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Autore: SofiaAmundsen    24/05/2013    2 recensioni
Sta per suicidarsi, ma prima, ha qualcosa da dire a sua madre. E così le scrive una lettera. Una lettera che è una vita intera.
Genere: Sentimentale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Cara mamma,
 
nella mia vita sono mancate tante cose.
 
Non solo le cose grandi, come l’amore di una madre, le carezze di un padre, i sorrisi, i giochi, il calore di una casa, ma anche quelle piccole, quelle che vedevo in mano agli altri bambini, quelle che invidiavo segretamente, quelle che immaginavo, quando chiusa nella mia stanza a fantasticare disegnavo una nuova famiglia per me.
 
Come le bomboniere.
 
Avrei tanto voluto avere delle bomboniere nella mia vita, nella mia casa. Forse riderai leggendo questa lettera, perché una bambina che non ha avuto altro se non fango e catrame dalla sua vita, perché dovrebbe chiedere delle bomboniere, come suo ultimo desiderio prima di morire? Eppure è questo che voglio, anche se non sarà esaudito, anche se non sono più una bambina.
 
Delle bomboniere, in realtà, ce le avevamo, ma poi si sono rotte come si è rotto tutto il resto.
Avrei voluto delle bomboniere con tutto il significato che avevano per le altre famiglie, per gli altri bambini. Il ricordo di un battesimo, di una comunione, di un matrimonio. Membri della famiglia, amici, che celebrano qualcosa. Noi che andiamo a festeggiare a festeggiare con loro, sorridendo, voi che mi sgridate allegramente  perché assaggio un sorso di spumante durante il taglio della torta, io che sporco il vestitino nuovo che mi avete comprato per l’occasione.
 
Ma non è mai stato così. È sempre stato arrivare in ritardo alla cerimonia e solo io e te, mamma, perché lui era sempre troppo ubbriaco per riuscire ad alzarsi in tempo, tu che mi trascinavi corredo sui tacchi dell’ultima festa, perché non avevi avuto coraggio di chiedergli soldi per comprare delle scarpe nuove. Io che avevo solo voglia di scomparire, con i vestiti orrendi che mi avevi messo addosso, vestiti che odiavo, che, forse, avevi scelto proprio per questo, vestiti che mi facevano sentire, o sembrare, o entrambe, brutta.
 
È sempre stato andare al ristorante e la storia che si ripeteva, sempre uguale, sempre terribile. Avevo imparato a distinguere le fasi e le contavo aspettando, silenziosa, ferita, stremata, che passassero tutte, anche quella peggiore: il ritorno a casa. C’era lui che arrivava e si comportava come se la festa fosse sua, nel senso peggiore, smaniando, urlando, intrattenendo come un volgare comico ubriaco. Le sue parolacce, le sue battute, il suo modo di umiliare noi, me e te, per mostrarsi, non so, virile? Padrone?, di fronte agli altri, me lo ricordo ancora e ancora, mi fa paura. Così come ricordo gli sguardi degli altri, che passavano dal compatimento, al disprezzo, al fastidio. Gli altri, che smettevano di chiedermi perché parlassi così poco quando lui iniziava a dire quelle cose orribili, su di me, che ero solo una bambina, a farmi cadere, a farmi sporcare, perché umiliarmi era l’unica cosa che voleva festeggiare in quelle occasioni. E tu, zitta, sorridevi per le apparenze, e ignoravi i miei sguardi umidi di lacrime trattenute e di suppliche.
 
È sempre stato tornare a casa e ascoltare voi che litigavate. Perché c’era sempre qualcosa, c’eri tu che avevi detto una parola di troppo per i suoi gusti, c’era lui che aveva esagerato tanto da farti arrabbiare e percepire l’umiliazione. E c’ero io, che andavo in camera mia e rimanevo lì, ad aspettare che le acque si calmassero. Ma le acque non si calmavano, non subito: prima, diventavano onde enormi che si scagliavano contro di me, perché a un certo punto, l’unico accordo a cui riuscivate a giungere, era che fosse tutta colpa mia, in un modo o nell’altro.
 
Le bomboniere, per un po’, rimanevano. Stavano lì, sul muretto del camino, e mi ricordavano quanto odiassi le cerimonie, quanto l’ultima volta avesse fatto più male della precedente. Ma mi piacevano. Le prendevo tra le mani e accarezzavo il tulle, la porcellana, i confetti bianchissimi. Anche a te piacevano, mamma, ed è per questo che avrei voluto averle nella mia vita.
 
Ti piacevano e quindi, come tutte le cose che amavi, diventavano un’arma contro di te, quando litigavate. Vi sentivo urlare dalla mia stanza, per quanto mi sforzassi di pensare più forte dei vostri deliri. Sentivo cose rompersi, cadere a terra e frantumarsi, mobili tremare, te piangere e soccombere.  
 
Tieni la tua cazzo di bomboniera.
 
Poi cocci che si spaccavano, te che urlavi.
Quando lui tornava nel suo sonno mancato, ucciso, solo in apparenza, dalla sua stessa dipendenza, io scendevo le scale ed era ancora tutto lì. Tra le sedie rovesciate e i vetri, il mio sguardo cercava sempre quella. E lo trovavo. Sul pavimento, un braccio della ballerina di porcellana, o l’ala in fil di ferro e tulle di un angioletto. La guardavo e mi chiedevo se sarei riuscita ad aggiustarla, ma poi capivo che non si può aggiustare la mattonella, quando il mondo crolla a pezzi.
 
Alla fine, avevo rinunciato a desiderarne una. Quasi non mi faceva più male, quado la vedevo mutilata a terra. Quasi. Alla fine, avevo imparato a non affezionarmi più a niente.
 
Una piccola parte di me, però, ha sempre continuato a desiderarle. Me ne rendevo conto quando andavo a casa di altre persone e rimanevo affascinata da quei mobiletti antichi con il vetro, dietro al quale si esibivano tane bomboniere, diverse tra loro, tutte bellissime. Ma ormai cresciuta, le piccole cose mi sembravano solo il ricordo di quello che non avevo potuto avere.
 
 
È un vero peccato che per i funerali non si usi regalare delle bomboniere: finalmente, avrei avuto la mia, e nessun avrebbe avuto il coraggio di romperla.
 
 
                
   
 
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