedesse, e cantava per le strade melodie malinconiche e profonde o omaggiava il dipartito con la migliore manodopera che riuscisse a realizzare, donandola ai più bisognosi secondo il suo insegnamento di carità e amore.
Silar Gerit si affacciò dal palazzo di Kyureth, al centro della piazza grande della Cittadella 3, la più rigogliosa tra le strutture fluttuanti e chiuse come serre che costituivano la città, e la folla si radunò per ascoltare il suo discorso.
Era un discorso pacifico, rassicurante, che ripercorreva la memoria di suo nonno dai primi giorni della sua infanzia, condividendo molti ricordi privati che nessun cittadino aveva mai potuto conoscere, rendendoli tutti parte della sua famiglia.
Più volte fu costretto ad interrompersi a causa degli applausi o delle acclamazioni e ogni volta che succedeva donava un sorriso caldo ma provato dal lutto, un sorriso adornato da occhi tristi.
Il suo abito era più bianco di un fiore e il sole, quel giorno, sembrava aver vinto la sua eterna battaglia contro la foschia dei veleni che fuoriuscivano dal terreno solo per illuminarlo e farlo risplendere, rendendolo simile ad un faro.
«Evviva il nuovo Capo!», esclamò ad un certo punto qualcuno nella folla.
Silar si sentì la bocca insecchirsi improvvisamente. «Non era l'intenzione di mio nonno, lui voleva che istituissi il Gran Torneo», replicò con diplomazia, ma fu tutto inutile: nessuno sentì la sua protesta in quel tumulto di applausi e ovazioni e cori per il nuovo Reggente di Kyureth.
«Splendido discorso», gli disse poco più tardi Nekkis comparendo nel corridoio che portava agli uffici del Capo.
Silar gli strinse la mano con energia e lo invitò ad entrare nell'ufficio accanto, il suo da anni. «Cosa posso fare per te?», domandò cordiale offrendogli un drink dall'armadietto di cristallo.
Aner Nekkis alzò una mano e gli fece cenno di dargli un liquore azzurro, quello che prendeva sempre quando gli faceva visita, e lo ringraziò. «Come mai sei ancora qui?»
L'uomo di Kyureth finì di versarsi un liquore trasparente e fece spallucce. «Non vorrei sembrare troppo frettoloso o...»
«Approfittatore? Sciacallo?», suggerì il capo delle guardie con un ghigno davvero divertito. Ridacchiò con il suo vocione graffiato e stanco e mandò giù un breve sorso. «Sinceramente, Gerit, la gente ti ha acclamato così tanto che si offenderà se non prenderai il posto che loro vogliono per te.»
Silar guardò fuori dalla finestra ed alzò lo sguardo fino al secondo vetro, l'enorme cupola che proteggeva ogni Cittadella dall'aria tossica di quella regione inospitale: il sole era già tornato a soccombere sotto la foschia e le celebrazioni sotto di essa erano cessate. La giostra della vita stava cominciando a ruotare nuovamente come aveva sempre fatto.
«Ci sono ancora molte cose che il nonno non mi ha insegnato...», rimuginò sovrappensiero mentre guardava i panni stesi tra una casa e l'altra, un paio di isolati più in là..
Si voltò e vide Nekkis alle prese con il tavolino posizionato tra due poltrone e con le piccole statuine allineate che reggeva. «Ci giochi ancora?», gli domandò la guardia prendendo posto e tracannando un altro po' di liquore azzurrognolo. «Da ragazzo eri davvero fissato con questi giochi umani...»
Silar sorrise e si sedete dall'altra parte, dove le statuine erano nere. «A te la mossa, bianco.»
«Ah.»
Nekkis indicò il bicchiere pieno e completamente trasparente del nuovo Capo e la sua espressione si incupì in un istante. «Acqua di Lago», notò con amarezza.
L'altro annuì e per qualche istante i loro pensieri viaggiarono sulla stessa lunghezza d'onda, vertendo sugli stessi pensieri. Acqua di Lago uguale a Haffireth, Haffireth uguale a Goon, Goon uguale a...
«Gran brutto affare», commentò infine Silar osservando la mossa dell'avversario: un pedone che percorre due caselle.
Un cavallo nero balzò oltre la fila dei piccoli pezzi che aveva di fronte ed occupò una casella nel lato opposto della scacchiera.
«Giochi sempre in attacco, uh?», soffiò Nekkis con stanca ironia. Fece avanzare un altro pedone, vicino al cavallo.
«E tu sempre in difesa. »
Anche Silar mosse un pedone, quello di fronte all'alfiere destro, e Nekkis ridacchiò.
«Si vede che non sei mai stato in battaglia, una sul campo intendo», gli disse.
Giocarono per un po' senza dire nulla, affogando ognuno nei propri pensieri, nelle strategie, nei ricordi, nei progetti. Era tutto nei loro occhi, come se il colore delle iridi non fosse altro che miriadi di piccolissime parole strette tra loro, ma nessuno dei due li alzava dalla scacchiera e non si lessero. «Notizie dei fuggitivi?», domandò Silar dopo un po', mentre spostava una torre bianca a lato della scacchiera, tra le pedine mangiate.
Nekkis sospirò stizzito. «Sono ancora di là», disse con una nota di impazienza. «Ma torneranno, ne sono sicuro. E quando lo faranno...»
«Perché credi che non rimarranno di là?»
Anche una torre nera venne spostata tra i mangiati, ma in un mucchio meno affollato di quello dei bianchi.
Nekkis fece spallucce ma il suo sguardo si accese. «Tu butteresti all'aria il tuo potere? Jiin viola non è poca roba.»
Silar annuì e non poté che trovarsi d'accordo. Vide il suo avversario sollevare un proprio pedone e rimirarlo come se lo affascinasse, tenendolo stretto tra le sue dita robuste ed abbronzate come se potesse scappare. «Nehroi sarebbe stato un ottimo pedone», disse quasi sovrappensiero.
Scosse la testa un istante dopo e posò sulla scacchiera il pedone, sollevando e guardando allo stesso modo un alfiere. «Anzi no», si corresse.
Rimasero entrambi ad osservare quel pezzo bianco per un po', ognuno rimuginando su quell'affermazione mentre gli occhi scorrevano la forma affusolata e le curve lisce. «Secondo me è un cavallo», disse poi Silar sollevando il suo pezzo per la criniera. «Si muove in maniera imprevedibile e ti finisce tra i piedi come una spina nel fianco.»
Nekkis sollevò il suo, di cavallo, e lo rimirò affascinato. «E può tenere in scacco molti pezzi senza neanche accorgertene... sì, corrisponde. Quel lurido voltagabbana sfruttatore, figlio di una...»
«Savannah invece che pezzo credi che sia?», lo interruppe Silar prima che vomitasse troppo acido sulla scacchiera.
Il capo delle guardie si sdraiò sullo schienale della poltrona con stanchezza ed esaminò attentamente tutti i pezzi. «Il re», disse dopo un po'.
Silar storse il naso e non si trovò d'accordo. «Un solo passo a disposizione?», domandò dubbioso.
«In tutte le direzioni, però, ed è il pezzo più importante. Perso lui hai perso tutto, no? E credo che sia lo stesso nella loro coppia. Nehroi è di difesa, da solo non è niente.»
Silar trasse un lungo e lento respiro.
«Ho capito cos'è Savannah», disse poi. «È una regina.»
Nekkis ridacchiò. «Non dirlo a Chawia!»
«Si muove in tutte le direzioni, come il re, ma per ogni casella che vuole, senza schemi o freni. È il pezzo più potente e prezioso, decisamente.»

Anche quel giorno pioveva.
Savannah e Nehroi avevano passato un mese e mezzo in quel carcere di massima sicurezza e dalle loro finestre con le sbarre non avevano mai visto il sole: sempre e solo nuvole. Nuvole bianche, nuvole nere, nuvole che riversavano acqua come se avessero un impianto di irrigazione difettoso, nuvole che portavano vento freddo che faceva svolazzare tutto... le compagne di cella della jiin avevano ipotizzato un paio di volte che quelle nuvole avrebbero portato anche la neve, ma arrivò solo il suo soffio gelido, una notte.
Era il 28 Novembre, il giorno che i due fratelli avevano concordato senza mai dirselo esplicitamente: lo sapevano e basta, non serviva altro che il loro cervello sulla stessa lunghezza d'onda.
Sei settimane stavano per scadere e, oltre quel tempo massimo, avrebbero perso per sempre la possibilità di evadere, di tornare a casa, di essere ancora “loro”.
«Una sola condizione e vi sveleremo tutto sui furti», avevano detto entrambi al detective Stalsky durante i loro interrogatori.
L'uomo si era raddrizzato gli occhiali sul naso e aveva annuito con serietà e vigore. «Ditemi.»
«Tra sei settimane è il compleanno di mio fratello», aveva detto Savannah con un timido ed impacciato sorriso, certa che anche Nehroi avesse detto le stesse identiche cose. «Potete fare in modo di farmelo incontrare quel giorno?»
E così avevano ottenuto la chiave, il tassello indispensabile per un progetto più ampio.
Le compagne di cella di Savannah non capirono mai perché avesse fatto una richiesta tanto stupida invece che patteggiare per una pena più lieve o per dei comfort nel carcere, ma nessuna riuscì a scucirle il segreto.
I Fein Anis si incontrarono in una sala per interrogatori, l'unica abbastanza sicura per entrambi e per tenerli sotto controllo costante. Un secondino, un alto uomo corpulento e dall'aria decisamente minacciosa, armato di pistola o taser – i ragazzi non riuscirono a distinguere bene - entrò con loro nella stanza e rimase di fronte alla porta fermo come un soldato.
Non passò neanche un secondo prima che entrambi i fratelli scoppiassero a ridere fragorosamente vedendosi. «Auguri barbone!», disse Savannah mentre si asciugava le lacrime dalle guance arrossate.
Nehroi si grattò la barba incolta e ammise a sé stesso che ultimamente non si era proprio preso cura del suo aspetto, non dopo che lo avevano preso in giro perché sembrava troppo giovane per aver fatto tutto ciò di cui era accusato. «Grazie, hai un aspetto terribile anche tu!»
La cosa che i secondini notarono per prima fu una loro strana circospezione, un atteggiamento un po' troppo contenuto per due fratelli che, a detta loro, erano l'uno la sola famiglia dell'altra e che chiedevano quotidianamente come stesse il parente nella sua cella.
La jiin osservò il viso del fratello con attenzione e le sfuggì una smorfia, pur senza spegnere il sorriso. «Almeno io non ho preso quelle stupide pasticche della dottoressa... ti sei scordato che non siamo pazzi?», domandò con un vago scetticismo che assomigliava molto al tono del rimprovero.
Nehroi fece spallucce e non la considerò troppo. «Avevano un buon sapore», si limitò a dire.
Come se qualcuno avesse dato il via, si voltarono in contemporanea verso il grosso secondino che li sorvegliava a vista e tutto si svolse in un attimo.
Quando le guardie del corridoio udirono strani rumori in quella stanzetta e vi entrarono con le pistole puntate ad altezza del viso, era già tutto finito: l'uomo scelto per sorvegliarli, il migliore e più feroce tra i loro colleghi, era riverso a terra privo di sensi senza apparenti ferite o contusioni; nella parete della finestra era stata intagliata la sagoma di una porta come se fosse stata fatta di burro malleabile e un'automobile, cinque piani più in giù, sfrecciava rapida oltre il semaforo rosso tra i clacson di tutte le altre vetture.
Avevano scelto quella sala apposta perché troppo in alto e sorvegliata perché potessero tentare la fuga...
«Non è possibile», sussurrò incredula e basita una delle guardie. L'automobile era già scomparsa dalla vista ma tendendo le orecchie si potevano ancora sentire i freni stridere indemoniati sull'asfalto.
«Sei settimane passate a deridere i loro discorsi sulla magia, uh.»
Il collega sospirò affranto. «Dici che siamo licenziati?»


*-*-*-*



Benebenebene, questi ultimi capitoli sono stati così densi di avvenimenti che mi sono scordata di celebrare il 30° aggiornamento della storia! Olè!! Ma adesso siamo a 32, la solita ritardataria... mannaggia. Oléé di nuovo! xD

E anche qui sono successe moooolte cose! Prima un ultimo sguardo alla centrale di polizia (povero Stalsky ^^)(me lo immagino un po' alla Zenigata xD) e uno a Tolakireth, poi di nuovo tra gli umani con la dottoressa (grazie al mio amico psicologo per la consulenza sulla schizofrenia delirante :P) e ancora ad Ataklur per il passaggio delle redini di una regione e per una partita a scacchi (adoro gli scacchi, che gioco meraviglioso!) e poi ancora qui da noi, ma solo per una breve capatina... di "sfuggita", diciamo.
Che dire? A voi la parola! Io annuncio solamente che il prossimo capitolo è tutto per le Phil-lovers ^.- ma non per le shippers u.u
Incontreremo nuovi pg e nuovi piani da parte di tutte le parti in gioco, perché adesso viene il vero bello della storia! Ohohoh si avvicinano i miei capitoli preferiti...

Grazie ancora a tutti coloro che mi seguono, manifestamente o tacitamente!
Alla prossima, ciao!

Shark
   
 
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: Shark Attack